Copertina
Autore Franca Bacchiega
Titolo Non c'entra il paradiso
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2006 , pag. 108, cop.fle., dim. 140x210x10 mm , Isbn 978-88-7937-345-6
PrefazioneGiampaolo Rugarli
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa italiana
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Indice

Prefazione di Giampaolo Rugarli     7

L'ombra di Nina                    17

Il senso di Dario per il vento     59



 

 

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Pagina 7

Il Paradiso di Franca



Detesto le esagerazioni, e, quando possibile, cerco sempre di trovare una parola incoraggiante: perciò, a proposito dell'attuale stato della narrativa, mi accontento di affermare che la situazione è preoccupante. La narrativa è uno strano oggetto. Anche se meno malleabile, meno duttile della poesia, si presta a una molteplicità di usi, e il Novecento, scaduto or sono cinque anni, nella sua prima metà ne ha offerto ampia e spesso geniale dimostrazione. Nella seconda metà del secolo, vi è stato un recupero dei moduli tradizionali, con esiti talvolta ammirevoli (Calvino, Volponi, Rea, Morante e pochi altri), e vi è stata una esplosione di sperimentalismo che non mi pare abbia condotto lontano. Nel 1980 Umberto Eco ha pubblicato Il nome della rosa: forse un bel libro, forse soltanto un libro intelligente, comunque un severo richiamo a un uso probo e corretto della fabula e dello strumentario connesso.

Passato un quarto di secolo dalla sortita di Eco, la nebbia è tornata a infittirsi (con alcune responsabilità da parte della critica e della editoria, che confondono, non so quanto maliziosamente, il soffio dell'arte con il soffio del marketing: non rassicura, in un caso e nell'altro, che la stanza dei bottoni sia presidiata da uomini solleciti della quantità di prodotto piuttosto che della sua qualità). I giovani leoni – a volte giovani anche in senso anagrafico – inventano le loro storie, calandosi nella cronaca offerta dalla TV o dai giornali oppure nelle sciagurate vicende della nostra povera Italia (Fascismo e Resistenza sono gettonati mica male), e ottengono il prodigioso risultato di apparire tanto più inverosimili quanto più hanno lavorato sul vero. Ed è inutile insistere sulle cinquecento, mille parole con cui scrivono: è una povertà volontaria e involontaria, è il frutto di scuole modeste e si indirizza a un pubblico che proviene da scuole modeste. A colmare il vuoto letterario provvede il pieno mediatico, e i giovani leoni risolvono il dilemma posto da Erich Fromm (essere o avere?) nel senso di esserci.

Io non credo nelle scuole di scrittura creativa, ne ho parlato con diffidenza in più occasioni: nondimeno, se dovessi dare un suggerimento a un apprendista narratore, lo avvertirei che parlare di bambini rapiti, di stupri (più o meno di gruppo), di terrorismo, di bombe, di spionaggio, di puttane ecc. ha scarso significato, se il racconto non riesce a dare voce a un sentimento. Abbiamo la ventura o la sventura di vivere in un mondo pieno di fatti, che giungono alla nostra conoscenza nel giro di poche ore o di pochi minuti. Però si tratta di brutti fatti, che tali rimangono, esterni ed estranei a ciò che può accendersi nel chiuso dei cuori. Ebbene: una parte consistente dei nostri giovani autori scrive cronaca nera, mette il giornalismo al posto della letteratura.

Assistiamo quindi a un paradosso, ampiamente propiziato dalla TV: il romanzo, nato per infrangere le barriere del reale, e per proiettare verso l'altrove o meglio verso l'oltre, si rincantuccia sempre di più nel reale, specie in quello miserabile, lutulento, e ambisce a una impossibile credibilità. La cosi detta verità della vita non si lascia né prendere né imitare, perché non basta volerla cogliere nelle tracce più clamorose, più evidenti (che so, il sangue di un delitto, gli escrementi di una latrina, il cibo verminoso di un affamato), ma perché occorre snidarla nel segreto dell'anima, e non vi è forziere più difficilmente espugnabile dell'anima. Ci hanno provato, ci stanno provando psicologi e affini con risultati opinabili, a essere generosi (Angelo Izzo insegna) hanno rubato il mestiere ai romanzieri, cui, quasi istituzionalmente, spettava di avventurarsi dove è consentito solo supporre. Si è verificata una duplice disfatta: il lettino dello psicanalista non è riuscito a sostituire Dostoevskij, in compenso tutti gli sprovveduti, e sono la maggioranza, hanno dubitato di Dostoevskij. Nei casi più gravi, lo hanno barattato con Francesco Alberoni e con la cattedra di banalità, settimanalmente tenuta dal medesimo sul nostro maggiore quotidiano.

Franca Bacchiega muove al contrattacco e, sulle rovine dell'istituto romanzesco, ritorna a edificare. Non è una novità. Le sue precedenti prove di narrativa (ma anche di poesia) volano per restituire alla fantasia, che è vita essa stessa e anzi della vita è la parte più significativa, tutto ciò che le è stato sottratto: così nel romanzo breve Falce di luna (1987) e nella raccolta di racconti Storie ufficiose (1994). I due racconti o forse i due romanzi proposti in Non c'entra il Paradiso procedono nella direzione accennata, ma (se fosse possibile) con un convincimento maggiore, con un rigore che mette a tacere sin troppo facili obiezioni. È di scena la morte o, meglio, il dopo, il post mortem.

Il Lettore fermi irriguardosi scongiuri. Nella concezione di Franca la morte è certo un evento capitale, ma non è un evento ferale e tanto meno tragico. È un cambiamento. Attenzione: non in senso cristiano, e da qui il titolo lievemente provocatorio, Non c'entra il Paradiso, quanto dire che, per immaginare un al di là o un altrove, l'ipotesi di un altro mondo, secondo il disegno di Dante, è un fuori luogo, un fuori questione. Morire è approdare ad altra o ad altre dimensioni, ossia è trasformarsi, è vivere in un modo diverso. L'esistenza del Dio trascendente, del Demiurgo platonico, che castiga i reprobi e premia i virtuosi, è faccenda tutto sommato al di fuori della cosmogonia di Bacchiega, non c'entra (e a conti fatti, rivela più coerenza di Andersen, che, nella notissima Sirenetta, dopo aver ipotizzato il "mondo delle creature aeree", si fa un obbligo di avvertire che, tempo due o trecento anni, le creature aeree di specchiati costumi ascenderanno al Cielo del buon Dio: quindi, in Andersen, il paradiso c'entra, eccome).

[...]

Giampaolo Rugarli

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Pagina 17

L'ombra di Nina



In un luminoso pomeriggio di fine aprile nel cuore di Manhattan, un pergolato già coperto di gemme offriva i primi arabeschi d'ombra sullo spazioso terrazzo di una bella casa liberty.

Una giovane coppia sorbiva lentamente una tazza di caffè alternando alla conversazione lunghe pause di silenzio. La vita li aveva uniti e li disuniva a intervalli per l'inconciliabilità di alcuni lati dei loro caratteri. Le rispettive attività fuori casa e la vita frenetica della grande metropoli americana ne esasperavano, a volte, le difficoltà.

Sarah, molto attiva e determinata, anche se calma e controllata, veniva presa da una sorta di insofferenza quando, tornata a casa la sera, doveva occuparsi dei problemi di suo marito. Problemi che erano magari reali ma la cui ripetitività li rendeva assillanti e alla lunga insopportabili. Lei dominava male un certo fastidio anche se alla fine era portata a minimizzarli. Pensava che la vita era difficile per tutti e due, ma lo era di più per lei che oltre al lavoro doveva risolvere i mille problemi quotidiani di una casa; e il carattere problematico di Charles non rendeva certo più facile l'esistenza che per altri versi sarebbe stata piacevole e serena.

— Non vedi che come arrivo a casa devo iniziare un altro lavoro, come puoi riversarmi tutti i tuoi guai senza chiedermi se anch'io ho i miei da risolvere?

— E tu perché non capisci che sorta di vita devo vivere dalla mattina alla sera senza potermi confidare con qualcuno in mezzo a quel nido di vipere che è il mio luogo di lavoro?

Quasi quasi avrebbe pianto — pensava Sarah — se qualcuno glielo avesse permesso.

Ma con Sarah non era possibile. Lucida, decisa, sbrigativa nel lavoro era poi incapace, una volta rientrata a casa, di ritrovare la pazienza, la disponibilità che tanto avevano incantato Charles nei primi anni.

Ma era possibile — si chiedeva Charles — che fosse così cambiata, che non sentisse più nulla per lui, che non riuscisse più a trovare la tenerezza che...

— Charles, vieni a sorreggere questa mensola. Sta cadendo ogni cosa da qua sopra. Dammi una mano. Questa confusione non regge più. Devo togliere tutto e rimettere a posto. Ci vorrà mezz'ora. Come se non fosse già abbastanza tardi. Charles! Per favore smettila di pensare ai tuoi guai e aiutami, in due faremo prima. Ecco, tieni questi barattoli — adesso li molla — posali sulla credenza e dacci una spolverata con lo straccio, quello celeste, là sopra — sarà, ma non ce lo vedo a pulire con quella faccia avvilita, ora romperà qualcosa.

La marmellata fuoriusciva dal fondo di un vaso che nelle mani di Charles aveva emesso un suono un po' troppo secco nell'impatto con il ripiano di marmo. Il contenuto filtrava piano, inavvertito. Lui non se ne accorgeva. Lei bolliva.

Dopo un po' in quella cucina, l'aria divenne furiosa. Sarah, zitta, svuotava lo scaffale da mille impossibili cose, ma appoggiava da sola e altrove gli oggetti da ripulire. Il silenzio voluto da lei per evitare un litigio non si trasformò in nulla di buono. La rabbia repressa s'ingrandì provocando scintille che, nell'aria, scoppiettavano come legno secco. Lui terminò di spolverare e attese assente, distratto dai suoi pensieri inutilmente addolorati, attese, forse, nuove disposizioni. Lucida, Sarah osservava la disutilità di quell'uomo nelle cose pratiche, e per l'ennesima volta sentì la fatica che le costava accudire alle sue necessità reali e psicologiche. La mancanza di un dialogo diretto che avrebbe liberato lei e forse anche lui da inutili rigorosi silenzi, rendeva più pesante la situazione.

Sbottò quando la marmellata, scivolando lungo il ripiano, cominciò a cadere sul pavimento allargando la macchia mano a mano che i fiotti si riversavano, mentre Charles, assorto, stava per metterci sopra un piede.

— Attento! Ma non vedi! Ma che hai nella testa! Smettila, Charles, non se ne può più dei tuoi dolori. Vattene in salotto e rimani lì, almeno non mi innervosisci.

Charles guardò in terra, capì, con un giornale raccolse alla meglio il contenuto versato dal vasetto incrinato, lavò anche un po' con una spugna e corse via per non incorrere in altri rimbrotti. Per non essere distratto, soprattutto, dalla sua pena.

Julian lo aveva salutato sul cancello al loro ritorno dal lavoro. Gli aveva ricordato che alle otto avrebbero avuto assieme una cenetta nella casa che Julian divideva con la moglie. Una lituana biondissima, dalla pelle trasparente, sempre allegra, disponibile, generosa, bravissima cuoca.

Charles se l'era già scordato, gli era completamente uscito di mente. Fu osservando dalla finestra il cancello che immetteva nel loro giardino, che recuperò il ricordo del saluto frettoloso e dell'invito.

— Sarah, avevo dimenticato di dirtelo. Stasera siamo a cena dai Rogers. Alle otto. Me l'ha ricordato Julian poco fa, rincasando.

Il silenzio accolse la notizia.

Possibile che non impari mai nulla. Che non capisca che io devo avere i capelli in ordine e devo riposarmi dieci minuti se devo uscire, che devo saperlo prima per avere tempo di acquistare qualcosa, dei fiori, dei dolci.

— Non potevi dirmelo prima, Charles, ma possibile che... Va bene, lascio qui tutto, finirò domani.

Una calma apparente accompagnò le parole — calme — di Sarah.

Vitaccia! Certe volte. Ma, malgrado tutto, procedeva relativamente serena. Il carattere debole di Charles era l'unica vera fatica di Sarah. O era quella che le costava di più, quella che non voleva accettare.

Fargli da madre. Impossibile. Quasi ne provava nausea. Perché non deve crescere come gli altri? Perché deve pesare su chi gli sta vicino? Perché? Perché.

Era già nel bagno per una velocissima doccia quando ricordò che il vestito rosso era in lavanderia. Acc...! Quello azzurro. Era un po' liso sull'orlo e attorno al collo. Ma poteva andare. In un attimo fu pronta. Bella, della sua bellezza bruna di spagnola, chiara di carnagione e di occhi che erano di un verde acqua stupendo. Iridi capaci di una immensa dolcezza. E di una immensa durezza quando il mondo non andava per il suo verso.

Ora si sentiva pronta per l'una e per l'altra. Gli amici da cui erano stati invitati le erano carissimi, "Nina la lituana" — come amava chiamarla nei momenti, molto frequenti, in cui la sua gioia di vivere scanzonata decideva di prendere in giro il mondo - era la donna più affettuosa e malleabile del mondo. Tanto malleabile che Sarah, a volte, l'avrebbe scossa e strapazzata per farle trovare un po' di energia. Però sapeva che era inutile. Nina era così. Quella sua femminilità. Quasi assoluta. O a metà? A volte Sarah ci pensava, quando aveva un po' di tempo per pensare. Per la strada, per esempio, quando camminava sola nel tratto che dall'ufficio la portava a casa o quando i lavori di casa le lasciavano la testa libera.

Poteva essere quella la quintessenza della femminilità? Gli uomini avrebbero detto di sì. Lei stessa, a volte, era propensa a pensarlo ma qualcosa, dentro, le diceva che c'era dell'altro.

Vivere vuol dire lottare, trasformarsi e trasformare vortice dopo vortice, vicenda dopo vicenda, perdendo a volte, vincendo in altre. Come poteva Nina lottare con quel carattere? Cedendo sempre, accettando tutto, serena, soddisfatta, emanante buon umore e accondiscendenza. Non costringeva nemmeno gli altri a lottare, perché cedeva subito il terreno. No – concludeva Sarah – qualcosa non va.

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Pagina 33

La casa era a pochi passi. La osservò da fuori, la raggiunse ed entrò.

La luna inondava il pavimento azzurrando gli oggetti, le suppellettili, gli angoli rimasti al buio. Si guardò intorno, osservò quella magia: non era tanto la luna a crearla quanto l'energia che questa lasciava sulle cose e nell'aria. Respirò. Il buon senso lo richiamò a pensieri più concreti, accese la luce e vide le cose in una sorta di confusione che prima, quando era uscito, non c'era.

Osservò intorno preoccupato, corse alla finestra, ne controllò la chiusura, era a posto. Nessuno era entrato, né di lì era uscito. Controllò le altre stanze. La stessa confusione. Guardò meglio. Nessun cassetto aperto o svuotato, non mobili spalancati. Nessun segno di furto, dunque. C'era solo quella confusione, fatta di oggetti spostati, allontanati dal loro posto abituale, messi altrove in luoghi diversi. Qualcuno li aveva spostati, non c'era dubbio. I ninnoli russi erano sparpagliati in ogni dove, il clarino che Nina suonava non c'era più. Si guardò intorno più attento di prima; si guardò nello specchio: il suo volto colpito di taglio dalla luce offriva un'immagine strana, incavata, sofferente, come se vi fossero passati sopra molti anni e molto dolore. Si spostò, accese un altro lume con la volontà precisa di modificare il taglio della luce. Allo specchio, ora, una nuova immagine di sé affiorava molto lentamente e con molta fatica sembrava annullare l'immagine di prima. Julian si stropicciò gli occhi, s'avvicinò alla finestra, l'aprì e respirò l'aria a pieni polmoni, più volte.

Ritornò nel centro della stanza e posò le mani sul ripiano del tavolo come a raccogliersi per affrontare quel disordine strano. Nessuno era entrato in casa in sua assenza. Questo – pensò – era l'unico dato concreto.

Rimise tutto nell'ordine di prima; fu cosa di poco tempo, l'ordine ristabilito lo tranquillizzò. Non volle dare ascolto al sottile disagio che l'accaduto gli aveva lasciato.

Andò a letto e s'addormentò.

Una luna dispettosa, scivolando dal pavimento alla coperta al volto, lo svegliò.

Un sudore abbondante lo avvolse quando s'accorse che nella stanza s'era instaurato il disordine di prima. Richiuse gli occhi, per non vedere ma anche per raccogliere i pensieri e decidere.

Decise. S'alzò, accese tutte le luci, aprì le finestre, sollevò mano a mano che passava gli oggetti spostati e li rimise nel posto di prima.

Luce e calma erano l'antidoto a quella stranezza. La chiamò così.

Ma nel rimettere a posto gli oggetti osservò che avevano dei bagliori innaturali; una luminosità, che non apparteneva a loro, li pervadeva. Erano più belli, se così si poteva dire, ma emanavano qualcosa di non rassicurante. Non approfondì.

S'era fatto giorno. S'avviò verso la cucina e si preparò la colazione. Sarah telefonò in quel momento per annunciargli che sarebbero partiti l'indomani per l'Italia e che lei e Charles avrebbero gradito cenare con lui quella sera stessa a casa loro.

La sera Julian fu puntuale. Sarah aveva fatto del suo meglio per allestire una cenetta piacevole — non erano le cene di Nina, naturalmente — ma la veranda a quell'ora era inondata di luce. Un colore particolare, donato dagli arancioni del tramonto, illuminava i cristalli e le porcellane e arricchiva di riflessi la tavola che già splendeva per la lucentezza del lino nella sua tessitura di Fiandra. Julian era incantato e, anche se continuamente distratto dal conversare affettuoso dei suoi ospiti, era catturato dai toni cangianti, dall'ammiccare dei riflessi colorati sui vetri. Non c'era dubbio, gli stavano tenendo un discorso. Ebbe il coraggio di chiedere il silenzio a Charles, che in quel momento parlava del suo lavoro, per poter ascoltare, non sapeva che cosa, un certo qualcosa che da quei riflessi gli veniva trasmesso. Sarah capì, anche lei era da qualche minuto catturata da quel sottile discorso formulato dalle tonalità di continuo accarezzate dalla trasparenza e dalla luminosità degli oggetti. C'era qualcosa di glorioso e di caldo, di dolce e di acuto, di insostituibile, di categorico nella gamma dei riflessi che l'un l'altro si scambiavano, che assieme assommavano.

— È la luce che parla — disse Julian — è da stanotte che non mi dà tregua.

Raccontò. La luna, la casa, l'ordine, il disordine, l'angoscia, il suo controllo. E qui, ora. Quella gloria oltre i vetri nel cielo del tramonto, quei frammenti aggraziati, raffinati, dolcissimi ma categorici nei segnali luminosi, autoritari e insondabili.

— Aiutami, Sarah, tu hai capito?

Un lungo silenzio di Sarah. Poi: — Sì, ho capito. Ma devi capirlo tu.

Silenzio di Julian. Silenzio di Charles.

I riflessi, ora color glicine, sui bicchieri, continuavano ammiccanti, perentori.

— Se non comprendo divento pazzo.

— È Nina, Julian.

Charles intervenne nervoso: — Non diciamo sciocchezze, Sarah, non mi pare il caso.

Sarah non fiatò, ma il suo silenzio rimarcò la sua affermazione. Il silenzio che seguì rese quell'affermazione di fuoco.

Julian era a disagio, Charles era nervoso. Sarah sembrava la calma personificata.

Ascoltavano, in realtà, tutti e tre, ciascuno a modo suo. E aderivano tutti e tre a quel discorso che rimaneva, però, incomprensibile alla loro mente, alla loro natura specifica, appesantito dalla diffidenza e dal rifiuto con cui, in fondo, tutti e tre reagivano.

Un tintinnare di bicchieri accompagnò una pennellata di viola che il tramonto inconsapevole insinuava in quella stanza, come sigillo di un discorso misterioso.

Il silenzio fra i tre sembrava infrangibile. Qualcosa di rigido come il cristallo li aveva immobilizzati come statue. Fu Sarah, a fatica, che per prima ruppe il silenzio.

— Julian, è cattiveria non assecondare.

— Hai capito questo, Sarah?

— È ingiusto non capire, sbrigati, Julian, non c'è più tempo. La vita ha i suoi appuntamenti, non ritorna sui suoi passi; sta a noi capire il momento e coglierlo.

Julian respirò profondamente. Forse aveva capito ma non osava affermarlo, soprattutto non osava dire quello che aveva capito perché gli avrebbe sovvertito tutto l'ordine della sua vita, tutta la pace, anche se poca, che aveva riacquistato dopo la morte di Nina. Eppure non poteva tacere ora, non poteva tenere per sé quella notizia sconvolgente, temibile per certi versi ma così intrinsecamente luminosa.

– Sì, Sarah, è Nina. È lei che ci parla, è lei che aggiunge qualcosa ai suoi discorsi, è lei che assomma, da una visione resa trasparente dalla morte, una accalorata visione di se stessa e di noi. Di me soprattutto. È lei, ne sono sicuro. E so che cosa ha voluto dirci. La luna e le sue magie. Il sole e i suoi sortilegi. Gli oggetti e i loro andirivieni, i riflessi, i colori, le malie. Nina ha sbagliato, Nina non è contenta, Nina dice che noi dobbiamo cambiare qualcosa. E dice anche che cosa. Il modo di sentire la vita, l'essenza della vita, il crogiolo che è la vita; il suo bruciare e bruciarsi, il suo rinascere dalle scorie.

Sapeva che doveva continuare, scendere in particolari, spiegare perché diceva questo, come gli era stato detto. Ma tacque. Qualcosa forse l'avrebbe aiutato.

Sarah lo osservava, i suoi occhi chiari azzurrati dalle ombre azzurroviola lo sollecitavano, lo spingevano verso quell'angolo buio, verso la linea d'ombra che uno deve attraversare quando lascia qualcosa di certo ed è ancora tutto incerto quello che l'attornia: vivacità, allusioni, parafrasi, godimenti e ripulse.

Julian era sollecitato da tutto: ricordi e sogni, delusioni e promesse, certezze e baratri. Guardò Sarah e Charles, tornò a guardare oltre i vetri della veranda, si concentrò sull'ultimo riflesso violaceo che indugiava sul cristallo della brocca e assorbì l'ultimo verbo, chiaro, assoluto: "Muoviti!" S'alzò, s'accostò alla finestra, guardò lontano verso ovest, oltre le ultime nuvole viola listate al di sotto di arancio, guardò nello squarcio di luce che usciva infuocata fra l'orlo delle nuvole e la terra liquida d'oro.

– Ho la Russia dentro che freme, ho la pace di quella terra, il dolore cadenzato di canti e di sciagure, ho l'impulso di quella gente a credere e a sperare di vivere. Devo partire, devo andare a raccogliere lì quello che non ho raccolto di Nina: la sua anima più profonda, quella che viveva sprofondata nelle radici della sua terra. Lì io capirò, lì la conoscerò.

Sarah ascoltava e capiva. Charles ascoltava e rifiutava di capire. Il suo senso comune non gli permetteva di accettare come si potesse lasciare un lavoro bene avviato, una città che lo aveva accolto dalla nascita per tentare, ora, di comprendere l'anima di una donna che, in fin dei conti, non c'era più e alla quale non sarebbe potuto essere utile.

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Pagina 59

Il senso di Dario per il vento



L'inverno stillava da tutte le parti la sua linfa lattiginosa in goccioline minime sugli alberi, sull'erba. A quell'ora era brina crepitante sotto le scarpe, pellicola luminosa sul canale a lato della strada.

Livido per il freddo e bianco come un lenzuolo immerso in un'acqua saponosa, Dario trovava anche la voglia di guardarsi intorno e di ammirare la bellezza di quel suo mondo sotto ghiaccio.

Ma che faceva in giro per le vie della sua città a quell'ora così mattutina, sotto la sferza di un vento tagliente come lama di rasoio, con la pipa spenta fra le labbra screpolate e una voglia di sole e di calore da non resistere più?

Aveva pensato di partire per i Caraibi per rompere, a metà inverno, quel rigore della sua terra, a cui non si sentiva più adatto. A lume di logica, andando avanti con gli anni avrebbe desiderato trasferirsi definitivamente in paesi più caldi dove la vita era, o gli sembrava, più generosa, dove il rapporto con la natura era più fiducioso e amichevole. Girare in maniche di camicia tutto l'anno, "ma vi par poco?", aveva detto agli amici mentre progettava il viaggio. E allorché ebbe in tasca i biglietti di un volo per Santo Domingo via Parigi, gli parve già d'esserci e di muoversi fra palme di cocco, spiagge candide e oceani blu, sennonché la tardiva decisione non gli aveva assicurato una sistemazione conveniente in un albergo della zona. Sarebbe partito lo stesso e, una volta sul luogo, avrebbe trovato sicuramente un alloggio decoroso e piacevole.

La banda dei suoi amici si rallegrava alla sua partenza, si dilungava in commenti, si prodigava a proporgli soluzioni e consigli di vita tropicale perché, rimanendo a casa, la voglia di un viaggio, per molti di loro irrealizzabile, trovava un po' di soddisfazione nel programmare per chi ci andava.

Le scarpe di Dario rompevano i fiori gelati della brinata, accompagnandolo con quel suono crocchiante che misurava il tempo e il peso del corpo. Camminava con prudenza, attento a non scivolare ma anche catturato piacevolmente dalla strana superficie che la strada, quella mattina, gli offriva. In quel momento era stupenda. Completamente ricoperta da una pellicola gelata, il piano stradale asfaltato sembrava una immobile massa d'acqua scura la cui lucentezza di vetro veniva chiazzata qua e là da strani arabeschi di ghiaccio candido.

La pioggia diaccia dei giorni prima aveva lasciato il posto alla bora che aveva ghiacciato tutto. Era raro che capitasse ma è quello che era successo durante la notte. Era arrivato quel vento indiavolato che parte dagli Urali, raggiunge le Alpi Giulie quasi senza forza, ma dove in fretta la recupera incanalandosi nelle gole da cui esce veloce, urlante, infuriato come aria compressa che si liberi d'improvviso per spazzare via il mondo intero.

Ma pulisce l'aria e la rende magica.

Nel centro della strada, una macchia color nocciola chiaro, un po' convessa, attrasse la sua attenzione. Con circospezione s'avvicinò, si chinò, la pipa in una mano, l'altra mano nella tasca, e vide che la macchia era una enorme buccia di noce di cocco privata del succoso contenuto e poi schiacciata da una ruota d'autocarro.

"Ne vedrò fino alla nausea – pensò Dario – quando sarò lì. Sugli alberi, sotto gli alberi, nuove, vecchie, spezzate e consumate".

Questo annuncio di isole tropicali gli sembrò di buon augurio in mezzo a tutto quel gelo. Pareva che gli venisse a dire: "qui comincia la storia. Io sono la prima apparizione, la formula d'avvio di un percorso che tu dovrai fare!".

Perché la visione di quel mezzo guscio di noce di cocco non gli aveva lasciato la stessa impressione dei biglietti d'aereo e delle illustrazioni dei luoghi che avrebbe visitato. No, no. Questo era un discorso serio. Era come un lavoro da fare, piacevole – sì, questo sì – ma impegnativo e forse un po' assillante.

"Andiamo a sorbirci una tazza di qualcosa di bollente al Caffè Italia". Il freddo era pungente, l'aria rigida e vibrante, con quell'insistere metodico sulla pelle che hanno i venti invernali, privi di fantasia, incapaci di piroette come fanno i venti in primavera, ma sistematici, persistenti, saturnini: presa una direzione, quella era, e non defletteva dal proposito; acuta, sistematica, monotona come un calcolo.

Aveva appena iniziato a sorseggiare il suo caffè che una mano vigorosa e amichevole lo colpì sulla schiena.

La voce di Dario, affogata in una abbondante sorsata di caffè, uscì in una frase detta senza averci pensato, forse con indifferenza, forse con distacco.

– Soltanto tu puoi essere in piedi a quest'ora e con questo freddo, Marco, ma non ce la fai proprio a stare un po' più a letto in questa stagione? Non occorre uscire all'alba quando si ha da vivere bene come te!

– Va là che lo sai – gli rispose Marco – se mi alzo è perché un motivo ce l'ho.

Tacquero tutti e due, pensosi, immersi in uno stesso pensiero. Anche questo lo sapevano.

La livida aria mattinale al di là delle vetrate del caffè, protette dai muri della piazza, era così carica di vapori da non essere nemmeno aria, ma una sorta di soluzione rarefatta che annullava la luce o la trasfigurava. Pullulava di vortici liquescenti, avvolgeva ogni cosa e la lasciava fradicia. Un barlume di sole ce la metteva tutta a forare quell'umido e più tardi forse ci sarebbe riuscito. Ora no. Ora se ne stava dietro quelle cortine di bollicine d'acqua ad attendere con pazienza.

– Avanti, termina il tuo caffè, poi ti dirò qualcosa!

Era Marco che interrompeva i suoi pensieri e quelli dell'altro, che tagliava la parete di ricordi che li univa e li umiliava.

Aveva, Marco, il potere di sdrammatizzare tutto.

Dario lo sapeva e lo ammirava. Avrebbe voluto essere come lui, ma aveva un altro carattere. Era incapace di eludere il dolore ingannando anche la mente con lo scherzo o la facezia.

Marco aveva perduto un figlio ancora bambino. Il mare se l'era rubato in una notte di bufera. La barca su cui si trovavano per una battuta di pesca s'era rovesciata portandosi via Linetto. Il suo corpo non s'era trovato più.

Ad ogni alba Marco tornava sulla riva del mare, con qualsiasi tempo, ormai da anni. Gli sembrava che l'alba gli avrebbe portato qualcosa, o detto qualcosa. Marco sorrideva spesso di questa sua debolezza, ma era incapace di smettere quelle alzate mattutine.

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