Copertina
Autore Ingeborg Bachmann
Titolo Quel che ho visto e udito a Roma
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2002, , pag. 128, cop.fle., dim. 120x182x9 mm , Isbn 978-88-86570-42-8
OriginaleWas ich in Rom sah und hörte [1991] - Römische Reportagen. Eine Wiederentdeckung [1998]
PrefazioneGiorgio Agamben
TraduttoreAnita Raja, Kristina Pietra
LettoreGiovanna Bacci, 2005
Classe storia contemporanea d'Italia , narrativa austriaca , viaggi , citta': Roma
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Indice

  7 Presentazione di Giorgio Agamben

 17 Cronache da Roma

 91 Appendice
    Articoli di Ingeborg Bachmann redatti a Roma
    per la "Westdeutsche Allgemeine Zeitung"

107 Postfazione
    Storia di una riscoperta di Jörg-Dieter Kogel

117 Quel che ho visto e udito a Roma


 

 

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Pagina 9

Il testo inqualificabile ("Esce in questi giorni, ma non è un racconto, bensì un'opera un po' strana dal punto di vista formale, cui non saprei dare nessun nome. S'intitola Quel che ho visto e udito a Roma..." I, 19) compare nel febbraio 1955, sulla rivista "Akzente". Lo stesso numero contiene la poesia Curriculum vitae, in cui l'anello della vita, "espulso alla mia nascita", viene liberato dal corpo sventrato di un pesce e scagliato "indietro nella notte" (O, 51).


"Non si tratta, però, di un'impressione su Roma, del famigerato resoconto di impressioni romane. Ho provato solo ad andare in cerca delle 'formule' della città, della sua essenza, così come si mostra molto concretamente in certi momenti" (I, 19). Un'operazione magico-metafisica, dunque, come in certi racconti di Vigolo, che evocano l'essenza di Roma in un temporale, in un assolato pomeriggio d'estate, in un cortile sognato. Ma qui – anche se più tardi ammetterà di sognare in italiano ("si sogna già in un'altra lingua", W, 140) – non vi è traccia di sogno, lo sguardo si posa lucido e crudele come mai sulla città. Il Tevere "non è bello", S. Pietro "sembra più piccola delle sue reali dimensioni e tuttavia è troppo grande", in Campo de' Fiori Giordano Bruno "continua a essere bruciato" e, improvvisamente, "udito e vista" dileguano.

[...]

Parlava italiano quasi perfettamente e senz'alcun accento. Ma di contare, in italiano, non era capace. Diceva che certe parole ("mi tagli un chilo di carne") non poteva pronunciarle in nessuna lingua.


Uno degli ultimi testi che dedica a Roma, è grammaticalmente una lunga serie di concessive: Zugegeben, daß..., concesso che. Quel che sembrava incantarla nella città – la strada, la gente, i monumenti – ora è oggetto soltanto di una concessione (anche la lingua tedesca conosce un'espressione simile a quella italiana: ammesso, ma non concesso: angenommen, aber nicht zugegeben). "Concesso che io non so più perché vivo qui... concesso che le case qui sono care, e il cibo economico, che improvvisamente tutti i miei amici si chiamano Giulio o Giorgio o Luciano, Ginevra, Marina, Alda. Concesso che si sogna già in un'altra lingua, ma che questo, a quanto pare, non significa nulla... Concesso che qui la vita è come dappertutto: un giorno uno si sposa, uno vince una cattedra, uno s'impicca o è internato in una clinica psichiatrica; che sarà come dappertutto, nessun Colosseo, nessun Campidoglio potranno farci nulla... Concesso che qui ho imparato a intendermi con gli altri... concedo anche che quando si chiude la porta della camera in cui lavoro, allora non c'è dubbio: si pensa da soli e essere soli è una cosa buona" (W, 140-41). È come se, con quella porta, anche la città cominciasse a richiudersi su di lei. Ma forse questo era già avvenuto subito, al primo incontro con Roma: "come nel primo entusiasmo e nel disincanto la città gli si aprì e subito si richiuse" (W, 136). E, come la città, nemmeno la lingua si può mai veramente possedere: "mi riferisco a un'imitazione, appunto, della lingua, che intuiamo e che non riusciamo a possedere" (U, 123).


Poi, tre mesi prima del rogo in cui doveva consumarsi: "Da quando qui è cominciato il terrore, è diventato brutto... Non ci sono guerra e pace, c'è solo la guerra" (I, 234).


Giorgio Agamben

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Pagina 32

Per un giorno l'Italia ha dimenticato le sue preoccupazioni quotidiane e di politica interna. Fulcro di tutti i discorsi non è come al solito il caso Montesi, bensì l'esito della conferenza di Londra. Il presidente del Consiglio Mario Scelba ha rilasciato oggi a Roma una dichiarazione secondo cui tutti i popoli liberi dovrebbero rallegrarsi del suo esito. La stampa indipendente e i giornali dei partiti di coalizione, soprattutto quelli dei democristiani, parlano soddisfatti di una vittoria dell'Occidente – una vittoria di particolare importanza considerata la situazione sempre più minacciosa nell'Estremo Oriente. Resta ovviamente da attendere la presa di posizione del parlamento francese, e un ottimismo prematuro sarebbe fuori luogo. Come pure la messa in atto dei punti più scabrosi, cioè quelli riguardanti il controllo degli armamenti. La condotta del nuovo ministro degli Esteri Martino, rappresentante dell'Italia alla conferenza, viene tenuta in grande considerazione. In nome dell'Italia Martino ha respinto con fermezza la proposta francese di costituire delle zone cosiddette dislocate prive di industrie belliche, in cui sarebbe rientrata anche l'Italia, appoggiando invece la richiesta francese di un controllo. Martino ha quindi condiviso il punto di vista di Mendès-France, guadagnandosi così la sua riconoscenza, ma rimarcando l'importanza di un'intesa franco-tedesca. Questo il suo giudizio personale sulla conferenza: "I risultati ottenuti sono altamente soddisfacenti, in particolare il compromesso raggiunto sulla questione del controllo degli armamenti." In Italia si osserva che, riguardo al ruolo sostenuto a Londra dai vari protagonisti, occorre ringraziare soprattutto l'Inghilterra per l'abilità politica e diplomatica dimostrata nel reagire alla situazione opprimente creatasi in seguito al fallimento della CED. A questo punto può ritenersi soddisfatta anche l'America, perché con una Francia neutrale il contributo tedesco alla difesa sarebbe divenuto incerto, se non illusorio. Il "Corriere della Sera" esprime la sua approvazione nei confronti della lungimiranza politica di Adenauer, che gli ha permesso concessioni assennate e importanti. Meno ottimisti sono gli ambienti conservatori italiani, in cui si fa notare la diffidenza causata dalla mossa di Mendès-France e il lieve dubbio che da allora si dovrebbe nutrire nei confronti della sincerità francese. Il conservatore "Giornale d'Italia" osserva che solo il futuro potrà dire se Londra ha superato o meno il neutralismo francese. E solo l'attuazione dell'accordo potrà essere valutata come un passo positivo verso la tanto desiderata cooperazione europea.

Zeit im Funk, 4 ottobre 1954

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Pagina 34

In mezzo al clima di festa dei triestini, cui neanche la fredda bora e la pioggia torrenziale hanno guastato l'entusiasmo, è giunta una notizia terribile: la catastrofe di Salerno. La tetra coincidenza di un giorno di festa con uno funesto solleva un problema anche politico: quello della colonizzazione interna ed esterna dell'Italia. Il Mezzogiorno è rimasto a tutt'oggi il punto nevralgico del paese, e i rimproveri della stampa e dell'opinione pubblica contro il governo sono stavolta particolarmente aspri. L'Italia ha pesantemente trascurato il sud sotto tutti i punti di vista a favore di sviluppi politici ed economici più appariscenti. Per sud si intendono le regioni Lucania, Calabria e Sicilia. È vero che frane e alluvioni costituiscono una catastrofe del tutto naturale in quel paradiso per stranieri tra Amalfi e Salerno, ma in nome dei trecento morti e degli innumerevoli senza tetto ci si chiede se non vi concorra anche un peccato di omissione. Ogni anno, in autunno, questa regione è messa in pericolo dall'acqua e dai nubifragi. Gli argini e le dighe non sono sufficienti. Soprattutto il furto di legname ha portato a una totale deforestazione e ne sono nate vere e proprie montagne mobili.

Quando il presidente del Consiglio Scelba, recatosi immediatamente sul luogo del disastro, ha sorvolato la zona con la cartina sulle ginocchia, non è riuscito a individuare alcune piccole località della costa. Anche l'equipaggio di volo era sgomento. Il motivo: erano sparite dalla superficie terrestre, spazzate via, crollate sotto il peso della roccia e dell'acqua. Dai piccoli laghi artificiali formatisi spuntavano solo campanili di chiese.

I triestini, il cui "rientro in patria" doveva essere reso più piacevole grazie a un prestito statale, pagheranno questa giornata storica. Il prestito dovrà essere prorogato, i danni verificatisi a Salerno e nei dintorni richiedono ben più dell'intera somma che dovrebbe essere stanziata per quel sussidio.

Nelle chiese di Salerno si allineano le bare, le candele ardono e i sopravvissuti piangono disperati e pregano. Il giorno della catastrofe piangevano e pregavano anche i triestini, ma in un clima di esultanza senza pari. A Trieste dove i bersaglieri, entrati col tradizionale passo di corsa al suono delle fanfare, venivano portati in spalla, e dove il generale Winterton non riusciva a congedarsi dal generale de Renzi, il nuovo commissario della città, perché il tragitto dal porto a piazza dell'Unità era bloccato da una massa di gente tale da impedire i festeggiamenti previsti.

È da notare che sia il giubilo di Trieste che la catastrofe di Salerno – e tutte le altre, numerosissime in Italia – sono addirittura una tradizione. Chi ha avuto occasione di assistere da vicino all'esultanza dei triestini, è tornato con la mente alle illustrazioni delle lotte irredentistiche del XIX secolo riportate sui libri di storia. Molti canti risalgono al Risorgimento. Era come trovarsi di fronte a un palcoscenico e assistere a un'opera storica che gli esponenti del moderno scetticismo europeo potrebbero forse giudicare troppo caricata, troppo pomposa, troppo retorica. Solo a Trieste si poteva percepire l'autenticità profonda di quest'esperienza di gioia collettiva. La bella città sull'Adriatico non voleva più essere isolata. Voleva, come si dice in Italia, essere ricongiunta alla madre patria.

La catastrofe di Salerno si colloca in una tradizione molto più drammatica, se non tragica. Le acque e i pendii delle montagne esercitano la loro azione distruttrice con tanta facilità perché il dislivello di civilizzazione tra nord e sud non è stato ancora colmato. Senza contare gli spogli pendii non ancora rimboscati, gli argini e le dighe costruiti in numero insufficiente – il sud è tuttora arretrato come al tempo degli spagnoli e dei Borboni, praticamente l'unica regione europea le cui case sono tuttora prive di acqua corrente e, al contempo, costantemente minacciate dalla paura delle frane, dei torrenti di montagna che precipitano su di loro all'improvviso con quantità d'acqua impressionanti.

Scelba ha capito perfettamente che questa nuova catastrofe del Mezzogiorno, le cui vittime sono state soprattutto molti bambini, assume la dimensione di un grave problema politico. Si tratta della quarta grande catastrofe alluvionale negli ultimi quattro anni. Finora non si è fatto che rattoppare alla meglio i vecchi danni. Mancano misure preventive in grande stile per evitare catastrofi future. Le autorità locali hanno espresso apertamente il loro scontento al presidente del Consiglio; e a Roma si è pienamente consapevoli dei grandi consensi che il comunismo raccoglie proprio al sud. Se in tempi brevi non verrà stanziato un generoso programma di investimenti a favore delle aree depresse, la democrazia italiana potrà essere indirettamente spazzata via dai nubifragi.

Zeit im Funk, 28 ottobre 1954

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Pagina 119

A Roma ho visto che il Tevere non è bello, ma trascurato nelle banchine, da dove spuntano rive a cui non c'è chi metta mano. Nessuno usa le navi da carico brunite dalla ruggine, nemmeno le barche. Arbusti ed erba alta sono infangati, e sulle balaustre solitarie dormono immobili gli operai nella calura di mezzogiorno. Fino ad ora non si è mai girato nessuno. Nessuno è mai caduto giù. Dormono dove i platani dispiegano loro un'ombra, e si calcano il cielo sulla testa. Bella è però l'acqua del fiume, verde argilla o biondo – a seconda di come la luce lo irradia. Bisogna camminare lungo il Tevere e non guardarlo dai ponti, pensati come strade che portano all'isola. La Tiberina è abitata dai Noantri – noi altri. È da intendere così, che essa, isola dei malati e dei morti fin dall'antichità, vuole essere abitata anche da noi altri, percorsa anche da noi, perché è a sua volta una nave e naviga molto lentamente nell'acqua con tutti i carichi, in un fiume che non la sente un peso.

A Roma ho visto che la basilica di San Pietro sembra più piccola delle sue reali dimesioni e tuttavia è troppo grande. Si dice che Dio abbia voluto che la sua chiesa sorgesse sulla pietra e fosse solida. Ora si leva sopra la tomba del suo santo, che stanno riportando alla luce. Così è il santo stesso a metterla in pericolo e a indebolirla. Ciononostante le grandi solennità si svolgono ancora chiassosamente, con balletti in porpora sotto baldacchini, e nelle nicchie l'oro sostituisce la cera. Chiesa granne divozzione poca. Sono ancora i poveri, nella loro avvedutezza, a preoccuparsi che la chiesa non crolli, e colui che l'ha fondata ormai fa conto sul passo degli angeli.

A Roma ho visto che molte case assomigliano al Palazzo Cenci, dove la sventurata Beatrice visse prima della sua esecuzione. I prezzi sono alti e le tracce della barbarie dovunque. Sulle terrazze i mastelli con gli oleandri marciscono cedendo ai fiori bianchi e rossi; i quali vorrebbero volare via, giacché non riescono a tener testa all'odore di sporcizia e decomposizione che rende il passato più vivo dei monumenti.

A Roma ho visto nel ghetto che non bisogna lodare il giorno prima della sera. Ma nel giorno dell'espiazione a ciascuno sarà perdonato in anticipo per un anno. In una trattoria vicino alla sinagoga la tavola è apparecchiata, e i pesciolini rossastri del Mediterraneo sono serviti con uva passa e pinoli. I vecchi si ricordano degli amici che furono pagati a peso d'oro; quando furono riscattati, i camion partirono lo stesso, e loro non tornarono più. Ma i nipoti, due ragazzine in gonne rosso acceso e un bambino grasso e biondo, ballano in mezzo ai tavoli e non staccano lo sguardo dai suonatori. "Suonate ancora!" grida il bambino grasso e sventola il berretto. Sua nonna accenna un sorriso, e quello che suona il violino diventa molto pallido e salta una battuta.

Ho visto a Campo de' Fiori che Giordano Bruno continua a essere bruciato. Ogni sabato, quando smantellano le bancarelle intorno a lui e restano solo le fioraie, quando la puzza di pesce, cloro e frutta marcita va disperdendosi sulla piazza, gli uomini raccolgono sotto i suoi occhi i rifiuti che sono rimasti dopo che di tutto è stato fatto mercato, e danno fuoco al mucchio. Di nuovo si leva il fumo, e le fiamme mulinano nell'aria. Una donna grida, e gli altri gridano con lei. Dato che nella luce forte le fiamme sono incolori, non si vede dove arrivano e dove cercano di colpire. Ma l'uomo sul basamento lo sa e perciò non ritratta.

[...]

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