Copertina
Autore Robert Badinter
Titolo L'abolizione
EdizioneSpirali, Milano, 2009, l'alingua 312 , pag. 332, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x2,5 cm , Isbn 978-88-7770-823-6
OriginaleL'abolition
EdizioneFayard, Paris, 2000
TraduttoreLuciana Brambilla
LettoreRiccardo Terzi, 2009
Classe paesi: Francia , diritto
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Indice


PRIMA PARTE
Da un presidente all'altro                   11

SECONDA PARTE
Ritorno a Troyes                             45
    I L'affaire Patrick Henry                47
   II Il processo Patrick Henry              89

TERZA PARTE
La lunga marcia                             133
    I Un momento d'incertezza               135
   II Il ritorno della ghigliottina         152
  III Tra morale e politica                 172
   IV Un inverno duro                       192
    V Il dibattito eluso                    211
   VI Il processo Garceau                   227
  VII Il ritorno della pena di morte        244

QUARTA PARTE
L'abolizione                                259
    I L'elezione di François Mitterrand     261
   II La legge                              289

Indice dei nomi dì persona                  325


 

 

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Pagina 13

L'indomani di un'esecuzione

Il mattino che seguì all'esecuzione di Buffet e di Bontems nella casa circondariale della Santé, il 28 novembre 1972, presi il treno per Amiens. All'epoca, insegnavo all'università della Piccardia. Pensavo che l'espletamento dei compiti ordinari, i ritmi e i riti della vita quotidiana potessero placare l'angoscia di morte che mi attanagliava. Ma la speranza di sfuggire, anche solo per un momento, a ciò che era capitato la notte precedente, era vana. Avvertii subito, nello sguardo di un collega incontrato in carrozza, un lampo di ambigua curiosità per il testimone di un evento eccezionale e ignominioso. C'era come un appello alla confidenza cui mi sottrassi. Gli studenti mi accolsero in un silenzio assoluto. Per tutto il tempo in cui esposi con voce strozzata le regole delle procedure fallimentari, sentii che si sforzavano di decifrare, dietro quella maschera livida, che cosa potesse provare quel loro anziano professore, quell'avvocato vinto che aveva visto ciò che, pensavano, mai nessuno di loro avrebbe visto.

Terminata la lezione, mentre riordinavo le mie carte, alcuni si avvicinarono al modesto podio. Volevano visibilmente parlarmi. Ancora più imbarazzato di loro, li precedetti e dissi alcune cose senza interesse sugli argomenti da preparare. Mi ascoltavano recitare quelle banalità senza che nessuno m'interrompesse per dirmi quello che volevano esprimermi e che io, teso com'ero, rifiutavo d'intendere. Ma sapevano che ero loro riconoscente, perché era proprio quel messaggio silenzioso, così prezioso in quell'istante, che ero andato a cercare tra loro.

Li lasciai precipitosamente. Avevo fretta di essere di nuovo solo. Le strade brillavano di una fredda pioggia autunnale. La stazione era gelida. Diedi un'occhiata all'edicola: tutti i giornali riportavano a caratteri cubitali l'annuncio dell'esecuzione. In prima pagina campeggiavano alcune foto di Buffet e di Bontems. Acquistai i soliti. Lasciai gli altri. Che cosa mi avrebbero detto che già non sapessi?

Seduto nello scompartimento quasi vuoto, mentre guardavo scivolare via il paesaggio familiare, riflettevo sulla decisione del presidente della Repubblica di fare giustiziare Buffet e Bontems. Se la convinzione abolizionistica che avevo prestato, come molti altri, a Georges Pompidou era stata fermamente interrotta, la grazia a Buffet avrebbe significato la fine della pena di morte in Francia. Buffet era già stato condannato all'ergastolo per avere assassinato una donna. Era stato recidivo nello stesso carcere di Clairvaux. Con Bontems aveva concepito di prendere in ostaggio un'infermiera e una guardia. Nell'assalto, aveva sgozzato entrambe. Buffet stesso chiedeva di essere giustiziato. Aveva fatto sapere al presidente che, se gli fosse stata concessa la grazia, avrebbe ucciso di nuovo nella sua prigione. Tutto ne comandava dunque l'esecuzione. Tranne l'essenziale: il rifiuto della pena di morte.

Nel suo orgoglio, Buffet aveva auspicato che, dopo di lui, la pena di morte fosse abolita. Si voleva eccezionale sotto tutti i riguardi. Con lui doveva chiudersi la lunga catena dei criminali morti sulla ghigliottina. Ma, nel suo morboso delirio, Buffet misconosceva l'evidenza. Mandandolo al patibolo, il presidente s'interdiceva di chiedere al Parlamento la soppressione della pena capitale. L'esecuzione di Buffet ne comandava il mantenimento, proprio come la grazia ne avrebbe implicato l'abolizione... La scelta presidenziale era fatta. Era la scelta della pena di morte.

Di portata ancora più pesante mi pareva l'esecuzione di Bonterns. Non aveva ucciso, lui. La corte d'assise lo aveva riconosciuto, nel verdetto. Era stato solo complice di Buffet. In precedenza, Bontems non aveva mai commesso delitti di sangue. Con la pena di morte commutata in ergastolo, avrebbe raggiunto nella notte carceraria la truppa anonima dei suoi simili. La condizione penitenziaria di Bontems sarebbe stata senza dubbio crudele. In lui si sarebbe visto sempre il complice di Buffet nell'assassinio dell'infermiera e della guardia. Ma Bontems aveva ventisette anni. Voleva vivere e, quali che fossero i rigori che l'attendevano, la sua vita poteva ancora prendere un senso.

In un moto di pietà, Buffet aveva chiesto al presidente della Repubblica di graziare Bontems nel momento stesso in cui avrebbe mandato lui, Buffet, alla ghigliottina. Ma il presidente aveva trattato nello stesso modo quello che aveva ucciso e quello che non aveva sangue sulle mani. L'esecuzione di Bontems apriva così la strada all'esecuzione di altri criminali colpevoli di delitti ancora più terribili. Avvertivo chiaramente che, da quel momento, la battaglia contro la pena di morte si sarebbe svolta su due fronti: un fronte politico, perché mai l'abolizione sarebbe intervenuta senza una ferma volontà presidenziale, fondata su una maggioranza parlamentare risoluta, e un fronte giudiziario, perché ci sarebbero stati ancora molti processi in cui sarebbe stata in gioco la vita dell'imputato.

Già sapevo che la giustizia poteva uccidere. L'avevo vista all'opera. Ero stato incapace di impedirlo. Ero come posseduto da quel pensiero. L'angoscia di morte della notte precedente, rimossa dalle abitudini e dagli obblighi del giorno, m'invadeva di nuovo in quel treno che correva nella notte. Chiusi gli occhi e avvertii, con intensità maggiore che all'alba, che da quel momento, finché in Francia non fosse stata abolita la pena di morte, io l'avrei combattuta con tutte le mie forze. Ero cosciente che quella lotta sarebbe stata per me un impegno primario, totale, senza peraltro riuscire a distinguere quanto, nella sua intensità, dipendesse dal senso di colpa che provavo nei confronti di Bontems o dal fatto che già conoscevo la realtà della pena di morte. Fino allora ero stato un sostenitore dell'abolizione. Da quel momento sarei stato un irriducibile avversario della pena di morte. Ero passato dalla convinzione intellettuale alla passione militante.

Rientrato, scrissi ai genitori di Bontems. Nella maniera più semplice e più fedele, dissi loro che era morto con coraggio. Pensavo fosse importante per suo padre, un ex combattente. Alla madre, che sapevo credente, riferii che si era confessato e comunicato prima di salire al patibolo. Padre Clavier aveva detto che era morto da cristiano e che Dio gli avrebbe usato misericordia. Ricordai che il loro figlio Roger non aveva ucciso né l'infermiera né la guardia. Dissi loro anche quanto li amasse, che me lo aveva ripetuto fino all'ultimo. Conclusa la lettera, la affrancai e andai a imbucarla perché partisse al più presto, quasi fosse l'ultimo gesto che potevo ancora compiere per Bontems. Tornai lentamente a casa nella notte di novembre. Ero gelato fino in fondo al cuore.


Il presidente e la pena di morte

La duplice esecuzione di Buffet e di Bontems segnava una rottura cruenta con il corso delle cose. Sino a quel momento, si poteva ragionevolmente pensare che il movimento che guidava l'Europa occidentale verso l'abolizione stesse per concludersi in Francia sotto la presidenza di Georges Pompidou. Decenni di crescita economica e di piena occupazione, la fine delle prove e delle violenze della decolonizzazione, l'evoluzione delle menti e delle sensibilità come testimoniava l'esplosione del maggio '68, tutto contribuiva a dare alla pena di morte il carattere di una sopravvivenza di cui la ghigliottina era il simbolo arcaico. Quando, nel marzo 1969, il lungo regno del generale De Gaulle si era concluso, sembrò portare con sé una certa visione della Francia in cui l'antica pena di morte aveva per tradizione il suo posto. Al di fuori del campo politico, in cui l'esecuzione di Jean Bastien-Thiry, regicida mancato, non avrebbe contribuito alla sua gloria, il generale De Gaulle aveva avuto della grazia presidenziale una pratica misurata. Formatosi nel corpo degli ufficiali prima della guerra del 1914, non pareva particolarmente preoccupato dal problema filosofico e morale della pena di morte. Il 20 marzo 1969, in piena campagna elettorale, qualche settimana prima del fallimento del referendum e delle sue dimissioni, il generale De Gaulle aveva mandato al patibolo un ragazzo di ventitré anni, Jean-Laurent Olivier, coltivatore dell'Oise, che aveva stuprato e strangolato una bambina e ucciso il suo giovane fratello. Gli psichiatri erano arrivati alla conclusione della piena responsabilità di Olivier, "con riserva di qualche anomalia".

La personalità di Georges Pompidou lasciava augurare disposizioni differenti. Figlio di maestri, era cresciuto in un ambiente in cui Victor Hugo, Jaurès, Clemenceau, tutti abolizionisti, incarnavano l'ideale repubblicano. Uscito dall'École normale supérieure, già membro della Gioventù socialista, appassionato di letteratura e di arte moderna, non lo si immaginava accettare il ricorso alla ghigliottina. Interrogato sul tema, aveva dichiarato: "Per temperamento, non sono un uomo sanguinario". Inoltre, in quegli anni di cambiamento delle menti e dei costumi, l'opinione pubblica sembrava sempre meno attaccata alla pena di morte. Il numero delle esecuzioni diminuiva con il passare dei decenni. La pena capitale sembrava destinata a cadere in disuso.

Al suo arrivo all'Eliseo, il presidente Pompidou aveva trovato la domanda di grazia di due condannati che avevano ucciso un brigadiere di gendarmeria. Albert Naud, celebre avvocato d'assise e grande avversario della pena di morte, andò a sostenere presso il presidente la loro domanda di grazia. Raccontò: "Ne ho approfittato per affrontare il problema della pena di morte. Il presidente si è mostrato molto aperto, mi ha fatto molte domande. Il colloquio è durato cinquantacinque minuti. È la prima volta che ho avuto, con un presidente della Repubblica, un vero e proprio dialogo sul tema. E, per me, era un buon segno [...]". Il presidente concesse la grazia. Furono graziati altri due condannati, la cui sentenza era stata pronunciata prima delle elezioni presidenziali.

Nell'autunno 1969, nelle prigioni francesi non c'erano più condannati a morte. In novembre, per la prima volta, un sondaggio rivelava che la maggioranza dei francesi (58%) si pronunciava per l'abolizione; i giovani sotto i trentacinque anni si mostravano i più favorevoli (64%). La lunga campagna dell'Associazione francese contro la pena di morte, condotta dalla presidentessa, Georgie Vienney, sembrava prossima alla riuscita. Restava il problema politico.

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Essenziali rimanevano le posizioni che avrebbero preso i due candidati tra cui si giocava realmente l'elezione. In televisione, il 10 marzo, il presidente Giscard d'Estaing dichiarò: "La pena di morte è stata applicata dal tempo della mia presidenza e io penso che nel momento attuale il governo non debba proporre al Parlamento l'abolizione della pena di morte. Ritengo che un tale cambiamento possa intervenire solo in una società pacificata [...] e, finché questa pacificazione non sarà sentita dal corpo sociale francese, sarebbe andare contro la profonda sensibilità del popolo francese; ritengo anche non si abbia il diritto di andare contro la profonda sensibilità di un popolo che si rappresenta e si governa". Quindi, nel clima d'insicurezza che regnava, se Valéry Giscard d'Estaing fosse stato rieletto, l'abolizione sarebbe stata rinviata sine die.

François Mitterrand sarebbe intervenuto nella cornice della grande trasmissione Cartes sur table, animata da Alain Duhamel e da Jean-Pierre Elkabbach, la settimana successiva. Ero convinto che i due giornalisti, di cui conoscevo i sentimenti abolizionistici, avrebbero interrogato anche lui sulla pena di morte. Lo dissi a Mitterrand, che non sembrò darvi importanza. Divorato dall'inquietudine, la mattina della trasmissione lo chiamai presto, a casa. Enunciai in fretta alcuni argomenti che egli già conosceva. Sentii una punta d'irritazione nella sua voce. Aveva fretta. Dissi che, la mattina stessa, gli avrei fatto portare una breve nota sullo stato della questione in Francia e in Europa. Con la cortesia abituale rispose: "Se vuole". In linguaggio mitterrandiano significava: "È inutile". Redassi tuttavia una breve rievocazione delle dichiarazioni delle Chiese, delle organizzazioni di difesa dei diritti dell'uomo, del Parlamento europeo, del Consiglio europeo. Citai i grandi abolizionisti: Hugo, Jaurès, Camus. A mezzogiorno, depositai la nota in rue de Bièvre. Vi regnava un'atmosfera febbrile. Di solito, accompagnavo François Mitterrand allo studio con altre persone a lui vicine. Decisi che avrei guardato la sua prestazione in casa mia, la sera.

Quando gli fu posta la domanda sulla pena di morte, lo vidi ammiccare in modo quasi impercettibile per una breve frazione di secondo. Fremetti. Ma si era già lanciato. Si dichiarò senza giri di parole né precauzioni oratorie per l'abolizione: "Nella mia coscienza, nella fede della mia coscienza, sono contro la pena di morte". Poi aggiunse: "E non ho bisogno di leggere i sondaggi che dicono il contrario: un'opinione maggioritaria è per la pena di morte. Ebbene, io sono candidato alla presidenza della repubblica [...]. Dico quello che penso, quello in cui credo, quello cui si agganciano le mie adesioni spirituali, la mia credenza, la mia preoccupazione della civiltà. Non sono favorevole alla pena di morte [...]".

Esultai. Era detto tutto. Era tutto chiaro. Se François Mitterrand fosse stato eletto, l'abolizione era certa. Sicuramente, sarebbe occorsa una legge, quindi una maggioranza parlamentare pronta a votare l'abolizione. Ma ero convinto che all'elezione di Mitterrand sarebbe seguito lo scioglimento dell'Assemblea nazionale. E la nuova Assemblea, eletta qualche settimana dopo l'elezione del presidente, avrebbe potuto avere solo una maggioranza di sinistra; forse debole, pensavo, ma sufficiente per farla finita con la pena capitale.

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