Copertina
Autore Alain Badiou
Titolo L'ipotesi comunista
EdizioneCronopio, Napoli, 2011 , pag. 176, cop.fle., dim. 13x19x1,2 cm , Isbn 978-88-89446-67-6
OriginaleL'hypothèse communiste [2009]
TraduttoreLivio Boni, Andrea Cavazzini, Antonella Moscati
LettoreFlo Bertelli, 2012
Classe storia contemporanea , movimenti , politica , paesi: Francia , paesi: Cina
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Indice


Preambolo
Che cosa s'intende per fallimento?                   7

I   Siamo ancora contemporanei di Maggio '68        33

1.  Maggio '68 rivisitato, quarant'anni dopo        35
2.  Abbozzo di un esordio                           51
3.  Di quale reale questa crisi è lo spettacolo?    65

II  L'ultima rivoluzione?                           71

III La Comune di Parigi:
    una dichiarazione politica sulla politica      115

IV  L'Idea del Comunismo                           153



 

 

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Pagina 7

Preambolo



Che cosa s'intende per fallimento?



1


A partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso comincia il riflusso del "decennio rosso" che era iniziato con questa quadruplice occorrenza: lotte di liberazione nazionale (Vietnam e Palestina innanzitutto), movimento mondiale della gioventù studentesca (Germania, Giappone, USA, Messico...), rivolte nelle fabbriche (Francia e Italia) e Rivoluzione culturale in Cina. Questo riflusso trova la propria forma soggettiva nel rinnegare rassegnato, nel ritorno alle vecchie abitudini, comprese quelle elettorali, nella deferenza verso l'ordine capital-parlamentare o "occidentale", nella convinzione che aspirare a meglio sia aspirare a peggio. E trova la propria forma intellettuale in quella che in Francia ha assunto lo strano nome di "nouvelle philosophie". Sotto questa denominazione si ritrovano, pressoché immutati, tutti gli argomenti dell'anticomunismo americano degli anni Cinquanta: i regimi socialisti sono infami dispotismi, dittature sanguinarie; nell'ordine dello Stato si deve contrapporre al "totalitarismo" socialista la democrazia rappresentativa, che certo è imperfetta ma che è di gran lunga la meno peggio delle forme di potere; nell'ordine della morale, molto più importante dal punto di vista filosofico, bisogna magnificare i valori del "mondo libero" di cui gli Stati Uniti costituiscono il centro e i garanti; l'idea comunista è un'utopia criminale che, fallita ovunque, deve far posto a una cultura dei "diritti umani" che combini il culto della libertà (ivi compresa, e innanzitutto, la libertà d'intraprendere, di possedere e d'arricchirsi, garanzia materiale di tutte le altre) e una rappresentazione vittimistica del Bene. Il Bene, infatti, altro non è che la lotta contro il Male, il che equivale a dire che ci si deve prendere cura esclusivamente di chi si presenta o viene esibito quale vittima del Male. Quanto al Male, esso non è altro che ciò che il libero Occidente definisce tale, quel che Reagan definiva "l'Impero del Male". Ed eccoci tornati al punto di partenza: l'Idea comunista, ecc.

Oggi questo apparato propagandistico sta passando di moda per diverse ragioni, prima fra le quali il fatto che nessuno Stato davvero potente si richiama più al comunismo e nemmeno al socialismo. Certo, diversi artifici retorici sono stati riciclati nella "guerra contro il terrorismo" che in Francia ha assunto le sembianze di una crociata anti-islamista. Tuttavia è difficile credere seriamente che un'ideologia religiosa, particolarista, retrograda nella sua visione sociale e fascisteggiante quanto alla concezione dell'azione e dei suoi esiti, possa sostituirsi a una promessa d'emancipazione universale fondata su tre secoli di filosofia critica, internazionalista e laica che impegnava risorse scientifiche ed era capace di mobilitare, nel cuore delle metropoli industriali, sia l'entusiasmo operaio che quello degli intellettuali. Già l'amalgama tra Stalin e Hitler rivelava un pensiero estremamente povero, per il quale il solo criterio di ogni impresa collettiva è il numero di morti. Nel qual caso, del resto, i genocidi e i massacri coloniali, i milioni di morti delle guerre civili e mondiali attraverso le quali il nostro Occidente ha forgiato la propria potenza, avrebbero dovuto a loro volta squalificare, agli occhi degli stessi "filosofi" che ne incensano la moralità, i regimi parlamentari d'Europa e d'America. Che cosa rimane dunque ai prosatori dei Diritti, capaci di vaticinare contro il totalitarismo solo se appollaiati su una montagna di cadaveri, per fare l'elogio della democrazia borghese come unica forma del Bene relativo? Comunque oggi è l'amalgama tra Hitler, Stalin e Bin Laden a far parte della cupa farsa. Esso rivela che il nostro democratico Occidente non si fa troppi scrupoli quanto al combustibile storico preposto a far girare la macchina propagandistica. Θ anche vero che di questi tempi ha altre gatte da pelare. Ormai in preda, dopo due brevi decenni di prosperità cinicamente inegualitaria, a una crisi veramente storica, esso si vede costretto a dare un taglio alle proprie pretese "democratiche", come già aveva cominciato a fare da qualche tempo, a forza di muri e fili spinati anti-stranieri, di media corrotti e asserviti, di prigioni stracolme e leggi scellerate. Poiché ha sempre meno i mezzi per corrompere la propria clientela locale e per comprare a distanza regimi feroci, i Mubarak o i Musharaf, incaricati di fare la guardia al gregge dei poveri.

Cosa resta dello sforzo dei "nouveaux philosophes" che ci hanno illuminato, cioè abbrutito, per trent'anni? Quali sono gli ultimi resti della grande macchina ideologica della libertà, dei diritti umani, della democrazia, dell'Occidente e dei suoi valori? Tutto ciò si riduce a un semplice enunciato negativo, umile quanto una constatazione, nudo come una mano: nel corso del ventesimo secolo i socialismi, sole forme concrete dell'idea comunista, hanno completamente fallito. Sono dovuti tornare al dogma capitalistico e inegualitario. Questo fallimento dell'Idea ci lascia, di fronte al complesso dell'organizzazione capitalista della produzione e del sistema statale parlamentare, nell'assenza di ogni scelta: bisogna adeguarsi, volens nolens. Ragion per cui, del resto, oggi dobbiamo salvare le banche senza confiscarle, dare miliardi ai ricchi e niente ai poveri, aizzare, se possibile, i francesi contro gli operai di origine straniera, gestire direttamente tutta la miseria affinché sopravvivano le potenze. Non c'è scelta, vi dico! Questo non significa che – ammettono i nostri ideologi – affidare la direzione dell'economia e dello Stato alla cupidigia di qualche bandito e alla proprietà privata senza freni sia il Bene assoluto. Ma è l'unica via possibile. Stirner, nella sua visione anarchica, definiva l'uomo, agente individuale della Storia, come "l'Unico e la sua proprietà". Oggi c'è piuttosto "la Proprietà come unico".

Da qui la necessità di meditare sulla nozione di fallimento. Che cosa significa "fallire" nel caso di una sequenza della Storia in cui si sperimenta questa o quella forma dell'ipotesi comunista? Che cosa s'intende esattamente, quando si afferma che tutte le esperienze socialiste nate sotto il segno di una tale ipotesi sono "fallite"? Θ un fallimento radicale – implica cioè l'abbandono dell'ipotesi stessa, la rinuncia a ogni questione dell'emancipazione? O è invece relativo soltanto alla forma o alla via che è stata esplorata, e il cui fallimento non ha fatto altro che stabilire che non si trattava della via giusta per risolvere il problema iniziale?

Posso illustrare la mia convinzione per mezzo di un paragone. Sia dato un problema scientifico che può benissimo assumere la forma di un'ipotesi, finché non sia risolto. Per esempio il "teorema di Fermat", che si può considerare un'ipotesi, se lo si formula nei termini seguenti: "Per n > 2, suppongo che l'equazione x^n + y^n = z^n non abbia soluzioni intere (soluzioni in cui x, y e z siano numeri interi). Tra Fermat che ha formulato l'ipotesi (a dire il vero pretendeva di averla dimostrata, ma sorvoliamo) e Wiles, il matematico inglese che l'ha realmente dimostrata qualche anno fa, vi sono stati innumerevoli tentativi di provarla. Molti di questi sono serviti da punto di partenza per sviluppare questioni matematiche di grande portata, sebbene non abbiano risolto quel problema specifico. Θ stato dunque fondamentale non abbandonare l'ipotesi nel corso dei tre secoli durante i quali non si era riusciti a dimostrarla. La fecondità di questa serie di fallimenti, della loro disamina, delle loro conseguenze, ha animato la vita matematica. In questo senso il fallimento, a condizione che non si ceda sull'ipotesi, non è altro che la storia della giustificazione di quest'ultima. Come dice Mao, se la logica degli imperialisti e di tutti i reazionari è "provocare disordini, fallimento, nuova provocazione, nuovo fallimento, e così fino alla rovina", la logica dei popoli è invece "lotta, fallimento, nuova lotta, nuovo fallimento, nuova lotta ancora, e così fino alla vittoria".

In questo libro, sosterremo quindi, anche in forma dettagliata nel caso di tre esempi (Maggio '68, la Rivoluzione culturale, la Comune di Parigi), che i fallimenti apparenti, talora cruenti, di eventi legati in profondità all'ipotesi comunista, sono stati e permangono tappe della sua storia. Almeno per tutti coloro che non rimangono accecati dall'uso propagandistico della nozione di fallimento. Cioè semplicemente per coloro che continuano a essere animati dall'ipotesi comunista in quanto soggetti politici, che si servano o meno del termine "comunismo". In politica contano il pensiero, l'organizzazione e l'azione. Talvolta alcuni nomi propri servono da riferimento, come Robespierre, Marx, Lenin... I nomi comuni (rivoluzione, proletariato, socialismo...) sono già molto meno capaci di nominare una sequenza reale della politica d'emancipazione, e il loro uso si trova rapidamente esposto a un'inflazione priva di contenuto. Gli aggettivi (resistente, revisionista, imperialista...) sono per lo più destinati alla sola propaganda. L'universalità, infatti, attributo reale di un corpo-di-verità, non sa che farsene dei predicati. Una vera politica ignora le identità, persino quella, tanto tenue, tanto variabile, dei "comunisti". Essa non conosce altro che quei frammenti del reale attraverso i quali un'Idea dimostra che è in corso il lavoro della sua verità.

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Pagina 35

1
Maggio '68 rivisitato, quarant'anni dopo



Vorrei partire da una questione assai semplice: perché tutta questa agitazione, a quarant'anni di distanza, intorno al Maggio '68, libri, articoli, trasmissioni, dibattiti, commemorazioni d'ogni sorta? Non c'è stato niente di tutto questo per il trentennale o per il ventennale.

Una prima risposta è nettamente pessimistica. Oggi possiamo commemorare Maggio '68 perché siamo sicuri che è morto. Dopo quarant'anni, non dà più segni di vita. Come affermano certi illustri ex sessantottini. Forget '68! non esita a dichiarare Daniel Cohn-Bendit, diventato nel frattempo un politico comune. Siamo in un mondo tutto diverso, la situazione è completamente cambiata, possiamo commemorare tranquillamente la nostra bella gioventù. Niente di quel che è accaduto ha ancora un significato attivo per noi. Nostalgia e folklore.

C'è una seconda risposta ancora più pessimistica. Si commemora Maggio '68 perché il suo vero risultato, il vero eroe di Maggio '68, è il capitalismo liberale nella sua massima espressione. Le idee libertarie del '68, la trasformazione dei costumi, l'individualismo, il gusto del godimento, trovano il loro compimento nel capitalismo postmoderno e nel suo variegato universo di consumismi d'ogni genere. In fin dei conti il prodotto di Maggio '68 è Sarkozy in persona e, come ci invita a fare Glucksmann, celebrare Maggio '68 significa celebrare l'Occidente liberale che l'esercito americano difende coraggiosamente dai barbari.

Vorrei contrapporre a queste visioni deprimenti una serie d'ipotesi più ottimistiche riguardo a questa commemorazione.

La prima sostiene che, contrariamente alla seconda ipotesi, l'interesse per il '68, in particolare quello di una parte significativa della gioventù, è un riflesso anti-Sarkozy. Nel momento culminante della sua negazione, ci si rivolgerebbe insomma al Maggio '68 come a una fonte possibile d'ispirazione, come a una sorta di poema storico, per riprendere coraggio, per reagire quando si è veramente toccato il fondo.

E poi c'è un'altra ipotesi, ancora più ottimistica. Attraverso questa commemorazione, ivi compreso il suo lato ufficiale, commerciale e deformato, si esprimerebbe oscuramente l'idea che forse un altro mondo politico e sociale è possibile; che quella grande idea del cambiamento radicale, che ha avuto per due secoli il nome di rivoluzione ossessionando la gente di questo paese per quarant'anni, si fa strada silenziosamente dietro la scenografia ufficiale della sconfitta completa di quella stessa idea.

Ma bisogna partire da più lontano.

Il punto essenziale da comprendere è che, se questa commemorazione è complicata e dà luogo a ipotesi contraddittorie, è perché Maggio '68 è in sé un evento di una grande complessità. Impossibile fornirne un'immagine semplice e unitaria. Voglio tentare allora di trasmettervi questa divisione interna, questa molteplicità eterogenea che è stata Maggio '68.


Esistono in realtà quattro differenti "Maggio '68". La forza, la peculiarità del Maggio '68 francese sta nell'aver intessuto, associato e sovrapposto quattro processi in fin dei conti abbastanza eterogenei. E se i bilanci possibili di tale evento sono tanto diversi, è perché di solito se ne prende in considerazione solo un singolo aspetto e non la totalità complessa che ne ha fatto la vera grandezza.

Cerchiamo di spiegare questa complessità.


Maggio '68 è stato innanzitutto una sollevazione, una rivolta degli studenti delle università e dei licei. Θ il suo aspetto più spettacolare, più noto, quello che ha lasciato le immagini forti che rivisitiamo in questi ultimi tempi: manifestazioni di massa, barricate, scontri con la polizia, ecc. Immagini di violenza repressiva e di entusiasmo dalle quali occorre, mi pare, estrarre tre caratteristiche. In primo luogo, questa sollevazione è stata un fenomeno mondiale (Messico, Germania, Cina, Italia, USA...). Non è dunque un fenomeno specificamente francese. In secondo luogo, bisogna ricordare che a quell'epoca gli studenti universitari e liceali rappresentavano una minoranza della gioventù nel suo insieme. Negli anni Sessanta, solo il 10 o il 15% di una generazione sosteneva l'esame di maturità. Quando si parla di "studenti" si sta parlando di una piccola frazione dell'insieme dei giovani, nettamente separata dalla massa della gioventù popolare. In terzo luogo, gli elementi di novità sono di due ordini diversi: da una parte, c'è la straordinaria forza dell'ideologia e dei simboli, il vocabolario marxista, l'idea di rivoluzione. Dall'altra l'accettazione della violenza, difensiva, antirepressiva, certo, ma comunque violenza. Θ quel che dà il tono alla rivolta. Tutto questo costituisce un primo Maggio '68.

Poi vi è un secondo Maggio '68, molto diverso, che è il più grande sciopero generale di tutta la storia francese. Θ una componente fondamentale. Lo sciopero generale fu per molti versi abbastanza classico. Strutturato intorno alle grandi fabbriche, largamente animato dai sindacati, in particolare dalla CGT. Esso farà esplicitamente riferimento all'ultimo grande sciopero di questo tipo, quello del Front populaire. Si può dire che, per la sua estensione, nella sua figura "media", questo tipo di sciopero si colloca in un contesto assai diverso da quello della rivolta dei giovani. Appartiene a un contesto per così dire più classicamente di sinistra. Detto questo, anche lo sciopero generale è animato da elementi di radicalità innovativa. Questi elementi sono tre.

Prima di tutto, l'inizio dello sciopero, il suo scoppio, è in gran parte esterno rispetto alle istituzioni operaie ufficiali. Nella maggior parte dei casi sono gruppi di giovani operai che danno inizio al movimento, al di fuori delle grandi organizzazioni sindacali, che vi si assoceranno in un secondo momento, in parte per poterlo controllare. In questo Maggio '68 operaio c'è dunque una componente di rivolta che è anch'essa interna alla gioventù. I giovani operai praticano quello che spesso veniva chiamato lo "sciopero selvaggio", per distinguerlo dalle grandi giornate sindacali tradizionali. Si noti che gli scioperi selvaggi cominciano fin dal 1967, e che dunque il Maggio '68 operaio non è un semplice riflesso del Maggio '68 studentesco, ma un'anticipazione. Questo legame temporale e storico tra movimento della gioventù istruita e movimento della gioventù operaia è molto particolare. Secondo elemento di radicalità: l'uso sistematico dell'occupazione delle fabbriche. Ovviamente ereditato dai grandi scioperi operai del 1936 o del 1947, ma più generalizzato. La quasi totalità delle fabbriche viene occupata e coperta di bandiere rosse. Che immagine straordinaria! Bisognava vederlo questo paese in cui ogni fabbrica era coperta di bandiere rosse. Chi l'ha visto non può dimenticarlo. Terzo elemento "duro": in quel momento e negli anni seguenti ci sarà una pratica alquanto sistematica di sequestro dei padroni e di scontri marginali con i quadri sindacali e i CRS. Il che significa che il punto di cui parlavo prima, una certa accettazione della violenza, esiste nel movimento studentesco e liceale, ma esiste anche nel movimento operaio di quel periodo. Bisogna infine ricordare, per finire su questo secondo Maggio '68, che, tenuto conto di tutti questi elementi, il problema della durata e del controllo del movimento era decisivo. Tra la volontà direttiva della CGT e le pratiche che lo storico Xavier Vigna definisce di "insubordinazione operaia" avranno luogo conflitti interni al movimento di sciopero, conflitti assai vivi, il cui simbolo resta il rifiuto del protocollo della negoziazione di Grenelle da parte degli operai di Renault-Billancourt. Qualcosa si è ribellato ai tentativi di una negoziazione classica di quello sciopero generale.

Vi è poi un terzo Maggio '68, anch'esso eterogeneo, che definirei il Maggio libertario. Concerne la trasformazione dei costumi, i nuovi rapporti in amore, la libertà individuale, questioni che daranno vita al movimento delle donne e poi a quello per i diritti e l'emancipazione degli omosessuali. Influenzerà anche la sfera culturale, con l'idea di un nuovo teatro, di una nuova forma di parola pubblica, di un nuovo stile d'azione collettiva, la promozione dell'happening, dell'improvvisazione, gli stati generali del cinema... Anche questa è una componente particolare del Maggio '68, componente che si potrebbe definire ideologica e che, pur finendo talvolta in un anarchismo snob e festaiolo, fa parte anch'essa della tonalità generale dell'evento. Basta vedere la forza dei manifesti del Maggio usciti dagli atelier dell'Ιcole des beaux-arts.

Occorre ricordare che queste tre componenti restano distinte, malgrado alcune importanti intersezioni. E tra loro possono esserci conflitti significativi. Tra il gauchisme e la sinistra classica vi saranno veri e propri scontri, come pure tra il gauchisme politico (rappresentato dal trotskismo e dal maoismo) e il gauchisme culturale, di tendenza più anarchica. Tutto questo dà un'idea di Maggio '68 come effervescenza contraddittoria, ben lontana dalla festa unitaria. La vita politica di Maggio '68 è intensa e si dà in una molteplicità di contraddizioni.

Le sue tre componenti sono rappresentate da grandi luoghi simbolici. Per gli studenti la Sorbona occupata, per gli operai le grandi industrie automobilistiche (prima tra tutte Billancourt), per il Maggio libertario l'occupazione del teatro dell'Odéon.

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Pagina 47

Quel che è assolutamente decisivo è mantenere l'ipotesi storica della possibilità di un mondo liberato dalla legge del profitto e dell'interesse privato. Fintanto che, nell'ordine della rappresentazione intellettuale, si rimane convinti che non sia possibile farla finita con tutto questo e che questa sia la legge del mondo, non è possibile nessuna politica d'emancipazione. Θ quel che ho proposto di chiamare l'ipotesi comunista. Ed è in realtà un'ipotesi essenzialmente negativa, poiché è più sicuro e più importante dire che il mondo così com'è non è necessario piuttosto che dire "a vuoto" che un altro mondo è possibile. Θ una questione di logica modale: nella logica che s'impone politicamente si procede dalla non-necessità alla possibilità. Per la semplice ragione che, se si ammette la necessità dell'economia capitalistica trionfante e della politica parlamentare che la sostiene, semplicemente non si riescono a vedere, nella situazione data, altre possibilità.

In secondo luogo bisogna tentare di conservare i termini del nostro linguaggio, termini che oggi a stento osiamo pronunciare e che erano invece patrimonio comune nel '68. Ci obiettano: "Il mondo è cambiato e non potete più pronunciarli, sapete bene che si trattava di un linguaggio illusorio e terroristico". Ma sì! Certo che possiamo! Anzi dobbiamo! Il problema è lo stesso, e quindi dobbiamo poter pronunciare quei termini. Sta a noi criticarli, conferir loro un senso nuovo. Dobbiamo poter continuare a dire "popolo", "operaio", "abolizione della proprietà privata", ecc., senza considerarci ai nostri stessi occhi come dei nostalgici. Dobbiamo discutere questi termini all'interno del nostro campo, del nostro accampamento. Bisogna farla finita con il terrorismo linguistico che ci lascia in balìa del nemico. Abdicare nel linguaggio, accettare il terrore che ci proibisce intimamente di pronunciare i termini che non rientrano nel lessico dominante, è un'oppressione intollerabile.

Infine, dobbiamo sapere che qualsiasi politica è organizzata, e che il problema probabilmente più difficile, da risolvere attraverso sperimentazioni multiformi cominciate già nel '68, è capire di che tipo d'organizzazione abbiamo bisogno. Poiché il dispositivo classico del partito, che si appoggia su intermediari sociali e le cui "sfide" più importanti sono in realtà quelle elettorali, è una dottrina che ha dato tutto quel che poteva dare. Θ ormai trita, non può più funzionare, malgrado le grandi cose che ha prodotto o propiziato tra il 1900 e il 1960.

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Pagina 65

3
Di quale reale questa crisi è lo spettacolo?



La crisi planetaria della finanza, così come ci viene presentata, assomiglia a uno di quei brutti colossal prodotti da quell'industria di successi prefabbricati che oggi si chiama "cinema". Non manca niente: lo spettacolo progressivo del disastro, la suspense prevedibilissima, l'esotismo dell'identico — la Borsa di Jakarta messa sullo stesso piano spettacolare di quella di New York, la diagonale da Mosca a San Paolo, le banche che ardono ovunque dello stesso fuoco —, gli effetti a catena che terrorizzano: Ahi, ahi, ecco che i "piani" meglio elaborati si rivelano incapaci d'impedire il venerdì nero, d'impedire che tutto crolli o stia per crollare... Ma la speranza resta: in primo piano sulla scena, sconvolti ma concentrati, come in un film catastrofe, il manipolo dei potenti, i pompieri del fuoco monetario, i Sarkozy, Paulson, Merkel, Brown e Trichet vari stipano migliaia di miliardi nel Buco centrale. Più tardi ci si domanderà (in un feuilleton futuro) da dove li abbiano tirati fuori, visto che, alla minima richiesta dei poveri, rispondevano da anni, rigirandosi le tasche, di non avere un soldo. Per il momento ha poca importanza: "Salvare le banche!". Questo nobile grido umanista e democratico esce fuori da tutte le gole politiche e mediatiche. Salvarle a ogni costo! E non è un modo di dire, dato appunto il costo.

Devo confessarlo: io stesso, viste le cifre che girano e delle quali, come quasi tutti, non riesco a figurarmi che cosa possano significare (quanti sono esattamente millequattrocento miliardi di curo?), ho fiducia. Mi affido totalmente ai pompieri. Tutti uniti, lo so, lo sento, ce la faranno. Le banche saranno persino più grandi di prima, qualche banca piccola o media che non sia riuscita a sopravvivere se non grazie alla benevolenza dello Stato, sarà venduta a una banca più grande per un tozzo di pane. Crollo del capitalismo? State scherzando? E chi mai lo auspica? Chi è che sa sa che cosa voglia o vorrebbe dire? Salviamo le banche, vi dico, e il resto seguirà. Per gli attori diretti del film, cioè i ricchi, i loro servitori, i loro parassiti, coloro che li invidiano o li incensano, un happy end, forse un po' malinconico, è assicurato, visto lo stato attuale del mondo e delle politiche che vi si praticano.

Rivolgiamoci piuttosto agli spettatori di questo show: la folla disorientata, vagamente inquieta, che ci capisce poco ed è completamente sconnessa da ogni implicazione attiva nella circostanza, ode in lontananza il richiamo delle banche in agonia, immagina i week-end veramente spossanti del glorioso manipolo dei capi di governo, vede sfilare cifre astronomiche e oscure, e le paragona meccanicamente alle proprie risorse, oppure anche, come nel caso di una parte molto considerevole dell'umanità, alla pura e semplice non-risorsa che costituisce lo sfondo amaro e coraggioso della sua vita. Vi dico che questo è il reale e che vi avremo accesso solo a condizione di distogliere lo sguardo dallo schermo dello spettacolo per guardare la massa invisibile di tutti coloro per i quali, un momento prima di ritrovarsi in condizioni ancora peggiori di quelle in cui già vivono, il film catastrofe, compreso il finale rosa (Sarkò che abbraccia Merkel mentre tutti piangono di gioia) non è mai stato altro che un teatro d'ombre.

In queste ultime settimane si è molto parlato di "economia reale" (la produzione e la circolazione di beni) e di economia – come dire, irreale? – da cui veniva ogni male, visto che i suoi attori erano diventati "irresponsabili", "irrazionali", "predatori" che sguazzano nella rapacità, poi il panico, la massa ormai informe delle azioni, delle transazioni e della moneta. Questa distinzione è assurda e generalmente veniva smentita poche righe dopo, quando, con una metafora di senso contrario, la circolazione e la speculazione finanziarie venivano paragonate alla "circolazione sanguigna" dell'economia. Possono il cuore e il sangue essere separati dalla realtà vivente di un corpo? Può un infarto finanziario esser indifferente alla salute dell'economia nel suo insieme? Beninteso, il capitalismo finanziario è – da sempre, cioè nella fattispecie da cinque secoli – una parte costitutiva, centrale, del capitalismo in generale. Quanto ai detentori e agli animatori di siffatto sistema, essi sono "responsabili" solo dei profitti, la loro "razionalità" si misura coi guadagni, e predatori non solo lo sono, ma hanno il dovere di esserlo.

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Pagina 70

Il secondo livello è ideologico. Bisogna capovolgere il vecchio verdetto secondo il quale ci troveremmo nell'epoca della "fine delle ideologie". Vediamo chiaramente che questa presunta fine in realtà non è altro che la parola d'ordine "Salviamo le banche". Nulla è più importante del ritrovare la passione per le idee e contrapporre al mondo così com'è un'ipotesi generale, la certezza anticipata di un ben diverso corso delle cose. Al nefasto spettacolo del capitalismo contrapponiamo il reale dei popoli, della vita delle persone nel movimento proprio delle idee. Il tema dell'emancipazione dell'umanità non ha perso nulla della sua potenza. Certo, il termine "comunismo", che per lungo tempo è stato il nome di questa potenza, è stato svilito e prostituito. Ma oggi la sua scomparsa serve solo ai fautori dell'ordine, gli attori febbrili del film catastrofe. Lo resusciteremo, nella sua nuova chiarezza. Che è poi anche la sua vecchia virtù, quando Marx diceva del comunismo ch'esso avrebbe rotto "con le idee tradizionali nel modo più radicale" facendo sorgere "un'associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti".

Rottura totale con il capital-parlamentarismo, politica inventata aderendo al reale popolare, sovranità dell'idea: è tutto qui quel che ci distoglie dal film della crisi e ci restituisce al nostro proprio insorgere.

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Pagina 153

IV
L'Idea del Comunismo



Il mio proposito è oggi quello di descrivere un'operazione intellettuale cui – per una serie di ragioni che spero siano convincenti - assegnerò il nome d'Idea del comunismo. Probabilmente il passaggio più delicato della costruzione cui mi accingo è quello più generale, quello in cui si tratta di stabilire cosa sia un'Idea, non solo per quanto riguarda le verità politiche (e, nella fattispecie, l'Idea di comunismo), ma anche per quanto riguarda una verità qualsiasi (e, in questo caso, l'Idea implica una ripresa contemporanea di ciò che Platone tenta di trasmetterci con il nome di eidos o d' idea o, per essere più precisi, d'idea del Bene). Darò quindi essenzialmente per implicita l'Idea nella sua generalità, per essere il più chiaro possibile sull'Idea del comunismo.

L'operazione "Idea del comunismo" richiede tre componenti originarie: una componente politica, una componente storica e una componente soggettiva.

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Pagina 169

Ricapitoliamo dunque nella maniera più semplice possibile. Una verità è il reale politico. La Storia, anche la Storia come riserva di nomi propri, è un luogo simbolico. L'operazione ideologica dell'Idea del comunismo è la proiezione immaginaria del reale politico nella finzione simbolica della Storia, ivi compreso nella forma di una rappresentazione dell'azione delle masse innumerevoli per mezzo dell'Uno di un nome proprio. La funzione di questa Idea consiste nel sostenere l'incorporazione individuale nella disciplina di una procedura di verità, autorizzando l'individuo stesso a eccedere le limitazioni statali che predicano la sopravvivenza, per divenire parte di un corpo-di-verità o corpo soggettivabile.

Ci domanderemo a questo punto: perché mai è necessario il ricorso a un'operazione tanto ambigua? Perché mai l'evento e le sue conseguenze devono esporsi nella forma di un fatto, e spesso di un fatto violento, che le diverse varianti del "culto della personalità" accompagnano? Perché mai una tale assunzione storica delle politiche d'emancipazione?

La ragione più immediata sta nel fatto che la storia ordinaria, la storia delle vite individuali, è prigioniera dello Stato. La storia di una vita è in sé, indipendentemente da ogni decisione e da ogni scelta, una parte della storia dello Stato, le cui mediazioni classiche sono la famiglia, il lavoro, la patria, la proprietà, la religione, i costumi... La proiezione eroica, ma individuale, di un'eccezione a tutto questo – così come lo è una procedura di verità – ambisce a essere condivisa con gli altri, non vuole mostrarsi solo come eccezione, ma anche come possibilità ormai comune a tutti. Ed è proprio questa una delle funzioni dell'Idea: proiettare l'eccezione nell'ordinario delle esistenze, riempire di una dose d'inaudito ciò che si contenta di esistere. Convincere il mio entourage individuale, mio marito o mia moglie, i vicini e gli amici, i colleghi, che c'è anche la favolosa eccezione delle verità in divenire e che non siamo condannati all'omologazione delle nostre esistenze dai limiti imposti dallo Stato. Certo, sarà in ultima istanza solo l'esperienza nuda o militante della procedura di verità a forzare qualcuno a entrare nel corpo-di-verità. Ma per condurlo fino al punto in cui quell'esperienza si dà, per renderlo spettatore, e quindi anche già per metà attore, di quel che importa a una verità, la mediazione dell'Idea, la condivisione dell'Idea sono quasi sempre necessarie. L'Idea del comunismo (quale che sia il nome che le viene dato e che d'altronde conta poco: nessuna idea è identica al suo nome) è ciò attraverso cui è possibile dire il processo di una verità nel linguaggio impuro dello Stato, spostando così, per un certo tempo, le linee di forza attraverso le quali lo Stato prescrive quel che è possibile e quel che è impossibile. In una simile prospettiva, il gesto più semplice consiste nel portare qualcuno a una vera riunione politica, lontano da casa, lontano dai suoi parametri esistenziali abituali, in una residenza d'operai del Mali, per esempio, o ai cancelli di una fabbrica. Una volta giunto nel luogo dal quale procede una politica, sarà lui a decidere se incorporarsi o se ripiegare su se stesso. Ma perché possa venire sul luogo, occorre che l'Idea – e da due secoli a questa parte, o forse fin da Platone, un'idea del genere è l'Idea del comunismo – lo pre-disponga nell'ordine delle rappresentazioni, della Storia e dello Stato. Occorre che il simbolo venga immaginariamente a sostegno della fuga creatrice del reale. Occorre che fatti allegorici ideologizzino e storicizzino la fragilità del vero. Occorre che una povera e decisiva discussione tra quattro operai e uno studente in una sala buia sia ingigantita per un momento nelle dimensioni del Comunismo e possa così essere al contempo quel che è e quel che sarà stata in quanto momento della costruzione locale del Vero. Occorre che diventi visibile, per mezzo dell'ingigantimento simbolico, il fatto che le "idee giuste" provengono da questa pratica pressoché invisibile. Occorre che la riunione tra cinque persone in una periferia sperduta diventi eterna nella sua stessa precarietà. Par questo il reale deve esporsi in una struttura di finzione.

La seconda ragione è che ogni evento è una sorpresa. Se non lo fosse, sarebbe stato prevedibile come un fatto e quindi s'iscriverebbe nella Storia dello Stato, il che è contraddittorio. Si può dunque porre il problema in questi termini: come prepararci a simili sorprese? Il problema sussiste anche quando siamo già militanti delle conseguenze di un evento anteriore, anche quando siamo già inclusi in un corpo-di-verità. Certo immaginiamo lo sviluppo di nuovi possibili. Ma l'evento che accade renderà possibile quel che, anche per noi, resta ancora impossibile. Per poter anticipare, almeno dal punto di vista ideologico o intellettuale, la creazione di nuovi possibili, dobbiamo avere un'Idea. Un'Idea che includa ovviamente la novità dei possibili messi in luce dalla procedura di verità di cui siamo i militanti, e che sono dei possibili-reali, ma che includa anche la possibilità formale d'altri possibili, ancora insospettati. Un'Idea è sempre l'affermazione che una nuova verità è storicamente possibile. E poiché la forzatura dell'impossibile in direzione del possibile ha luogo per sottrazione rispetto alla potenza dello Stato, si può dire che un'Idea afferma che quel processo di sottrazione è infinito: è sempre formalmente possibile spostare ancora una volta la linea di divisione fissata dallo Stato tra il possibile e l'impossibile, per quanto radicali possano essere stati gli spostamenti precedenti, compreso quello cui prendiamo parte attualmente in quanto militanti. Questo è il motivo per cui uno dei contenuti dell'Idea comunista oggi – contro il motivo ricorrente del comunismo come obbiettivo da raggiungere per mezzo della concezione di un nuovo Stato – consiste nell'affermare che il deperimento o l'estinzione dello Stato è certo un principio che deve essere visibile in ogni azione politica (come è espresso dalla formula: "politica a distanza dallo Stato", così come il rifiuto obbligatorio di ogni inclusione diretta nello Stato, di ogni domanda di finanziamento statale, di ogni partecipazione alle elezioni, ecc.), ma che è anche un compito infinito, perché la creazione di nuove verità politiche sposterà sempre le linee di divisione tra i fatti statali, e quindi storici, e le conseguenze eterne di un evento.

Tutto ciò ci permette di concludere sulle inflessioni contemporanee dell'Idea del comunismo. Il bilancio attuale dell'Idea del comunismo, come si è già detto, obbliga a constatare che la posizione della parola "comunismo" non può più essere quella di un aggettivo, come nel caso di "Partito comunista" o di "regimi comunisti". Sia la forma-Partito, che quella dello Stato-socialista, sono ormai inadeguate ad assicurare il sostegno reale dell'Idea. Questo problema ha trovato d'altronde una prima espressione negativa in due eventi cruciali degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: la Rivoluzione culturale in Cina e la nebulosa denominata "Maggio 68" in Francia. In seguito, sono state e sono tuttora sperimentate nuove forme politiche, tutte dell'ordine della politica senza-partito. Globalmente, però, la forma moderna, cosiddetta "democratica», dello stato borghese, di cui il capitalismo mondializzato è il supporto, può sembrare senza rivali in campo ideologico. Durante tre decenni la parola "comunismo" è stata, infatti, vuoi del tutto dimenticata, vuoi praticamente identificata a imprese criminali. Da qui la generale confusione della situazione soggettiva della politica. Senza Idea, il disorientamento delle masse è inevitabile.

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