Copertina
Autore Isaak Babel'
Titolo Racconti di Odessa
EdizioneVoland, Roma, 2012, Sírin Classica 9 , pag. 176, cop.fle., dim. 10,5x15,3x1,2 cm , Isbn 978-88-6243-124-8
OriginaleOdesskie rasskazy [1931]
CuratoreBruno Osimo
TraduttoreBruno Osimo
LettoreGiorgio Crepe, 2013
Classe narrativa russa
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Indice


Prefazione                                5


Il Re                                    19

Come si faceva a Odessa                  28

Padre                                    40

Ljubka Cosacco                           53

Storia della mia colombaia               62

Primo amore                              78

Nel seminterrato                         88

Risveglio                               100

Di Grasso                               110

Giustizia tra virgolette                116

Fine dell'ospizio                       123

Ti sei sbagliato, capitano!             136

Karl/Yankele                            138

Froyim Korv                             149

Tramonto                                156


Note del traduttore                     173


 

 

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Pagina 5

PREFAZIONE


Introduzione


Avendo a disposizione questo spazio, il traduttore naturalmente si domanda se sia più opportuno dire qualcosa su Babel' e sui Racconti di Odessa o se invece non sia più interessante giustificare qui alcune scelte traduttive, dal momento che esistono già sei edizioni italiane di questo testo, e forse il lettore, sperso, potrebbe domandarsi a che pro fare la settima... In Italia la cultura della traduzione è poco diffusa, perciò il lettore meno smaliziato è proclive a pensare di leggere un libro scritto dall'autore dell'originale, quando invece ne sta leggendo un altro, scritto dal traduttore. Tra i due intercorrono rapporti di parentela, ma rispetto all'originale la traduzione è quando va bene nipote, non figlia.

Nel caso specifico dei Racconti di Odessa, fortuna vuole che le due narrazioni (quella sull'autore e sul testo e quella sulla traduzione) coincidano. Ossia dire qualcosa su come questo testo è stato riscritto per il pubblico italofono è anche un modo per dire che cosa questo testo è per me, e dire che cosa questo testo è per me è anche un modo per tradurre i racconti ambientati a Odessa in italiano, o meglio, per creare un linguaggio all'interno del quale sia possibile accedere da un certo — a discrezione del traduttore — punto di vista a una certa parte di questo testo, con un certo riflesso.


Tradurre una cultura

Tra le tante cose che sono questi racconti scritti negli anni Venti e nei primi anni Trenta in una città strana, di confine — da un lato si trovava vicino alla Bessarabia (grosso modo corrispondente all'attuale Moldavia), aveva contatti tramite il porto con l'Oltrecaucaso (Georgia, Armenia), con Port Said, Istanbul. E il territorio stesso di Odessa ha fatto parte della Russia e dell'Ucraina: ma di fatto si tratta di una sorta di zona franca. Era popolata da molti ebrei, un terzo della popolazione, in un'epoca strana, di confine, a ridosso della guerra civile succeduta al rovesciamento del regime democratico instauratosi nel febbraio del 1917 — questa loro interpretazione italiana rappresenta il tentativo di spiegare a qualcuno che non ci ha vissuto cosa potesse significare vivere in una città dove i pogróm (letteralmente "distruzione") contro gli ebrei erano all'ordine del giorno, dove per accedere a una scuola bisognava essere cento volte più bravi di un non ebreo, dove essere ebrei spesso voleva dire appartenere al proletariato povero che cerca la fortuna nella lotteria dell' enfant prodige musicale. Un'immagine davvero lontana dallo stereotipo antisemita occidentale dell'ebreo ricco commerciante magari appartenente alla lobby giudoplutomassonica che manovra di nascosto i destini del mondo.

Quindi il testo di Babel' è di per sé già una traduzione, una traduzione dall'ebraico. E vi si trovano parole in russo, ucraino, ebraico, yidish, turco, inglese, francese... Diventa particolarmente importante che la mediazione traduttiva non avvenga sotto forma di passato fine, ma che restino i pezzi grossi di tutte le varie componenti culturali, che al lettore italiano appaia un mosaico, più che un omogeneizzato.

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Pagina 88

NEL SEMINTERRATO


Da piccolo dicevo le bugie. Colpa delle letture che facevo. La mia fantasia ne era sempre infiammata. Leggevo a lezione, negli intervalli, sulla strada di casa, di notte — sotto la scrivania, nascosto da una tovaglia che arrivava fino a terra. Dietro ai libri mi perdevo tutte le cose di questo mondo: bigiare le lezioni al porto, giocare a biliardo nei caffè di via Greceskaja, il bagno alla spiaggia del Langeron. Non avevo amici. Chi aveva voglia di stare con una persona del genere?...

Una volta, in mano al più bravo della classe, Mark Borgman, ho visto un libro su Spinoza. L'aveva appena letto e non vedeva l'ora di parlare ai ragazzi che gli stavano intorno dell'inquisizione spagnola. Erano chiacchiere dotte, le sue. Nelle parole di Borgman non c'era poesia. Non mi sono trattenuto e mi sono immischiato. A quelli che volevano ascoltarmi raccontavo della vecchia Amsterdam, della penombra del ghetto, dei filosofi tagliatori di diamanti. A quanto avevo letto nei libri aggiungevo molto di mio. Non potevo farne a meno. La mia immaginazione rafforzava le scene drammatiche, distorceva i finali, intrecciava nel modo più enigmatico gli incipit. La morte di Spinoza, la sua morte libera, solitaria, nella mia fantasia si presentava come una battaglia. Il Sinedrion costringeva il moribondo a pentirsi, lui non si piegava. Ci ho infilato dentro anche Rubens. Mi sembrava che Rubens stesse al capezzale di Spinoza e ne facesse la maschera mortuaria.

I miei compagni di classe, a bocca spalancata, ascoltavano questo racconto fantastico. Io ero ispirato. Alla campanella ci siamo separati di malavoglia. All'intervallo successivo Borgman mi s'è avvicinato, mi ha preso per mano, ci siamo messi a passeggiare insieme. È passato un po' di tempo, ci siamo accordati. Borgman non aveva l'aria antipatica del primo della classe. Per il suo cervello possente la sapienza ginnasiale erano scarabocchi sui margini di un libro vero. Questo libro lo cercava con ingordigia. Da dodicenni stupidotti sapevamo già che gli sarebbe toccata una vita straordinaria, da scienziato. Non studiava nemmeno le lezioni, si limitava ad ascoltarle. Questo bambino sobrio e riservato si era affezionato a me a causa della mia particolarità di pervertire tutte le cose del mondo, anche le cose più semplici che si potessero immaginare.

Quell'anno siamo passati in terza. La mia pagella era piena di tre meno. Ero talmente strano coi miei deliri, che gli insegnanti, dopo averci pensato, non si decidevano a mettermi dei due. All'inizio dell'estate Borgman m'ha invitato alla sua dacia. Suo padre era direttore della Banca russa per il commercio estero. Una di quelle persone che facevano di Odessa Marsiglia o Napoli. In lui viveva l'indole del vecchio affarista odessita. Apparteneva alla schiera dei buontemponi scettici e amabili. Il padre di Borgman evitava di parlare russo; si esprimeva nella lingua rozza e frammentaria dei capitani di Liverpool. Quando in aprile arrivava l'opera italiana, a casa Borgman si organizzava un pranzo per la compagnia. Il banchiere gonfio — ultimo degli affaristi di Odessa — allacciava una tresca di due mesi con la primadonna pettoruta. Alla partenza lei si portava dietro ricordi che non le appesantivano la coscienza e un collier scelto con gusto e non troppo costoso.

Il vecchio era console argentino e presidente del comitato della Borsa. Sono stato invitato proprio a casa sua. Mia zia — di nome Bobka l'ha fatto sapere a tutto il cortile. Mi ha agghindato come poteva. Sono andato col trenino a vapore alla sedicesima stazione della Grande fontana. La dacia era su un rosso dirupo non molto alto proprio sulla riva. Sul dirupo c'era un'aiuola con le fucsie e delle tuie potate a sfera.

Io venivo da una famiglia misera e sconclusionata. L'atmosfera della dacia dei Borgman mi ha colpito. Nei vialetti coperti di verde erano disposte sedie bianche impagliate. Il tavolo da pranzo era coperto di fiori, le finestre incorniciate da stipiti verdi. Davanti alla casa uno spazioso, basso portico di legno.

Nel tardo pomeriggio è arrivato il direttore della banca. Dopo mangiato ha messo una poltrona di paglia proprio sul bordo del dirupo, davanti alla spianata semovente del mare, ha disteso le gambe avvolte nei pantaloni bianchi, s'è acceso un sigaro e s'è messo a leggere il "Manchester Guardian". Le ospiti, signore di Odessa, giocavano a poker nella veranda. In un angolo del tavolo uno stretto samovar con i manici d'avorio borbottava.

Biscazziere e golose, sciatte dame alla moda e segrete libertine con la biancheria profumata e i fianchi larghi — le donne agitavano i ventagli neri e puntavano monete d'oro. Il sole giungeva a loro attraverso un pergolato di vite vergine. Il suo cerchio di fuoco era enorme. Riflessi di rame appesantivano i capelli corvini delle donne. Scintille di tramonto entravano nei brillanti — brillanti disposti ovunque: nelle profondità dei seni che si dividevano, sulle orecchie colorate e sulle dita femminili azzurrognole e gonfie.

È venuta la sera. Stormiva un pipistrello. Il mare più nero si abbatteva sulla roccia rossa. Il mio cuore dodicenne era gonfio di gioia per la leggerezza e la ricchezza altrui. Io e il mio compagno, mano nella mano, camminavamo per il vialetto più lontano. Borgman mi ha detto che sarebbe diventato ingegnere aeronautico. Correva voce che il padre sarebbe stato nominato rappresentante della Banca russa per il commercio estero a Londra: Mark avrebbe studiato in Inghilterra.

A casa nostra, a casa della zia Bobka, nessuno discuteva di cose del genere. Non avevo nulla da contrapporre a questa continua magnificenza. Allora ho detto a Mark che se pure da noi le cose erano tutte diverse, mio nonno Levi Yitzhak e il mio zietto avevano viaggiato per il mondo e avevano avuto migliaia d'avventure. Ho raccontato queste avventure con ordine. La cognizione dell'impossibile mi ha abbandonato subito, e ho portato lo zio Wolf attraverso la guerra russo-turca, — ad Alessandria, in Egitto...

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Pagina 100

RISVEGLIO


Tutte le persone della nostra cerchia — mediatori, bottegai, impiegati di banca o di uffici marittimi — mandavano i figli a studiare musica. I nostri padri, non vedendo un futuro per sé stessi, si sono inventati una lotteria. L'hanno creata sulle ossicine dei piccoli uomini. Odessa è stata travolta da questa follia più di altre città. Ed effettivamente per decenni la nostra città è stata una fucina di enfant prodige per i palchi da concerto del mondo. Da Odessa sono usciti Misha El'man, Efrem Zimbalist, Osip Gabrilovic, da noi ha cominciato Jascha Hejfetz.

Quando un bambino compiva quattro o cinque anni, la madre portava questo esserino microscopico, gracile, dal signor Zagurskij. Zagurskij aveva una fabbrica di enfant prodige, una fabbrica di nanetti ebrei coi colletti di pizzo e le scarpette di vernice. Li andava a cercare nelle baraccopoli della Moldavanka, nei cortili fetenti del mercato Vecchio. Zagurskij dava un primo impulso, poi i bambini venivano mandati dal professor Auer a Pietroburgo. Nell'anima di questi moscerini con l'ipertrofica testa blu abitava un'armonia possente. Diventavano virtuosisti famosi. Ed ecco: mio padre ha deciso di mettersi in gioco pure lui. Anche se avevo superato l'età degli enfant prodige: andavo per i quattordici, ma per statura e moscerinità potevo essere preso per uno di otto anni. Tutte le speranze erano riposte in questo.

Mi hanno portato da Zagurskij. Per stima verso il nonno lui ha accettato di prendere un rublo a lezione — un compenso modesto. Mio nonno Levi Yitzhak era lo zimbello della città e il suo ornamento. Girava per le vie col cilindro e le scarpe scalcagnate e risolveva i dubbi nelle faccende più oscure. Gli domandavano che cos'è il gobelin, perché i giacobini avevano tradito Robespierre, come si fa la seta artificiale, che cos'è il taglio cesareo. Mio nonno sapeva rispondere a queste domande. Per rispetto nei confronti della sua erudizione e follia, Zagurskij ci chiedeva un rublo a lezione. E si occupava di me perché temeva il nonno: infatti con me non c'era nulla da fare. I suoni si staccavano dal mio violino come limatura di ferro. Questi suoni squarciavano il cuore persino a me, ma mio padre non demordeva. A casa si parlava solo di Misha El'man, esonerato dal servizio militare dallo zar in persona. Zimbalist invece, stando alle informazioni di mio padre, si era presentato al re d'Inghilterra e aveva suonato a Buckingham Palace; i genitori di Gabrilovic s'erano comprati due case a Pietroburgo. Gli enfant prodige portavano ricchezza ai genitori. Mio padre alla povertà si sarebbe rassegnato, ma della fama aveva bisogno.

"Non è possibile" sussurrava la gente che mangiava a sue spese "non è possibile che il nipote di tanto nonno..."

Invece io in testa avevo altro. Facendo gli esercizi di violino, sul leggio mettevo i libri di Turgenev o di Dumas e, mentre grattavo le corde, divoravo una pagina dietro l'altra. Di giorno raccontavo favole ai figli dei vicini, di notte le riportavo sulla carta. Fabbricare frottole era un'occupazione ereditaria della famiglia. Levi Yitzhak, che da vecchio era ammattito, per tutta la vita ha scritto un romanzo dal titolo L'uomo senza testa. Io avevo preso da lui.

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Pagina 136

TI SEI SBAGLIATO, CAPITANO!


Al porto d'Odessa è arrivato il piroscafo Halifax. È arrivato da Londra per caricare il frumento russo.

Il ventisette gennaio, il giorno dei funerali di Lenin, l'equipaggio variopinto del piroscafo — tre cinesi, due negri e un malese — ha chiamato il capitano in coperta. In città rimbombavano le orchestre e infuriava la bufera di neve.

"Capitano O'Nearn" hanno detto i negri "oggi non si carica, lasciateci andare in città fino a sera."

"Restare ai propri posti" ha risposto O'Nearn "la tempesta ha forza nove, e si sta rafforzando: al largo di Sanzejka è rimasta bloccata nei ghiacci la Beaconsfield, il barometro segna quello che farebbe meglio a non segnare. Con un tempo così, l'equipaggio deve stare sulla nave. Restare ai propri posti."

E detto ciò il capitano O'Nearn se ne è andato dal secondo ufficiale. Lui e il secondo ufficiale se la ridevano, fumavano sigari e con le dita indicavano la città dove infuriava la bufera nel suo dolore sfrenato e rimbombavano le orchestre.

I due negri e i tre cinesi gironzolavano senza profitto per il ponte. Si soffiavano sulle mani infreddolite, picchiavano con gli stivali di gomma e lanciavano occhiate verso la porta socchiusa della cabina del capitano. Da lì si diffondeva nella tempesta forza nove il velluto dei divani riscaldati dal cognac e dal fumo sottile.

"Boatsman!" ha urlato O'Nearn vedendo i marinai. "Il ponte non è un boulevard, mandi questi ragazzi nella stiva."

"Yes Sir" ha risposto il nostromo, una colonna di carne rossa cosparsa di pelo rosso "yes sir" e ha preso per la collottola il malese spettinato. Lo ha messo accanto al bordo che dava sul mare aperto e l'ha gettato verso la scala di corda. Il malese è sceso dabbasso e s'è messo a correre sul ghiaccio. I tre cinesi e i due neri l'hanno seguito.

"Ha cacciato gli uomini in stiva?" ha domandato il capitano dalla cabina riscaldata dal cognac e dal fumo raffinato.

"Li ho cacciati, Sir" ha risposto il nostromo, colonna di carne rossa, e s'è messo sulla passerella come guardiano nella tempesta.

Il vento soffiava dal mare — forza nove, come nove palle sparate dalle batterie congelate del mare. La neve bianca impazziva sopra le masse glaciali. E da un'onda impietrita all'altra, come indemoniate, volavano verso la riva, verso gli imbarcaderi, cinque virgole appallottolate con la faccia carbonizzata e la giacca svolazzante. Sfregandosi le mani, si sono arrampicati sulla riva su per i pontili ghiacciati, sono corsi nel porto e sono volati dentro la città che tremava al vento.

Un reparto di scaricatori con le bandiere nere marciava in piazza verso il luogo dove veniva posato il monumento a Lenin. I due negri e i cinesi sono andati accanto agli scaricatori. Respiravano con affanno, stringevano le mani degli altri ed esultavano dell'esultanza dei forzati fuggiti.

In questo momento a Mosca sulla piazza Rossa calavano nella cripta il corpo di Lenin. Da noi a Odessa ululavano le sirene, infuriava la bufera e marciavano folle ordinate in cordoni. E solo sul piroscafo Halifax l'impenetrabile nostromo era sull'attenti accanto alla passerella come un guardiano nella tempesta. Sotto la sua ambivalente difesa il capitano O'Nearn beveva cognac nella sua cabina piena di fumo.

Ti sei affidato al nostromo, e ti sei sbagliato, capitano O'Nearn.

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