Autore Majgull Axelsson
Titolo Io non mi chiamo Miriam
EdizioneIperborea, Milano, 2016, n. 267 , pag. 564, cop.fle., dim. 10x20x3,7 cm , Isbn 978-88-7091-467-2
OriginaleJag heter inte Miriam
EdizioneBromberg, Stoccolma, 2014
PrefazioneBjörn Larsson
TraduttoreLaura Cangemi
LettoreGiorgio Crepe, 2017
Classe narrativa svedese , storia criminale , storia: Europa












 

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Indice


Il vestibolo                                      7

Dopo la morte, prima della vita                  63

Al germinar di gemme e di germogli              167

Vita nel lager                                  225

Nel parco civico del paradiso                   321

Il treno fantasma                               369

Il bambino in cantina                           465


Post Scriptum                                   541

Bibliografia                                    545

Postfazione di Björn Larsson                    549

Nota sull'autrice di Laura Cangemi              561


 

 

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Pagina 9

È ancora notte, eppure splende il sole.

Nässjö riposa immobile sotto il cielo azzurro. Niente sussurri di vento tra le betulle del parco civico; niente rombi di motori lungo Rådhusgatan; niente sibili di treni diretti alla stazione. Regna un silenzio tale che un piccione solitario che attraversa a passetti dondolanti Stora Torget si blocca di colpo e ascolta quella stranezza. Rimane assolutamente immobile con la testa di lato, in vigile attesa, ma poi vede poco più in là un pezzo di pane da hot dog e dimentica tutto: una zampetta rossa davanti all'altra, si affretta da quella parte pregustandosi la mangiata con muta felicità. Non che soffra la fame. Ormai non la soffre nessuno a Nässjö, nemmeno gli uccelli o i topi. C'è cibo a sufficienza per tutti.

Eppure, Miriam sogna la fame. Sono più di sessant'anni che si nasconde in questa città e non ha avuto fame neanche per un'ora, eppure ogni notte sogna le privazioni della sua giovinezza. Non ha niente a che vedere con la vita che ha vissuto da adulta o con quello che è oggi, e tuttavia non riesce a sbarazzarsi di quei sogni: s'infilano nel sonno e se ne impossessano, proiettandola a forza sessantotto anni indietro nel tempo o anche di più e costringendola a chinare la testa e scappare, abbassare lo sguardo e curvare la schiena, rubare un tozzo di pane a chi non ha la forza di mangiare, cercare di imboccare un fratellino che non riesce più nemmeno a deglutire, mettersi vicina a Else all'adunata e snocciolare sottovoce l'alfabeto per poi fissare lo sguardo nei suoi occhi innaturalmente grandi, quegli occhi che...

Tutto questo si ripete, notte dopo notte. E se per di più a Kaiser, il pastore tedesco del vicino, salta in mente di mettersi ad abbaiare quando lo lasciano uscire in giardino la mattina presto, Miriam apre gli occhi con le viscere brucianti di terrore.

Ma stanotte Kaiser non abbaia, dorme ancora nel letto del suo padrone grassoccio, e così lei può concedersi di svegliarsi lentamente e indugiare nel vestibolo tra sonno e veglia. È la stanza che predilige: una stanza molto reale, sebbene esista solo nella sua fantasia, una stanza in cui è in grado di governare i sogni e addolcirli, una stanza in cui tutti i morti sono ancora vivi, in cui lei è libera di essere chiunque e ovunque, libera di fluttuare tra epoche e luoghi, tra ricordi, sogno e realtà. Però non lo fa. Non stanotte. Al contrario, si ferma e si guarda intorno notando che questa mattina il vestibolo è sferico e che tutti gli sportelli sono socchiusi. Ieri erano ottantaquattro, ma oggi sono diventati ottantacinque e lei lo sa senza bisogno di contarli. Inoltre sono tutti in teak e provvisti di maniglie lucide. A dire il vero somigliano ai pensili della prima cucina davvero sua, quella che ha amato più profondamente e ardentemente di quanto non abbia mai amato Olof, il che non è poco. Ma non è a questo che pensa adesso. Sta davanti ai suoi sportelli e li scruta cercando di risalire a quali sono i primi e quali gli ultimi ma guardandosi bene dallo spalancarne qualcuno. Ed ecco che dietro un'anta scorge un lembo di cotone a righe. Le basta: allunga una mano e la chiude con forza, ripetendo l'operazione sui quindici sportelli precedenti e i cinque successivi, che sbatte con colpi brevi e secchi. Bang-bang-bang! Poi si guarda intorno e rilassa le spalle, sorride e si appoggia sulla spalla la lunga treccia bianca per poi passarsela sotto il naso come se fosse un animaletto domestico in cerca di coccole. Ecco fatto: è il momento di festeggiare il compleanno da sola, prima che il resto della famiglia si svegli e disturbi i suoi ricordi.

Per quasi mezz'ora sbircia nei molti sportelli della sua memoria. Ecco il piccolo Thomas correrle incontro e lei stringerlo forte tra le braccia e farlo girare in tondo, in tondo, mentre la gonna a pois le si solleva intorno alle gambe e la risata infantile la trascina con sé. Eccola damigella d'onore al matrimonio di Hanna, con il bouquet che le trema in mano quando la sposa scoppia in un pianto dirotto nell'istante in cui Egon le infila l'anello al dito. Sono così felice, biascica Hanna passandosi in modo del tutto inopportuno la destra inguantata sotto il naso. Scusate! È solo che sono così felice! E tutti sorridono. Sorride Egon e sorride Olof, sorridono il sindaco e l'ufficiale dello stato civile e sorride Miriam, ma a un tratto Thomas si mette a piagnucolare e lei si affretta a rimboccargli intorno la copertina di cotone azzurro. Dietro l'anta successiva è lei la sposa e si accorge di essere molto bella mentre percorre la navata in abito bianco. Molto giovane, molto scura di capelli e molto bella, ma accanto a lei Olof ha l'aria vagamente ansiosa.

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Pagina 20

Kaiser è un cane idiota. Deficiente. Non sa e non vuole pensare, non fa che scattare da un lato all'altro del giardino fingendosi tutore dell'ordine. Tuona e strepita. Alla larga, passerotti, arrivo io! Ringhia e guaisce. Attenti, maledetti scoiattoli, la pace è finita! Sbraita e inveisce. Muori, odiosissimo merlo, prima che ti stacchi la testa con un morso! Il tutto seguito da un borbottio compiaciuto. Ecco fatto! L'avete voluta voi. Qui sono io a mantenere l'ordine! Almeno fino a quando non arriva il mio padrone.

Il padrone di Kaiser è appena più intelligente del suo cane, ma altrettanto portato a comandare. Quando apre la portafinestra del patio, il pastore tedesco diventa mansueto e deferente: le orecchie si appiattiscono, la coda si abbassa, il corpo intero viene attirato a terra, sottomesso.

«Taci, Kaiser!» ruggisce il padrone sollevandosi la maglietta e grattandosi la pancia pelosa. «Hai capito o no? Tieni chiusa quella boccaccia...»

Naturalmente il cane non capisce una parola, ma sa che il padrone è superiore a lui nella gerarchia, e per questo continua a mostrare sottomissione. Scusate se esisto, dice con il linguaggio del corpo. Perdonatemi se sono venuto al mondo. C'è qualcosa che posso fare per conquistare l'approvazione di vostra eminenza? Qualcuno da spaventare in modo che il mondo non capisca quanta paura avete, supremo dominatore? Qualcuno a cui posso fare una bella sfuriata? Qualcuno a cui mordere un polpaccio? Mi piacerebbe tanto addentare la gamba a uno dei vostri nemici...

«Taci e basta», ripete il padrone ancora una volta. Poi sbatte la portafinestra e sparisce. Kaiser si accuccia docile a terra e ci rimane un minuto intero, finché un lucherino si ferma su un cespuglio davanti a lui. Eh no, per la miseria! Un altro uccello, proprio qui nel giardino del suo padrone! Lo farà fuori, quel maledetto fringuello!

E si rimette ad abbaiare.

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Pagina 22

I latrati svegliano Miriam sul serio.

Si alza a sedere nel letto e si tappa la bocca con una mano come per costringerla al silenzio mentre l'altra corre al cuore, come per indurlo a rallentare i battiti. Non è tornata indietro nel tempo. Quella ormai è storia. Non si trova in Germania. Non è in una cella del blocco punitivo del campo di concentramento.

Eppure è di nuovo lì. Il tempo cessa di esistere. Sente una sorvegliante, un' Aufseherin, camminare facendo risuonare i tacchi tra le celle con il suo pastore tedesco, uno di quei cani da guardia incredibilmente ubbidienti di Ravensbrück, una creatura che sa con estrema precisione cosa ci si aspetta che faccia in quel corridoio. L'odore dei prigionieri filtra fuori nonostante le porte di ferro aderiscano al cemento del telaio. Le molecole del terrore attraversano l'aria raggiungendo le sue narici e colmandolo di un appagante senso di trionfo, ma alcune hanno una forma diversa. Lo scostamento è minuscolo, eppure sufficiente per farlo agitare. Disprezzo! Dietro alcune di quelle porte ci sono nemici che lo disprezzano e – cosa ancora peggiore – disprezzano la sua padrona. È terribile! Li ucciderà!

Però non gli viene concesso. Nel blocco punitivo si deve morire lentamente: la sua padrona ha ricevuto istruzioni precise e per questo lo tiene stretto al guinzaglio, anche se sorride con indulgenza del suo ringhio sordo. La vita dovrà scorrere via piano piano dalle prigioniere che saranno frustate quel venerdì, stillerà dalle loro schiene striate di blu sotto forma di nere gocce di sangue ed essudato. La fame farà contorcere negli spasmi i corpi denutriti delle donne a digiuno da quattro giorni, e anche quelle che per pura sfida si sono alzate e sono rimaste in piedi sentiranno presto cedere le gambe mentre la morte spalanca le sue fauci nere sotto di loro. E quelle che da settimane si trovano in una cella buia verranno assediate di colpo da terrificanti sogni a occhi aperti, strappate dalle allucinazioni di spiagge sabbiose, palme e acque aperte che le tengono in vita da giorni per essere trasportate verso fantasie su un piccolo canile in cui le aspettano le belve dei nazisti. Grandi pastori tedeschi neri si raccolgono davanti a loro; grandi pastori tedeschi di razza pura che mostrano i denti ringhiando sordi e rizzando il pelo e...

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Pagina 27

«Con tanti auguri di buon compleanno, da parte di tutti noi.»

Anche Miriam lo prende con entrambe le mani. Non è poi così pesante.

«Oh», dice. «Grazie. Grazie mille.»

È difficile da aprire. Il nastrino dorato è stretto e ha un doppio nodo che la costringe a lavorare di unghie e tirare per un po' prima di riuscire a toglierlo. Appena ce la fa, Sixten se ne impossessa e lo mette in bocca ma Camilla allunga subito la mano e glielo prende. No, non si fa così! No! Nel frattempo Miriam strappa impaziente la carta intorno alla scatola di cartone e la apre. Abbassa lo sguardo sulla carta velina rosa, poi la solleva e scopre il regalo.

Un bracciale rigido in argento. Un bracciale molto largo, in filigrana d'argento a motivi intrecciati, dalle forme pulite nonostante le decorazioni, e di una bellezza infinita. Papà, dice una voce dentro di lei, ma come al solito non dà retta alla nostalgia e scuote appena la testa per sbarazzarsene.

«Oh», dice. «È bellissimo. Grazie!»

«È stata Camilla a scovarlo», spiega Thomas. «Secondo lei sembrava fatto apposta per te. E guarda sotto il fermaglio!»

Miriam inclina il bracciale e vede l'incisione. A Miriam nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno. E poi la data. Miriam.

«È un pezzo di artigianato zingaro», dice Thomas.

«Rom, quindi», precisa Camilla.

Miriam avverte un fremito dentro di sé e altri nomi vengono a galla nello spazio. Ecco Anuscha che ride, gli occhi scuri che scintillano mentre attraversa di corsa il cortile. Ecco il sorriso scavato di Else che si presenta con tanto di cognome, come se Miriam fosse qualcuno che merita una presentazione. Else Nielsen. Ecco una sorvegliante che solleva la frusta e urla. Mi chiamo Binz! Imparatelo una volta per tutte, perché non ho intenzione di ripetervelo! Ecco suo fratello che la fissa con un'ultima domanda nello sguardo. Perché hai quell'aria inorridita, Malika? Sono io, Didi, il tuo fratellino. Le lacrime le salgono agli occhi costringendola a battere le palpebre per scacciarle e le parole le balenano nella testa, quelle parole che non può dire, quelle parole che non ha mai detto, non una sola volta da quando è arrivata in Svezia. Io non mi chiamo Miriam. Tira su col naso, deglutisce, alza la testa e guarda Thomas, di cui è madre in ogni senso tranne uno e che, pur essendole più vicino di chiunque altro al mondo, è un estraneo. Gli ha mentito. L'ha fatto crescere in una menzogna e ha lasciato che vivesse tutta la sua vita adulta protetto da quella menzogna.

Poi lo dice. Poi lascia che quelle parole le affiorino alle labbra.

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Pagina 36

Vietato, dice Miriam a se stessa. È davanti allo specchio dell'ingresso, le braccia strette intorno al corpo. Vietato dirlo. Mai più!

Ha i capelli ancora bagnati dopo la doccia e non le stanno bene. A dirla tutta la fanno sembrare una strega, una strega decrepita e tutta rugosa. Quando si bagnano assumono una strana sfumatura grigia che a sua volta le rende il viso più vecchio del solito. Le rughe si fanno più marcate e i lineamenti ancora più flosci. L'effetto è pessimo. E il nasone che risalta in mezzo a tutta quella bruttezza non migliora certo le cose. Neanche un po'. In questo momento la si potrebbe usare come spaventapasseri.

Con un piccolo sospiro volta le spalle all'immagine riflessa, pensa di sfuggita che deve tornare in camera, fare il letto e poi tirare fuori il phon ma si blocca nel bel mezzo del soggiorno e rimane lì qualche istante con le mani nelle tasche della vestaglia e lo sguardo perso lontano, per poi sedersi lentamente sul divano. Deve stare attenta! È così e basta. Non può permettere che qualcuno venga a sapere la verità, non può neanche concedersi di confessarla a se stessa. Deve continuare a vivere come ha vissuto la maggior parte della sua vita, senza lasciare che quanto è accaduto più di una generazione fa rovini gli anni o i mesi o i giorni che le restano. Non può nemmeno continuare a rimuginarci sopra. Prima o poi bisogna metterci una fine. Dopotutto è stato un periodo breve. E tantissimo tempo fa. Due anni al convento e due e mezzo in campo di concentramento. Poi la Svezia, un nuovo nome e una nuova vita. Una vita che dura da sessantotto anni. E sono quelli che dovrebbero riempirle la mente, il ricordo di Hanna e Olof e del figlio che ha avuto nonostante tutto, quel figlio che è cresciuto e le ha dato una nipote e un pronipote. Thomas, Camilla e Sixten. È a loro che dovrebbe pensare in un giorno come questo, quello che sostiene essere il suo ottantacinquesimo compleanno. Non che sappia come stiano le cose in realtà. Ignora la sua data di nascita e a dire il vero non è sicura nemmeno dell'anno. Ma dato che è riuscita a convincere il mondo intero che è nata il 21 giugno 1928, non è irragionevole pensare che sia successo proprio in quella data o magari un anno prima o dopo. E allora tanto vale che continui a crederci pure lei. Perché se non lo fa e comincia a farneticare su come stanno davvero le cose è probabile che finisca all'istante in casa di riposo e lì non ci vuole proprio andare. Quindi non è concesso pensare a come si chiama in realtà o a quando è nata. Dopotutto lei è Miriam. E oggi compie ottantacinque anni. Il giorno della vigilia di mezz'estate.

Inspira a fondo e cerca di calarsi nella pace della stanza, decisa a essere tranquilla e controllata come i colori lì dentro, sforzandosi di dominare le immagini interiori per dare spazio a quelle esteriori. Il ritratto della nonna paterna di Olof sorride con la stessa dolcezza di sempre e anche se non si sono mai incontrate sa che quel sorriso è rivolto anche a lei, alla Miriam Adolfsson che si era finta ebrea senza avere idea di cosa comportasse la fede ebraica e che poi si è convertita diventando protestante per arrivare infine a essere agnostica. Anche la nonna paterna di Olof era moglie di un dentista e agnostica, anche lei era diventata vedova prematuramente e anche lei si era trasferita nell'appartamentino al primo piano quando Olof e la sua prima moglie erano andati ad abitare al piano terra. Sei mesi dopo l'avevano portata via. Era morta nel sonno una luminosa notte primaverile, e Olof sosteneva che avesse mantenuto il suo caldo sorriso anche nella morte. Miriam faticava a crederci perché nessuno dei tanti cadaveri visti aveva mai avuto un sorriso caldo sulle labbra, ma adesso, sessant'anni dopo, comincia a intuire che poteva anche aver ragione lui. Una persona felice può esserlo anche nella morte. Una persona sorridente può continuare a sorridere anche nella morte.

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Pagina 68

Finalmente sola. Per cinque intere giornate. Miriam rimase nell'ingresso qualche istante, ascoltando i tacchi di Hanna che risuonavano sul marmo delle scale e la sua voce acuta e cinguettante che diceva qualcosa, e poi Egon che rispondeva con il suo basso tenorile. Non si sentiva cosa dicevano ma ormai dovevano essere al piano terra, perché il portoncino si aprì e un paio di secondi dopo si richiuse. Via, se n'erano andati. Spariti.

Miriam batté gli occhi come se si fosse appena svegliata e si guardò intorno nell'ingresso buio. Il piccolo tappeto persiano era finito di traverso. Lo sistemò con il piede, per poi fare un sospiro leggero e lasciarsi andare. Abbassò un po' le spalle. Cancellò l'espressione gentile e piena di aspettative che aveva sempre quando Hanna era nei paraggi. Fece un secondo sospiro e andò molto lentamente nel salone, guardandosi intorno come se lo vedesse per la prima volta, come se non avesse spolverato tutti i mobili e fino all'ultima statuina di ceramica ogni mattina da più di due anni. Ecco la bassa libreria. L'insulso divano screziato di marrone. La profonda poltrona rivestita di un qualche genere di tessuto beige fiorato e bioccoluto, che in base a un principio inespresso e scontato era riservata a Hanna e su cui era altrettanto scontato che Miriam mai si sarebbe sognata di sedersi. La radio sul tavolino lì accanto. D'un tratto fu tentata di accenderla e cominciare a girare le manopole in cerca di una lingua nota, una lingua che le sarebbe scivolata dentro senza attrito e la cui comprensione non le sarebbe costata alcuno sforzo. Il tedesco, per esempio. O il romanés.

«Ah!»

Trasalì a quell'esclamazione sarcastica e le ci volle un decimo di secondo a rendersi conto che era venuta da lei. E perché no? Certo era ridicolo pensare che qualcuno parlasse romanés alla radio. In svedese la chiamavano la lingua dei delinquenti: l'aveva sentito dire una volta mentre serviva il caffè ad alcune colleghe di Hanna. Una di loro aveva con sé un piccolo vocabolario che aveva scatenato una discussione tra le signore. Era davvero il gergo dei criminali? Oppure era la lingua zingara, come sostenevano alcuni studiosi? E che posizione si doveva prendere, allora, nei confronti del fatto che alcune di quelle parole si stessero intrufolando nella lingua svedese, intaccandone la purezza? Ascoltando la discussione, Miriam aveva provato un fremito, ma non aveva detto niente. Naturale. Pur non essendo una normale domestica, infatti, sapeva stare al suo posto. Non aveva intenzione di rivelare chi era e da dove veniva, perché quello era un paese freddo e se il prezzo per poter dormire sotto una trapunta calda era mentire, era disposta a farlo fino al giorno della sua morte. E anche se fosse rimasta a girare le manopole per sempre, alla radio non avrebbe certo mai sentito il romanés. In Svezia non c'erano zingari e anche se ci fossero stati non avrebbero di sicuro parlato alla radio: quello era un diritto riservato a chi aveva avuto il buon senso di nascere nelle famiglie giuste. I gağe. Gente istruita. Persone che sapevano e conoscevano tutto e non mentivano mai. Persone che giravano con il sorriso stampato sulle labbra e si assicuravano a vicenda di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Ma quel giorno Miriam non aveva intenzione di sorridere. Lo sapeva senza bisogno di parole. Quella vigilia di mezz'estate sarebbe solo stata se stessa. Era il giorno in cui si sarebbe finalmente concessa di ammettere quanto era faticoso essere tutto il tempo un'estranea, un'esclusa, una che in realtà non c'entrava. Ed era anche il giorno in cui avrebbe passato in rassegna i ricordi. Almeno una parte. Quelli che erano quasi sopportabili. La risata di papà. Gli occhi scintillanti di Anuscha. E poi Didi da piccolo. La manina nella sua. Il corpicino stretto al suo sul materasso che dividevano. Gli occhi neri. Il viso che si disintegrava e liquefaceva sotto i suoi occhi... Il noma! No! Era insopportabile!

«Oh, Didi!» esclamò una voce semisoffocata. La sua. «Ma ov mulo, av palpate! Non essere morto! Torna indietro!»

Il dolore la pervase scuotendola e facendola tremare così forte da costringerla ad afferrare lo schienale della poltrona per restare in piedi e poi l'avvolse come un bozzolo. Ed eccola rinchiusa. Prigioniera come allora. La pelle si staccò dalla carne restando sospesa a mezzo millimetro dal corpo e la nausea le risalì da dentro come una colonna mentre il mal di testa le calava pesante sulla fronte. Eppure sapeva che niente di tutto questo si vedeva, perché dentro di lei c'era ancora il buco che un tempo l'aveva resa quasi adulta nonostante fosse ancora una bambina: il buco dell'osservazione fredda, quello che si era spalancato grande e nero e brinato già ad Auschwitz e che grazie al suo gelo l'aveva fatta sopravvivere sia a Ravensbrück che al «treno fantasma» con cui era arrivata in Danimarca. Perfino quando era caduta in uno stato di incoscienza era riuscita a non scoprirsi. E ora sapeva di essere rigida sull'attenti come per l'appello nel bel mezzo del salone di Hanna e anche di avere sulla faccia la stessa espressione neutra rimasta invariata dal giorno dell'arrivo al convento. Ma ce l'aveva fatta. Era una sopravvissuta. A quanto sapeva era l'unica rom sopravvissuta sia ad Auschwitz che a Ravensbrück, e di conseguenza sarebbe sopravvissuta anche a Hanna e a Jönköping e alla Croce Rossa!

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Pagina 85

Nippon si affrettò a scendere in strada e fece subito la pipì contro il muro della casa. Erano diverse ore che quel poveretto non usciva. Miriam si chinò ad accarezzarlo sul dorso morbido come la seta. Lui rispose subito leccandole la mano. Nippon era un tesoro. Hanna aveva ragione.

«Allora», disse parlandogli nel suo tono più affabile. «Da che parte andiamo?»

La risposta era scontata. Níppon voleva andare al prato davanti a Sofiakyrkan. In effetti Hanna le aveva fatto notare che forse non era il luogo più opportuno per portarlo a passeggio, considerato che Jönköping era la città che era, ma in quel momento Miriam era pronta a infischiarsene dell'opinione di Hanna. Anzi, era pronta a infischiarsene dell'opinione di tutti quanti. Di più: era pronta a dare una lezione a chiunque. Uno schiaffo a un perfetto sconosciuto. Un calcio nel didietro a un altro. Per un attimo vide se stessa rincorrere qualcuno, per esempio quell'uomo che camminava dall'altra parte della strada a braccetto della moglie dall'aria schizzinosa, e dargli uno spintone facendolo cadere a terra e poi sferrargli un calcio in faccia così forte da provocargli il sangue dal naso...

Dio santo! Cosa le era preso?

Strizzò gli occhi e sbirciò su e giù per la via. Era praticamente deserta. Nessuno la seguiva con lo sguardo stringendo il pugno. Nessuno sollevava una frusta. Nessuno faceva un sorrisino storto con la mano sulla fondina. Le uniche persone in vista erano quel signore appena scampato al sangue dal naso e sua moglie, e poi una vecchia che avanzava a fatica sul lato opposto della chiesa. Dunque nessuno aveva visto la rabbia esploderle dentro all'improvviso. Il riverbero bianco non aveva accecato altri che lei e doveva solo restare ferma qualche istante per recuperare la vista e lasciare che il cuore rallentasse i battiti.

Else le aveva insegnato a dare un nome a tutte le emozioni. In norvegese, però. Sapeva cosa significava essere delusi, esausti e giù di corda, provare tristezza e odiare, essere affamati e tormentati dal dolore fisico. Sì, sapeva perfino cosa voleva dire sentirsi contenta, ma aveva quasi dimenticato quello che aveva appena provato. Era un sentimento della sua infanzia, qualcosa che non le succedeva da quando era piccola, nei momenti in cui i piagnucolii di Didi la facevano impazzire e le continue pretese e strigliate del papà la esasperavano e quella strega di Anuscha le tirava forte i capelli, non una ma più volte. Alla fine le aveva mollato un ceffone. Si era sentito solo uno smac e un attimo dopo Anuscha era lì rannicchiata a frignare sui ciottoli del cortile. Ben le stava! Così imparava che non si dovevano fare i dispetti a Malika.

Si bloccò, sebbene Nippon tirasse il guinzaglio e volesse arrivare a una zolla d'erba particolarmente profumata un po' più in là. Rabbia? Era davvero quella che provava? Si era arrabbiata? Molto arrabbiata? Per la prima volta da otto anni a quella parte? Sì! I ricordi arrivarono sbattendo le ali al di sopra del prato come uno stormo di cornacchie nere che confermavano tutto gracchiando. Sì! Sì! Sì! Era arrabbiata. Fuori di sé! Furibonda! E aveva tutte le ragioni per esserlo! Era furibonda nei confronti della Germania e dei tedeschi, di quegli stramaledetti poliziotti della Kripo che l'avevano strappata da casa sua, di suo padre che non era riuscito a difendere né lei né Didi, di quelle suore del diavolo con il loro eterno blaterare su Gesù e i loro altrettanto eterni schiaffi, di quel vecchiaccio che era stato spinto accanto a loro sul treno per Auschwitz e si era rifiutato di dare a lei e Didi un pezzetto del suo pane perché erano zingari – lo sapeva, eccome se lo sapeva, e gli zingari non gli piacevano – di quei fantasmi a strisce che l'avevano costretta a scendere dal treno con Didi in braccio anche se il salto era così alto, di quei bastardi vestiti di nero e con il teschio sul berretto che li avevano messi a forza nel settore del campo riservato agli zingari, di quella befana rumena che aveva cercato di fregare la minestra a Didi, degli ebrei sprovveduti che passavano marciando al di là del filo spinato senza capire che di lì a poco li avrebbero gasati, del dottor Mengele che a intervalli regolari entrava impettito nel settore degli zingari e distribuiva caramelle alle sue piccole cavie prima di aggredirle con veleni e bisturi, delle maledettissime comuniste ceche che sul treno per Ravensbrück le avevano dato della sporca zingara, delle detestabili guardie che c'erano lì, delle «asociali», delle Muselmänner che si aggiravano barcollando e senza dire una parola riuscivano ad affermare che era meglio la morte, che niente poteva essere peggio che continuare a vivere, di Else che si era permessa di morire invece di spiegare le sue nere ali d'angelo e lanciare una scia di fuoco contro i suoi carnefici, di Lykke che l'aveva trascinata a bordo del treno fantasma, della crocerossina che l'aveva fatta riemergere dalla beatitudine dell'incoscienza infilandole a forza in bocca pappa lattea e pappa lattea e ancora pappa lattea, e di Hanna, quella maledetta strega che le aveva salvato la vita, l'aveva portata a Jönköping e l'aveva costretta a continuare a mentire per poter sopravvivere! Sì, certo che era stata costretta! Perché chi sarebbe stata se non avesse mentito? Come avrebbe potuto vivere? Come a Ravensbrück, come ad Auschwitz, con la sola differenza che l'avrebbero cacciata di luogo in luogo, di città in città, di villaggio in villaggio. Non era capace di vivere così. Ma come avrebbe potuto sopportare la menzogna per un'intera lunga vita?

Nippon strattonò di nuovo il guinzaglio e per un secondo Miriam temette di cadere, ma poi raddrizzò la schiena e lo seguì sull'erba. Se ne infischiava di quei ridicoli abitanti di Jönköping che avrebbero voluto introdurre la pena di morte per chi calpestava le aiuole. Che provassero a fermarla! Allora sì che si sarebbe trasformata in Malika, ma una Malika con una sufficiente dose di Miriam dentro da dimostrare quante imprecazioni svedesi aveva fatto sue, senza mai pronunciarle. Perché gli zingari hanno il dono delle lingue. C'era scritto sul Nordisk familjebok e quindi doveva essere vero. Perché – ultima della lista, ma non per questo meno importante – era furibonda pure nei confronti dell'enciclopedia, e in particolare dei bastardi che avevano scritto un certo paragrafo sotto la lettera Z. «Quanto al carattere, gli zingari sono ormai ovunque descritti come indolenti, bugiardi e vendicativi, a volte servili e a volte fastidiosamente impudenti. Tutte caratteristiche che costituiscono una conseguenza naturale della loro vita itinerante, ma in parte o anche di più del loro destino di essere sempre oggetto di disprezzo e biasimo.» Bastardi che sostenevano che gli zingari non volevano vivere in case e desideravano solo vagare per le strade! Che gli zingari non riuscivano ad arrossire! Il che comportava, sottinteso, che non sapessero provare vergogna. Che gli zingarelli venivano mandati in giro a rubare! Però, aggiungevano quei bastardi, in realtà non era vero che gli zingari rapivano i figli di altri. Grazie tante! Grazie di cuore, brutti stronzi!

Non viveva forse in una casa quando era ancora rom?

Eccome.

Non aveva forse imparato a vergognarsi quando era bambina?

Eccome.

Non sapeva arrossire?

Eccome.

Era mai stata mandata in giro a rubare?

No.

Aveva mai rubato qualcosa in vita sua?

No. Anzi sì. Ad Auschwitz aveva tirato fuori dalle dita di una ragazza svenuta un pezzetto di pane per cercare di darlo a Didi, ma con scarsi risultati. Ormai lui non riusciva più a mangiare. E allora l'aveva fatto fuori lei. Tre bocconi di pane nero con la segatura. L'unica cosa che aveva rubato in vita sua.

Era pigra, vendicativa e bugiarda?

Pigra no. Vendicativa nemmeno. Ma...

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Pagina 99

«Sparate, insomma, per la miseria!» gridò un ufficiale delle SS da un punto indefinito, e tre sottoposti ubbidirono immediatamente. Risuonarono tre lunghe raffiche. L'urlo cessò.

Forse fu per colpa di quell'ebrea impazzita se al momento di salire a bordo si scatenò il caos. Quando furono aperte le porte scorrevoli le colonne ordinate si sciolsero in meno di dieci secondi, i cani presero a saltare e abbaiare, i soldati delle SS a sbraitare e le donne a spingersi e schiacciarsi, darsi ginocchiate e gomitate, pizzicare quelle che erano riuscite a mettersi davanti e graffiare quelle già appese al portellone, il tutto sbuffando, imprecando e gridando.

Malika aveva avuto fortuna. Essendo la seconda da sinistra nella seconda colonna delle zingare era finita proprio davanti all'apertura del quarto vagone. Ed era brava a sgomitare, straordinariamente abile nel farsi strada in mezzo al branco che all'improvviso si era lanciato verso il vagone, abbastanza forte da essere la terza a salire a bordo, tanto sveglia da gettare un'occhiata all'interno e scegliere l'angolo sinistro, proprio accanto al bidone dell'acqua e dove si vedeva perfino un piccolo rialzo su cui poter salire se la ressa fosse diventata insopportabile. Mise le mani a coppa e bevve alcuni sorsi d'acqua mentre il resto delle donne cominciava a riversarsi dentro, poi si accucciò per un attimo nell'angolo e le osservò. Per lo più polacche e ceche, che portavano triangoli rossi con una grossa P o T. Le altre erano ebree con la loro stella gialla. Solo una decina aveva il suo stesso triangolo marrone. Evidentemente la maggior parte delle zingare era riuscita a salire sui vagoni dietro. Non che ne sentisse la mancanza. Non le importava niente di nessuna di loro. Non aveva più un popolo né amici né famiglia. Era sola. Non apparteneva che a se stessa.

Erano passati sei giorni dalla morte di Didi e in quei sei giorni si era via via sbiadita finendo in pratica per annullarsi. Aveva aperto bocca solo due volte, durante la selezione per il trasferimento a Ravensbrück: aveva detto la matricola e risposto sì a una domanda. Poi basta. Per il resto aveva taciuto. Se non fosse arrivato quel trasferimento sarebbe diventata una Muselmann, una di quelle creature così consumate dalla fame da non essere più veramente vive, pur respirando ancora. Forse lo era già. Non lo sapeva.

Le altre donne non lo erano. Gridavano e vociavano e sgomitavano e spingevano, ma lei non capiva cosa dicessero. Non sapeva né il polacco né il ceco né lo yiddish, e non c'era nessuno che parlasse tedesco o romanés. La cosa le era indifferente. La ressa no, invece. Il vagone era già talmente pieno che nessuna di loro poteva sedersi e ancor meno stendersi sul pavimento, eppure gli uomini delle SS là fuori urlavano e premevano con i manganelli perché ne potessero entrare altre. Lei salì sul rialzo e si rimpicciolì nell'angolo. Tre ragazze ceche vennero premute contro la sua pancia e le sue cosce. Non faceva niente, anzi, era quasi meglio, perché con la testa e le spalle la tenevano su. Ecco, così. Era almeno venti centimetri al di sopra delle altre, il che le permetteva di respirare meglio. E nella tasca destra c'era un pezzo di pane che aveva conservato. Se il viaggio fosse durato meno di tre giorni, poteva sopravvivere. Forse non sarebbe arrivata in gran forma, ma viva, questo sì.

Un uomo delle SS sbraitò dall'apertura e spinse dentro l'ultima donna che, con il naso sanguinante, si afferrò con entrambe le mani al vestito di un'altra e le si premette contro. Forse pensava anche lei che le avrebbero davvero portate a un campo di lavoro forzato. Le faceva male qualcosa, si capiva dalla smorfia che aveva in faccia, ma nello stesso tempo era ossessionata dall'idea di sopravvivere: si capiva anche questo. Il soldato delle SS le diede un altro spintone e imprecò, per poi allungarsi verso la porta e farla scorrere. Dentro il vagone calò il buio. In alto, su entrambi i lati, c'erano tre piccole prese d'aria da cui filtrava un po' della grigia luce dell'alba, ma per il resto regnava la penombra. Il treno ebbe uno scossone e le donne furono sbattute una contro l'altra. Poi il vagone si mosse lentamente.

Era luglio, ma con un po' di fortuna il tempo coperto degli ultimi giorni sarebbe continuato e il caldo non avrebbe costituito un problema. Magari sarebbe venuto giù anche qualche acquazzone. Inviò una preghiera al Gesù delle suore. Pioggia, per favore! Non chiedo altro. Un tempo veramente brutto. Poi chiuse gli occhi e decise di non esistere finché non fossero arrivati. Sarebbe solo rimasta lì, premuta nel suo angolo, a tacere e respirare.

Piano piano le altre donne smisero di parlare. Erano schiacciate le une contro le altre, alcune schiena contro schiena, altre faccia a faccia, e dondolavano un po' a ritmo con i movimenti del treno, ma nessuna rischiava di cadere. Erano troppo ammassate. Alcune rivolgevano il viso verso l'alto succhiando un po' dell'aria acidula e fresca che filtrava dai fori, altre si perdevano lontano con lo sguardo, altre ancora chiudevano gli occhi infossati cercando chiaramente di addormentarsi. Era come se nessuna di loro fosse veramente lì, come se tutte, fino all'ultima, avessero smesso di esistere, come se fossero penetrate in un altro mondo e quel vagone, quel treno, quel viaggio fossero solo un abominevole incubo.

Forse fu il tanfo a rompere alla fine la pace. L'odore di cacca. Lo percepì subito e sentì addirittura lo scroscio nel momento in cui una di loro cedeva alla diarrea da fame. Non fu l'unica a sentire. Nella ressa si percepì un movimento e qualcuna diede un grido, qualcun'altra cominciò a spingere, una terza lanciò un richiamo implorante, una quarta rispose strillando con voce stridula e un attimo dopo una rissa provocò un'onda nella calca, o almeno la cosa più simile a una rissa che si potesse mettere in atto. Le donne graffiavano e scorticavano, si strappavano a vicenda i fazzoletti bianchi dalla testa e si tiravano i capelli, scoprivano i denti e ringhiavano come belve feroci, lanciavano strilli pieni d'odio e mordevano. Una donna semicalva graffiò un'altra sulla guancia e una molto alta e ossuta si chinò sulla vicina e le addentò il collo. Di colpo il tanfo si fece mille volte peggio, perché sia chi mordeva che chi subiva cedette alla diarrea, e lo stesso le altre premute contro le pareti. Una delle ragazze rom prese a ululare e, stranamente, invocò Dio. Devel! Devel! Devel!

«Halt.!» gridò all'improvviso qualcuno, e in meno di un secondo tutte si immobilizzarono. Poi si resero conto che non era stato un tedesco e nemmeno un uomo a urlare, ma una prigioniera, e ripresero a graffiare e mordere. Lei però non si diede per vinta e continuò: «Halt! Halt! Halt!»

Era scheletrica come le altre e non molto alta, ma aveva una voce che imponeva a tutte di prestarle orecchio, roca e raschiata eppure penetrante al massimo. Malika vide che le donne intorno a lei si bloccavano e smettevano di picchiarsi, che alcune si passavano la mano sulla testa e controllavano che il fazzoletto bianco fosse al suo posto, e fu come se il loro improvviso rinsavimento si propagasse lentamente per tutto il vagone. Quella che aveva appena affondato i denti nel collo di un'altra alzò gli occhi e per un attimo sembrò confusa, poi si passò velocemente la mano sulla bocca come per cancellare il ricordo di quello che aveva fatto, e l'altra portò la propria al collo guardandosi intorno perplessa ma senza attaccare nessuna intorno a lei.

La donna dalla voce roca si mise a parlare in quello che doveva essere ceco e andò avanti a lungo. Evidentemente stava sgridando le altre. Alcune di quelle che capivano assunsero un'espressione di vergogna, altre mandarono giù la propria rabbia. Nessuna ribatté. Sembrava che tutte le ceche fossero disposte a ubbidirle. Le ebree parevano un po' spaventate e le rom si erano rannicchiate in un angolo in fondo a destra. Una aveva circondato con un braccio le spalle della ragazza che prima aveva invocato Dio ma che in quel momento, gli occhi chiusi, si appoggiava alla sorella o amica. Quando finalmente smise di parlare, la donna dalla voce roca si guardò intorno, facendo scorrere gli occhi su tutto il gruppo, si fermò un istante su Malika e poi scivolò oltre verso le ceche vergognose. Il silenzio era assoluto. Nessuno si muoveva o guardava la donna, che mormorò qualcosa per concludere senza che Malika lo sentisse. Chiuse gli occhi. Avevano cominciato a farle male le gambe, ma sapeva che scendere dal rialzo non sarebbe servito. Al livello del pavimento il tanfo era sicuramente anche peggiore.

Evitare di esistere. Era l'unica via d'uscita. Appoggiare la testa alla parete. Ascoltare il rumore dei giunti delle rotaie. Ammonirsi in tono severo. Dunc. Chiudi gli occhi. Dunc. Sta arrivando un piccolo mal di testa. Dunc. Non è niente di grave. Dunc. Sogna a occhi aperti! Dunc. E che cosa? Dunc. Una tavola imbandita, curva sotto íl peso del cibo. Dunc. La cena di Natale dalle suore. Dunc. Il leccalecca comprato una volta dal papà. Dunc. Sì! Quello che si erano divisi lei e Didi. Dunc. No, non pensare a Didi. Dunc. Può essere letale. Dunc. Non esiste un mondo al di fuori di questo. Dunc. È arrivata la fine del mondo. Dunc. Perciò non ci si può fantasticare sopra. Dunc. E qualcuno mi ha calato sulla fronte un cerchio di ferro. Dunc. Che t'importa? Dunc. Tanto sei già morta. Dunc. E allora come mai sento che viene stretto? Dunc. Che mi si conficca nella pelle? Dunc. Che mi frantuma l'osso frontale? Dunc. Che dei minuscoli pezzetti di osso mi entrano negli occhi? Dunc. Infischiatene. Dunc. Come faccio a infischiarmi della materia cerebrale che affiora? Dunc. Che mi scorre sul viso? Dunc. È solo un'impressione, tutto qui. Dunc. Pensa che in fondo è una specie di riposo. Dunc. Nessuno pretende che scavi dei fossi. Dunc. Nessuno ti costringe a trascinare sacconi pieni di terra. Dunc. Ma ho una nausea tremenda! Dunc. Cosa pensavi? Dunc. Di sentirti bene? Dunc. E mi gira tanto la testa. Dunc. Tra poco vomito. Dunc. Cos'hai da vomitare? Dunc. Niente. Dunc. Appunto. Dunc. Ma prendi un boccone di pane, adesso. Dunc. Un bocconcino di pane. Dunc. E se qualcuno mi vede? Dunc. Non ti vedrà nessuno. .cor Dunc. Sento il pane. Dunc. Ruvido sotto i polpastrelli. Dunc. Sì! Il pane! Dunc. Un pezzettino solo. Dunc. Ora ne stacco un pezzetto in tasca. Dunc. Ecco fatto. Piano! Dunc. Lo tengo tra il pollice e l'indice. Dunc. Bene. Dunc. Adesso portalo alla bocca. Dunc. Dai una leccata alla superficie scabra. Dunc. Mangia! Dunc.

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Pagina 174

Camilla deve fare uno sforzo per non lasciar trasparire la delusione. La nonna mente. Per la prima volta in vita sua è sicura che la nonna le stia mentendo.

«Ma qualche volta dovrà pur averti irritato!» dice alla fine. «E messo di cattivo umore.» Miriam avverte la leggera nota di delusione nella voce di Camilla e si costringe a riflettere. Ma sì. Certo. Ecco che le si affaccia alla mente il bambino, quello della cantina. Aveva quasi fatto una scenata a Olof, ma è un ricordo sgradevole, vagamente pauroso, che ha cercato in tutti i modi di rimuovere. Mai e poi mai sarebbe disposta a parlare a Camilla di lui e di sua madre. Inspira a fondo e fa del suo meglio per pensare agli altri giorni. Le migliaia di giorni normali in cui era stata la moglie di Olof. Protetta e protettiva. Certo a volte le capitava di provare una vaga irritazione, soprattutto quando le sembrava di essersi trasformata in un personaggio secondario nella propria vita. Olof era naturalmente il protagonista principale e come tale aveva le sue abitudini, belle e brutte. Logorroico ma pessimo nell'ascoltare. Mutande e calzini sporchi lasciati in un mucchio sul pavimento della camera da letto. Tazza del tè e briciole e giornale spalancato sul tavolo della cucina ogni santa mattina. E di certo si era sentita un pochino offesa quella volta che lui aveva coperto con la mano l'estratto conto della banca. Come se lei non avesse il diritto di vedere quanti risparmi avevano da parte dopo diversi decenni di matrimonio, come se lei fosse ancora la sua bambinaia o un'ospite occasionale. Fa un leggero sospiro.

«Sì, può darsi. E capitava che anche lui s'irritasse con me, ma...»

Ma io avevo troppo da perdere, pensa Miriam. E così, eccetto il caso del bambino in cantina, mi guardavo bene dal creare problemi. Chi ne crea rischia di essere smascherato e non volevo che succedesse. Per questo sorridevo, tacevo, mentivo. Ma cosa sarebbe successo se avessi detto la verità? Se un giorno fossi andata da Olof e gli avessi spiegato come stavano le cose? Che ero una rom. Una zingara. Che appartenevo allo stesso popolo di quelli che si accampavano giù a punta Adela. Questo comportava che in realtà non avevo il diritto di abitare in una casa, di cucinare su un fornello elettrico, di fare il bucato in quella magnifica lavatrice che mi aveva comprato? Mi avrebbe buttato fuori? Oppure avrebbe solo fatto un passo indietro guardandomi con disgusto e trasformandomi apertamente nella serva che sotto sotto ero già? E se mi avesse buttata fuori, sarei potuta tornare a una vita da rom? Ero poi davvero una rom, ormai? E lo sono adesso? Oppure non sono niente? Né rom né ebrea, né tedesca né svedese?

È un pensiero nuovo, che non ha mai concepito prima d'ora, e la preoccupa. Sente il corpo irrigidirsi e fa subito un respiro profondo per tornare a rilassarsi. Camilla non deve accorgersi di niente. Nessuno dovrà mai accorgersi di niente.

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Pagina 212

Non è del tutto vero. Sei mesi dopo lei e Olof erano stati invitati a cena dalla famiglia Björk, gli ex datori di lavoro di Krystyna. Anche la signora Björk faceva la dentista, per quanto avesse meno pazienti di Olof, e aveva preso Miriam sotto braccio, l'aveva tirata in disparte e con voce dimessa le aveva detto di essere andata a trovarla a Ryhov. Non che fosse servito a qualcosa. Krystyna se ne era rimasta rigida su una sedia, senza vedere né sentire la sua ex padrona di casa. Catatonica, aveva detto il personale. Nessun contatto con il mondo circostante. Se non altro, però, apriva la bocca quando le portavano da mangiare, il che era insolito. In genere i pazienti catatonici non mangiavano né bevevano.

«Il campo di concentramento», aveva detto Miriam. E la signora Björk aveva annuito seria, ma poi aveva dovuto sbrigarsi ad andare in cucina per assicurarsi che la nuova domestica facesse le cose a puntino.

In riva all'Ingsbergssjön scende di nuovo il silenzio. Camilla sembra essersi un po' incurvata, la schiena appena ingobbita. Si pizzica i jeans tra il pollice e l'indice ma poi si rende conto che è un gesto di morte, uno di quelli che fanno capire ai capisala esperti delle case di riposo che presto un paziente morirà. Dunque smette di pizzicare, si passa il palmo sulla coscia e poi si gira verso Miriam.

«Ma come mai lei è impazzita e tu no? Qual era la differenza?»

Olof, pensa Miriam. Olof e Thomas e Hanna. La possibilità di far quasi parte di qualcosa. Di integrarmi. Ma non lo dice. Sospira piano e si appoggia allo schienale della panchina.

«Non lo so», risponde a voce bassa. «Forse gli esperimenti...»

La voce di Camilla ha un tremito.

«Gli esperimenti?»

«Sì, gli esperimenti clinici a Ravensbrück. Krystyna era un coniglietto...»

«Un coniglietto?»

Miriam cerca di fermarsi. Sente che Camilla ha paura, che teme quello che lei ha da raccontare, che in realtà non vuole sapere, ma il ricordo di Krystyna le ha risvegliato la cattiveria. Ben le sta, a questa viziata di una... NO! Non deve pensare così. Lei apprezza Camilla. Anzi, di più: le vuole bene. Ne è orgogliosa. È felice che abbia potuto risparmiarsi...

«Una cavia, insomma», spiega poi. «Ma in tedesco si dice Kaninchen. Coniglietto. Era così che chiamavano quelle selezionate per gli esperimenti... Quasi tutte polacche. Per la maggior parte politiche.»

«Politiche?»

«Sì. Comuniste. Socialdemocratiche. Liberali. Le cosiddette patriote, di tutte le tinte. Condannate a morte. Era su di loro che facevano gli esperimenti. Noi altre eravamo risparmiate. Dovevamo morire a forza di lavorare.»

«Ma che esperimenti erano?»

Miriam sorride ironica. È un sorriso del tutto inedito che non fa da anni e subito sente che la rende brutta, estranea. Eppure non riesce a cancellarlo.

«Oh, erano esperimenti importantissimi. Sceglievano un gruppo di polacche, del tutto sane, con delle belle gambe muscolose. Poi tagliavano loro una gamba con un'incisione lunga e profonda e infettavano la ferita, non so esattamente con cosa. Qualche genere di batterio. Dopodiché ricucivano alla bell'e meglio e le rinchiudevano. In effetti davano loro da mangiare ogni giorno, ma solo un po' di pane, la solita zuppa e quella specie di decotto di bietole che chiamavano caffè. Non medicavano mai le ferite, non le lavavano, non cambiavano le lenzuola. Lasciavano che le larve si moltiplicassero. Non le curavano per niente. Anzi sì: ad alcune amputavano la gamba. E quelle che sopravvivevano alla setticemia tornavano nel campo, addirittura dotate di stampelle. Ma non erano molte...»

Camilla si è tappata la bocca con la mano: «No», dice implorante, scuotendo piano la testa. «No...»

Anche Miriam scuote la testa, ma è per negare la negazione di Camilla.

«Sì invece. Era proprio così. E Krystyna era una di loro.»

Smette di parlare qualche istante e guarda Camilla negli occhi. Seria, ora, senza cattiveria, ma con determinazione.

«Facevano anche altri esperimenti... Sterilizzazioni e cose così, ma di questo non so molto. Non ho mai conosciuto nessuna che li abbia subiti, perché quando arrivò la Croce Rossa erano tutte morte, credo. Ad Auschwitz però ho conosciuto il dottor Mengele. Di persona. Il medico delle caramelle. Ha sottoposto il mio fratellino a...»

Dio santo, cosa sta dicendo? Cosa le è saltato in mente di dire? Il parco le gira intorno. È un attimo, e nello stesso tempo sente la nausea salirle in corpo come una colonna di mercurio. Chiude gli occhi. Le viene da vomitare. Non può farlo.

«Nonna?» chiama Camilla, lontana. «Nonna! Mi senti? Cosa ti succede?»

Didi fende improvvisamente l'aria. Vola. Fluttua. È ancora un bambino, ride e ha il viso intatto.

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Pagina 232

Mangiarono in silenzio. Miriam esitò, all'inizio, incerta se partire dalla salsiccia e poi passare al pane o se lasciare la salsiccia per ultima dopo aver fatto fuori il pane, o se addirittura mangiare tutto insieme come un panino, ma poi lanciò un'occhiata a Else per vedere come si comportava lei. La donna mangiò prima il pane, la margarina e la marmellata sintetica, lasciando sul piatto la fetta di salsiccia. Dunque l'avrebbe mangiata per ultima. Miriam spalmò la margarina con il pollice e cercò di fare lo stesso con la marmellata, senza grande successo. Quasi tutto le rimase attaccato al dito e se lo dovette infilare in bocca per leccare via la poltiglia dolciastra. Poi addentò il pane. Ne staccò un grosso boccone. Era buono. Pane buono? Strano.

«Il pane della domenica», disse Else. Miriam annuì senza parlare. Else bevve un lungo sorso di caffè e poi le mise la mano sul braccio.

«Piano. Non mangiare così veloce!»

Miriam deglutì e bevve un sorso di caffè. Sapeva di barbabietole? Non ne aveva idea. Non ricordava che gusto avessero. Quella roba era solo amara.

«Se mangi troppo in fretta ti viene la nausea», spiegò Else. «E non va bene. Ti toglie le forze.»

Ma era difficile non mangiare in fretta. Miriam fremeva tutta. Posò il pane e prese la fetta di salsiccia. Il fondo. Leccò veloce la superficie. Poi ne staccò con i denti un frammento e lo lasciò cadere sulla lingua. Salata. Chiuse gli occhi, inebriata.

«Quanto tempo sei stata ad Auschwitz?»

Else aveva abbassato la voce. Miriam aprì gli occhi e si mise a masticare. Non aveva intenzione di rispondere fino a quando non avesse finito di masticare. Mandò giù. Fatto.

«Un anno. Credo, almeno. O forse uno e mezzo...»

«Era inverno quando ci sei arrivata?»

Miriam annuì e prese un altro morso di pane. Non intendeva rispondere finché avesse avuto cibo in bocca. Anche Else rimase in silenzio per un pezzo.

«E com'è?» chiese poi. «Com'è in realtà Auschwitz?»

Miriam girò la testa e smise di masticare. Guardò Else dritto negli occhi, ma non rispose.


Com'era in realtà Auschwitz?

Che domanda. Come si faceva a rispondere? Le immagini le balenarono davanti. Fango. Melma. Non un filo d'erba. Terra senza alberi. Un'infinità di baracche. Corpi emaciati. Denti sporgenti. Occhi infossati. Latrati di cani. Mengele. Sorveglianti ucraine. Impiccagioni. Appello all'alba. Noma.

E poi morti, naturalmente. Cadaveri a centinaia. A migliaia. A centinaia di migliaia.

Cataste di corpi. E fiamme eternamente alte dai camini del forno crematorio.


Else inspirò di scatto e si tappò la bocca con la mano. Rimase immobile, gli occhi fissi sul legno grigiobruno della baracca davanti. Batté più volte le palpebre e poi s'insaccò leggermente. Guardò il pane che teneva in mano, inspirò di nuovo, ma questa volta in modo completamente diverso. Si ricompose. Si passò sul viso la mano libera e aprì la bocca. Staccò un altro morso di pane. Masticò.

«Ah», disse poi, come se Miriam le avesse risposto. «Mmh.»

Miriam continuò a tacere.

«Mio marito», disse Else bevendo un lungo sorso dalla sua tazza. «Penso sia finito ad Auschwitz...»

Miriam annuì senza parlare. Poi distolse lo sguardo e prese un grosso boccone di salsiccia. Sapeva un po' di rancido. E la ferita quasi rimarginata sul braccio sinistro riprese a prudere.

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Pagina 264

L'adunata serale durò più a lungo del solito. Le prigioniere rimasero sull'attenti tre ore e la pioggia non cessò neanche per un istante. Irma Lunz era di pessimo umore. S'irritò con le nuove prigioniere, fece una sfuriata alle vecchie, contò e ricontò, sferrò bastonate a quelle della prima fila vedendo che i numeri non tornavano e alla fine ordinò a due donne con il triangolo rosso di contare un'altra volta. Si vedeva che erano entrambe preparate a prenderle. Si scambiarono un'occhiata cauta e poi ripeterono lo stesso numero gridato da Irma Lunz l'ultima volta che aveva contato. Una delle due stava per fare d'istinto un passo indietro subito dopo ma si trattenne all'ultimo secondo e rimase stoicamente dov'era. Irma Lunz borbottò qualcosa e poi le fece tornare al loro posto nella fila senza neanche sollevare il bastone.

Zingari. Si sa come sono fatti, quelli...

La pioggia scrosciava. Una pioggia gelida che bruciava la pelle con i suoi schizzi. Scorreva sul viso, lasciando gocce appese alla punta del naso e impigliate nelle ciglia, ma era troppo pericoloso sollevare una mano per asciugarsi. Miriam batté le palpebre alcune volte per scuoterle via. Le scivolarono sulle guance ma subito se ne impigliarono altre. Le lasciò dov'erano. In fondo le offuscavano la vista e non era male: facevano risplendere come aureole i lampioni davanti alle baracche, trasformavano le prigioniere dall'altra parte della strada in una chiazza indistinta e quasi bella e Irma Lunz in uno spettro pallido senza volto. L'estate era decisamente finita. Presto sarebbe stato inverno. Alla sola idea Miriam ebbe un brivido. Ricordava quello precedente, quando si chiamava ancora Malika e una sera era stata buttata fuori dalla baracca 22 del settore degli zingari. Era stato Mengele in persona a puntare il dito su di lei. Non aveva detto niente, solo puntato il dito, e lei era stata buttata fuori.

«Vattene, avanti», aveva detto la vecchia che l'aveva fatta uscire. «Vai a cercare i tuoi parenti.»

Non era neanche rom, tra l'altro, solo una polacca con il triangolo rosso che era una specie di infermiera e sembrava convinta che i rom vivessero in un'unica grande famiglia insieme a tutti gli altri rom, come se ogni vecchio del settore degli zingari fosse il nonno di Malika e ogni vecchia sua nonna. Non era così. Effettivamente la maggior parte veniva dalla Germania o dall'Austria, ma era gente di gruppi diversi, con abitudini diverse e modi diversi di parlare romanés. Altri venivano dalla Boemia, dalla Romania e dalla Polonia. Non aveva trovato neanche un familiare nel settore rom, neanche una cugina o una zia, o un parente alla lontana. Non conosceva altri che Didi e in realtà non voleva conoscere nessuno. Si era chiusa in se stessa già al terzo giorno, quello in cui Anuscha era stata uccisa a calci da alcuni uomini delle SS ed era una cosa che non voleva ricordare, non voleva proprio pensare al fatto che Anuscha era esistita ed era stata così stupida e così coraggiosa da rifiutarsi di svestirsi quando le era stato ordinato. Malika voleva pensare solo a Didi, a come aveva riso quando quella sera il dottor Mengele gli aveva dato una caramella, ma pensandoci non poté fare a meno di ricordare quanta paura aveva avuto la prima volta che Mengele aveva distribuito caramelle ai bambini rom. Veleno, si era detta. Vuole avvelenare i bambini! E altri avevano fatto lo stesso ragionamento: un uomo, forse un padre o fratello, aveva lanciato un grido gettandosi su un bambino e cercando di fargli sputare la caramella, ma uno delle SS che faceva parte del seguito del medico gli era subito saltato addosso, gli aveva messo il braccio intorno al collo e aveva dato uno strattone. Un secondo dopo quel padre o fratello era caduto a terra. Morto. Solo uno strattone ed era morto.

Zingari. Si sa come sono fatti, quelli...

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Pagina 281

Ben presto anche a Ravensbrück si instaurò la quotidianità. La fame quotidiana. La stanchezza quotidiana. Le risse quotidiane.

Appello. Decotto di barbabietole. Pane secco. Marcia fino alla fabbrica. Battere le ciglia per scacciare la stanchezza. Chinare la testa. Cucire. Cucire. Cucire. Per undici ore. Marcia dalla fabbrica. Zuppa. Pane secco. Cuccetta. Appello. Sonno. Sveglia! Appello. Decotto di barbabietole. Pane secco. Marcia fino alla fabbrica. Cucire. Cucire. Cucire. Per undici ore. Marcia dalla fabbrica. Zuppa. Pane secco. Cuccetta. Appello. Sonno.

Giorno dopo giorno.

Era arrivato l'autunno e all'improvviso faceva tanto freddo che si vedeva il fiato. La sera, quando Miriam usciva dalla fabbrica ritrovandosi nel cortile, le usciva dalla bocca come una nuvoletta sottile. Era stanca morta. Camminava due passi dietro Else ma non aveva neanche la forza di sollevare la mano per aggrapparsi alla sua camicia. Si limitava a battere le ciglia e a trascinarsi dietro di lei. Non aveva mai pensato che si potesse essere così stanchi. Dopotutto il lavoro era facile: una volta imparato, cucire le maniche non era affatto complicato. Inoltre stava seduta dalla mattina alla sera. Non c'era nessuno che la costringesse a scavare fosse. Nessuno che la frustasse per farle trascinare un pesante rullo su una strada in costruzione. Nessuno che le facesse portare secchi strapieni. Eppure era esausta. Sfinita da anni di fame. Annientata dalla propria rassegnazione. Fatta a pezzi dallo sconforto. Non riusciva neppure a fantasticare. Didi non era più un uccellino azzurro. Era solo morto.

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Pagina 335

Di nuovo silenzio tra loro. Un silenzio profondo. L'unica cosa che succede è che Camilla dà una stretta alla mano di Miriam. Poi rimangono immobili per un pezzo, lo sguardo sullo specchio d'acqua. Solo quando una cornacchia gracchia all'improvviso sopra le loro teste si riscuotono.

«Quanto a Didi...» riprende Miriam a voce bassa. «Ora so cosa gli è successo. Prima avevo a disposizione solo una parola incomprensibile. Noma.»

Anche Camilla parla a voce molto sommessa.

«Quando successe non sapevi cosa significava?»

Miriam appoggia l'altra mano su quella di Camilla cercando di consolarla ancora prima di cominciare a parlare.

«No. Mi accorsi che la sua faccia cominciava a corrodersi allo stesso modo di quella di tanti altri bambini, ma non sapevo di che genere di malattia si trattasse. Adesso invece lo so. Noma è stata la prima parola su cui ho fatto una ricerca quando ho avuto accesso a internet.»

Camilla non ha il coraggio di guardarla.

«E cos'è?»

Miriam chiude gli occhi e risponde:

«È quando i batteri del cavo orale cominciano a nutrirsi del corpo stesso. Una specie di cancrena che colpisce solo i bambini denutriti. E rientrava tra gli esperimenti di Mengele.»

[...]

Camilla è rimasta in silenzio a lungo, ma ora prende fiato.

«È raccapricciante», dice. «Cancrena. Davvero raccapricciante.»

Miriam prova un breve moto di irritazione. Non fare così! Non costringermi a tornare là! Si alza e si passa velocemente la mano sul vestito cercando di lisciare le pieghe.

«Devi scusarmi», dice poi, «ma non ce la faccio a parlarne...»

Camilla non sembra sentirla:

«Ho assistito a un intervento per una cancrena all'intestino, e credo sia stata la cosa più terribile che mi sia mai trovata sotto gli occhi. E sotto il naso. Un'infermiera anestesista è addirittura svenuta ed è toccato a me occuparmene e trascinarla fuori. È stata quasi una fortuna perché se no sarei anch'io...»

Miriam si china su di lei e l'afferra per un polso. Forte.

«Non hai sentito cos'ho detto? Non voglio parlarne. O meglio: non posso, perché altrimenti muoio. E non voglio morire oggi. Capito?»

Camilla fissa allibita il suo polso e la mano di Miriam. Poi alza lo sguardo, ma senza trovare il coraggio di puntarlo sugli occhi di sua nonna.

«Scusa», dice. «Non intendevo... volevo solo...»

Miriam non molla la presa e stringe anzi più forte.

«Non si può parlare di tutto! Devi capirlo. Non se si hanno ottantacinque anni e si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l'intero secolo! In questo caso non si può parlare di tutto.»

Camilla cerca di guardare negli occhi la nonna ma distoglie quasi subito lo sguardo, per poi annuire muta. Fa un blando tentativo di liberare il polso, senza riuscirci. Miriam non la lascia andare. Al contrario, scuote la mano della nipote a ritmo con ogni parola:

«Lo capisci o no? È successo davvero. Era tutto reale. Era un altro mondo e io non ci voglio tornare. Non ne ho nessuna intenzione!»

Ma è già troppo tardi.

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Pagina 346

«No», disse Anuscha.

Malika rimase in silenzio. Teneva gli occhi chiusi per non vedere quelli che assistevano alla sua umiliazione. Nuda davanti a perfetti sconosciuti in uniforme, di fianco ad alcuni ragazzi rom, nudi anche loro. Forse si vergognavano come lei. Non lo sapeva, non li aveva guardati. Aveva chiuso gli occhi al momento di togliersi la gonna. Didi, accanto a lei, le stringeva forte la mano. Malika ne sentiva il torso nudo contro il fianco. Stava tremando.

«Spogliati!» tuonò qualcuno in romanés.

«No», ripeté Anuscha.

Non era da lei. In genere era ubbidiente. Soprattutto quando aveva paura. E negli ultimi anni ne aveva avuta molta, fin dal giorno in cui la Kripo era venuta a prelevarli. Terrore assoluto. Aveva le labbra grigie già durante la registrazione all'istituto delle suore e non riusciva né a sorridere né a parlare. Sicuramente le sarebbe arrivato uno schiaffo se non fosse stato per Malika che si era messa in mezzo e aveva preso in mano la situazione. Perché lei aveva capito in fretta come bisognava comportarsi: si era scostata i capelli dal viso portandoli dietro le orecchie, aveva guardato negli occhi le suore e con una piccola riverenza aveva risposto a tutte le domande. Sì, Didi era suo fratello. Sì, Anuscha era sua cugina. E sì, la settimana prima era stata malata. Per quello era così pallida e taciturna...

Anuscha non era mischling. Sia suo padre che sua madre erano rom. Rom veri. Forse era per amor loro che si rifiutava di spogliarsi. Perché le avevano insegnato tutto sul pudore. Nessun vero rom, donna o uomo, ragazza o ragazzo, si mostrava mai nudo davanti a qualcuno. Eppure eccoli lì, in una specie di lavatoio, nudi come vermi. Tutti tranne Anuscha. Perché lei si rifiutava di spogliarsi.

Uno schiocco. Un grido soffocato. Era la voce di Anuscha. Forse era stato il rom traditore, il kapò, a colpirla. Malika strinse forte le palpebre ma non riuscì a impedire all'immagine di Anuscha di comparirle davanti agli occhi della mente. Vide i suoi lunghi capelli neri che le ricadevano sempre sul viso dandole un'aria un po' selvaggia. I denti bianchi venuti dopo quelli da latte, irregolari e limati in basso. Le unghie rosicchiate e le braccia magre. I piedi nudi in estate. D'un tratto ricordò quanto si divertivano a stare sedute vicine a chiacchierare mentre si toglievano la sporcizia tra le dita...

«Spogliati!»

«No.»

Anuscha aveva il pianto nella voce, eppure si rifiutava. E non c'era niente che Malika potesse fare per lei. La sua migliore amica. Sua cugina. No, di più: sua sorella.

Un altro schiocco. E un tonfo. Due voci che di colpo sbraitavano in una lingua incomprensibile.

«No!» gridò di nuovo Anuscha. «No, no e no!»

Uno sparo. Il rumore echeggiò sulle pareti, stordì l'udito e suscitò la reazione della folla di bambini nudi. Gridarono. Si misero a strillare tutti insieme, di colpo. Malika aprì gli occhi e si accovacciò, circondò Didi con le braccia e vide alcuni bambini nudi cercare di scappare. Un uomo in camicia marrone chiaro ne colpì uno con il calcio del fucile. Nello stesso istante qualcuno aprì le docce e l'acqua gelida si riversò su di loro. Acqua gelida che si mescolava al sangue di Anuscha, stesa sul cemento. Morta. Ma completamente vestita.

Era davvero un altro mondo.


E poi il tatuaggio. Gli strilli disperati di Didi. Mi bruciano, Malika, mi bruciano, [...]

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Tre giorni dopo salirono a bordo del treno per Jönköping. Hanna sorrise quando Ebba gettò le braccia al collo di Miriam al binario, ma poi le fece fretta. Su su, basta abbracci! Il treno stava per partire.

Lo scompartimento era ancora più bello di quello del treno che l'aveva portata ad Aneby. I sedili erano più larghi e rivestiti di ciniglia rosso cupo, il tavolino accanto al finestrino era più grande e nel corridoio, in una rientranza, c'era una bottiglia d'acqua tintinnante. Seconda classe, le aveva detto Hanna. Avrebbero preso il biglietto di seconda, perché Hanna era un po' stanca dopo le giornate ad Aneby. Esisteva anche la prima classe, ma era troppo cara, e poi la terza, che in effetti costava meno, ma c'era sempre troppa gente. E per di più gente di ogni genere.

Nel loro scompartimento viaggiavano altre tre signore della Croce Rossa e Hanna sembrava conoscerle tutte. Si premurò di presentare Miriam a ciascuna e la osservò attenta mentre lei stringeva loro la mano accennando una riverenza. Poi annuì compiaciuta. Bene. Infine indicò un posto in angolo. Miriam doveva sedersi lì. Quanto a lei, si mise di fianco al finestrino, aprì la borsetta, tirò fuori un fazzoletto e si pulì il naso prima di mettersi a parlare.

«Che dire?»

Le altre sospirarono all'unisono. Già, cosa c'era da dire?

«Dev'essere vero», disse una delle tre. Come si chiamava? Gunhild?

«Certo che è vero», rispose un'altra, che aveva la voce profonda e indossava una specie di divisa da infermiera. Che nome aveva detto? Karin? Sì, proprio Karin. Si era presentata così.

«All'inizio pensavo che se lo fossero inventate», ammise la terza. Si chiamava Anna ed era del tutto incolore. Faccia incolore, capelli incolori, occhi incolori... perfino la voce era incolore. «Ma dopo qualche giorno... Be', insomma, è evidente che quello che raccontano è vero. Anche se si fa fatica a concepirlo.»

Gunhild lanciò un'occhiata in direzione di Miriam e abbassò la voce.

«Quanti pensate che ci siano finiti dentro?» Hanna scosse la testa e rispose con la stessa voce sommessa:

«Migliaia. Forse centinaia di migliaia.»

Miriam chiuse gli occhi. Non voleva ascoltare quei discorsi, ma se fosse stata costretta a farlo avrebbe comunque mantenuto la calma. Non si sarebbe messa a urlare. Non avrebbe vomitato. Non sarebbe svenuta. Cercò di respirare nel modo più calmo e profondo possibile. Per un po' nello scompartimento scese il silenzio, rotto solo dal rumore ritmato dei giunti dei binari. Alla fine qualcuno, forse Gunhild, sussurrò una domanda. Dorme la ragazzina? La risposta di Hanna arrivò in un bisbiglio. Sì, così sembra.

«Gas?» disse poi Karin con la stessa voce bassa. «Come si fa a pensare a una cosa del genere? A uccidere la gente con il gas?»

«Pura e semplice follia!»

Doveva essere Gunhild.

«Ma come riuscivano a far andare le persone dentro le camere a gas?» sussurrò Anna. «Perché non opponevano resistenza?»

«Le ingannavano», rispose Hanna. «Venivano direttamente dai treni. E i tedeschi dicevano che dovevano farsi la doccia...»

«Però qualcuno che si rifiutava c'era...»

Era la voce dell'infermiera, Karin. Le altre smisero di parlare e aspettarono la continuazione. Lei abbassò ulteriormente la voce.

«Ho conosciuto una donna che è stata infermiera nel settore degli zingari...»

Miriam avvertì una scossa ma si guardò bene dall'aprire gli occhi. Infermiera del settore degli zingari? Possibile che fosse quella della baracca 22? Era stata ad Aneby? In quale centro di quarantena?

«Ha detto che gli zingari si ribellavano eccome, al punto che i tedeschi hanno dovuto svuotare più volte il settore», continuò Karin. «Prima hanno portato via tutti quelli abbastanza giovani e forti da andare ai lavori forzati in Germania...»

I pensieri di Miriam cominciarono a vagare irrequieti. È di me che sta parlando. Quella donna sa chi sono! È per questo che parla di me! Ma no, come avrebbe potuto sapere? La voce dell'infermiera si fece improvvisamente stridula.

«Hanno ripetuto l'operazione più volte. Poi, una sera d'inizio agosto dell'anno scorso sono entrati nel settore...»

«In che senso sono entrati? I tedeschi non erano già lì?»

Doveva essere Gunhild. Non poteva farle il favore di tenere chiusa quella boccaccia in modo che Miriam potesse sapere cosa ne era stato del suo popolo? Karin sembrava impaziente quanto lei ma evidentemente si era dimenticata della sua presenza, perché quando riprese a parlare lo fece a voce alta, molto alta:

«Sì, certo, alcuni c'erano già. Ma sto parlando di camion e di una quantità di quei soldati delle SS. Gente armata. Armata fino ai denti. E hanno costretto tutti gli zingari a uscire... Secondo lei ce n'erano almeno tremila. Li hanno fatti salire sui camion, anche se non è stato facile. Urlavano e sbraitavano e picchiavano e cercavano di scappare, per cui a diversi hanno sparato prima ancora di uscire dal campo... E pare anche che abbiano passato metà della notte dopo a setacciare le baracche, per trovare tutti quelli che si erano nascosti. E quando le SS li hanno portati via a forza strillavano ancora di più, tanto da farsi sentire in tutti gli altri settori del lager. Un vero inferno, insomma. Scusate il termine, ma non ce ne sono altri per descriverlo. Dev'essere stato un vero inferno.»

Miriam aprì gli occhi. Il sole entrava dal finestrino inondando il viso dell'infermiera, eppure lei non accennava a muovere le palpebre. Se ne stava solo lì con lo sguardo fisso su quel passato incomprensibile.

«E così la mattina dopo non c'era più neanche uno zingaro?» chiese Gunhild.

«No», rispose Karin scuotendo la testa. «Nemmeno uno. Lí hanno ammazzati tutti. Tremila persone. In una sola notte.»

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«La notte degli zingari», dice Miriam.

«Cosa?» chiede Camilla.

Miriam raddrizza la schiena e si prepara ad alzarsi dalla panchina.

«Niente, mi è solo venuta in mente la notte degli zingari.»

Camilla si alza e si gira verso la nonna.

«Quale notte degli zingari?»

Miriam si riappoggia allo schienale della panchina. Adesso è all'ombra. Il sole splende sulla sponda opposta dell'Ingebergssjön.

«La notte in cui le SS evacuarono il settore degli zingari di Auschwitz, quando gasarono...»

Camilla si risiede accanto a lei e fa un sospiro profondo.

«Non so se ho la forza di sentire altro...»

Lo sguardo di Miriam si fa improvvisamente duro.

«Sei stata tu a voler sapere. A farmi raccontare. Perciò adesso mi fai il piacere di trovare la forza di ascoltare.»


Invece smette di parlare e sprofonda in se stessa. In realtà non è una testimone oculare: ha a disposizione solo i racconti di altri, quelli che ha letto infilandosi in un angolo della biblioteca e che ha cercato di nascosto su internet. I resoconti sono abbastanza pochi, anche se concordi. I rom sapevano cosa li aspettava e quindi non serviva a niente cercare di convincerli che avrebbero potuto farsi la doccia. Per questo non erano andati incontro alla morte calmi e dignitosi. Se li è visti davanti tante volte, celebrando da sola in segreto ogni agosto la notte degli zingari. A occhi aperti nel letto, cercava di immaginarli lottare, ancora animati dalla mezza vittoria di qualche mese prima, almeno quelli rimasti. Vedeva i vecchi consumati dalla fame scalciare e menare pugni e roteare assi mezze marce, le donne artigliare i sorveglianti ucraini e mordere tutti quelli che capitavano loro a tiro, le nonne strillare cercando di cavare gli occhi ai soldati delle SS mentre i loro nipoti piangevano istericamente, le grida di terrore incontenibile nel momento in cui venivano sopraffatti, le urla tinte di panico quando alla fine erano caricati a forza sui camion che li avrebbero portati alle camere a gas. E la cosa bizzarra è che ha sempre visto se stessa in mezzo a loro, pur non essendoci stata affatto. Quando pensa alla notte degli zingari è lì, una ragazzina scheletrica e insieme una furia incontenibile, una dea dell'ira che aggredisce il dottor Mengele in persona, lo afferra per la gola e stringe, lo uccide una volta dopo l'altra e ancora e ancora... Per Didi. E per tutti gli altri bambini consumati dalla fame.

Si asciuga velocemente gli occhi e tira su col naso.

«Forse hai ragione», dice poi. «Nessuna delle due ce la fa più. Ma una cosa devi saperla. Una cosa che io so ma che non sa quasi nessun altro abitante di Nässjö, né gli altri svedesi, e che non sapeva né capiva nemmeno Hanna...»

Camilla si guarda le mani allacciate in grembo. Parla a voce molto bassa:

«Cosa?»

Miriam le lancia un'occhiata fugace prima di riportare lo sguardo sul lago.

«Che a volte è un bene non essere troppo educati, perché si è più bravi a opporre resistenza.»

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«Salute! E grazie di questo compleanno particolarmente riuscito. E del bellissimo regalo.»

Bevono in silenzio e poi, uno dopo l'altro, appoggiano sul tavolo i bicchieri. Prima Miriam, poi Camilla, infine Thomas. Solo Katarina non lo rimette giù. Lo tiene con entrambe le mani, ruotandolo leggermente come per veder girare il contenuto.

«Be'», dice alla fine. «C'è solo una cosa che mi sono sempre domandata riguardo a questa cosa dei campi di concentramento. Hai mai avuto un risarcimento?»

Miriam sente bruciare le guance. La colpa non è dell'acquavite, ma della domanda.

«Risarcimento?» chiede Camilla. «In che senso?»

Katarina le lancia un'occhiata.

«Soldi, insomma. Gli ex prigionieri dei campi di concentramento hanno ricevuto dei soldi dagli anni Quaranta in poi. Dalla Germania.»

Miriam scuote piano la testa.

«No», dice poi, e nella sua voce c'è qualcosa di insolito. «Mi è stato offerto ma...»

Per una volta, Katarina la guarda negli occhi. Agli angoli della bocca è in agguato un sorrisino.

«Ma cosa?»

Miriam china la testa e conficca la forchetta in una patata con uno slancio eccessivo.

«Ho declinato. È stato Olof a volerlo.»

Vile, come al solito. Ma non se ne accorge nessuno. Al suo fianco, Thomas borbotta consolante:

«Secondo me è giusto. Erano soldi disonesti...»


Mentre Camilla e Katarina sparecchiano, Miriam deve fare alcuni respiri profondi. La vergogna le fa ancora bruciare le guance. Non se la può cavare così facilmente. Perché quello che ha detto è vero ma è anche una bugia. Sì, le era stato offerto un risarcimento dopo la guerra e sì, Olof si era indignato e aveva preteso che lei rinunciasse. E Miriam si era adeguata. Dunque può nascondersi dietro di lui, ma la verità è che non l'aveva fatto per mostrarsi una moglie ubbidiente. E nemmeno per paura che le sue menzogne venissero smascherate. L'aveva fatto per una sorta di lealtà alla rovescia nei confronti del suo popolo. Ai rom non era stato offerto nessun risarcimento. Non erano stati sterminati per ragioni razziali, avevano spiegato le autorità tedesche dopo la guerra, ma perché erano criminali. Fino all'ultimo. Anche le quattordicenni come Anuscha e i bambini come Didi. E gli onesti argentieri come il padre di Malika.

Ed era stato per rispetto a loro che Malika aveva strappato la lettera arrivata dalla Germania.

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