Copertina
Autore Sanjay Bahadur
Titolo Il rumore dell'acqua
EdizioneCairo, Milano, 2009, Scrittori stranieri , pag. 236, cop.ril.sov., dim. 15,5x21,7x2,2 cm , Isbn 978-88-6052-221-4
OriginaleThe Sound of Water [2009]
TraduttoreBeatrice Masini
LettoreFlo Bertelli, 2009
Classe narrativa indiana
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Si sta comodi nel ventre tombascuro della terra. Duecentocinquanta piedi sotto l'arida crosta è tranquillo e fresco; il silenzio carbonico è infranto solo dal vago fruscio dell'acqua che striscia lungo le pareti biancosfiocco e il soffitto buiopece. Raimoti si ferma ad ascoltare. Nulla. Si è allontanato di poco dalla sua squadra di sei minatori intenti a godersi la meritata pausa cena all'imbocco del filone. Raimoti tende le orecchie, allunga il collo rugoso per cogliere il minimo sussurro. Cerca il rumore dell'acqua: non l'innocuo chioccolio di goccia perlata, ma il mormorio mortale di piccole onde che lambiscono la magra barriera di rocce. Però oggi c'è solo la pietra asciutta, niente acqua. Solo ombra sotto la roccia nera.

Per quasi un secolo suo padre e il padre di suo padre prima ancora – tutti minatori – sono vissuti temendo quel rumore, e sono morti in pace. Per quasi quarant'anni Raimoti ha continuato la loro ricerca, ma la Bestia ancora lo elude. Spera solo di morire come i suoi padri, fuori, in un letto asciutto. Teme la Bestia e vuole darle la caccia prima che sia lei a scovarlo. Teme la morte d'acqua. Ha paura di essere sommerso e rinchiuso per l'eternità dentro il buio labirinto sotterraneo dove nemmeno i suoi dèi verrebbero a cercarlo. Ma è un uomo coraggioso, e così va a caccia.

Non ha granché l'aspetto di un cacciatore mentre si accovaccia preoccupato sul pavimento della miniera. Il suo volto è di età indefinita, il volto di chi non è più giovane. Le rughe fonde, un'intera rete, gli scivolano dalla fronte ossuta e corrono come rivoletti smarriti sulla pelle crostosa e lungo gli angoli della bocca, addensandosi in pozze d'ombra attorno agli occhi sporgenti e alle guance cave. I capelli radi sono più grigi che neri e si rizzano in spirali bizzarre sulla testa allungata, dandogli un'espressione vagamente stupita. La realtà sorprende Raimoti. E i suoi occhi recano una meraviglia che viene dall'interrogare il sole e dall'accettare la luna. Dal dubitare della luce e dal credere nelle ombre.

Nessuno – nemmeno sua madre, che è morta da un pezzo – l'ha mai trovato bello, ma il suo volto ha quel certo fascino che la franchezza e il candore danno alle persone dotate di un cuore semplice. I denti storti, macchiati dal tabacco, che gli si affollano dietro le labbra contribuiscono all'espressione confusa e spesso sono complici nell'indurre la gente a credere che sia una creatura influenzabile. Le grandi orecchie avvizzite sono un tratto vistoso del suo volto. Sbucano dai lati della testa e lui le torce nella sua furtiva ricerca di suoni: suoni piatti, suoni aspri, suoni secchi, suoni umidi, suoni colorati, suoni bianchi. Suoni neri. Suoni dentro. E del mondo di fuori. Le sue orecchie li bevono tutti e quelli interferiscono con i battiti del suo cuore.

Raimoti scruta nel buio tra le ombre e si curva avvicinandosi alle pareti della miniera. Le sue mani lunghe e ruvide si aggrappano alla superficie bozzuta del tunnel avvertendone la frescura. Raccoglie un po' di polvere con la punta delle dita e la annusa con narici vibranti. A volte l'anima può nascondersi dentro il corpo, ma le parole pronunciate possono rivelarne la natura. A volte l'acqua può nascondersi nelle rocce insensibili, ma è tradita dalla polvere inquieta che sa portare gli odori. Ma oggi la polvere di carbone è ostile e silenziosa, resiste alle domande, non svela segreti. A volte la terra può essere indifferente in questo modo.

Si volta e si accovaccia, appoggiando la schiena stanca alla parete, gli avambracci sottili abbandonati a riposare sulle ginocchia. Lavorare sottoterra è duro per il corpo e ancora più duro per la mente. Divora veloce la giovinezza, prosciuga le energie e corrode i pensieri. In certi mondi si può ritenere che un uomo raggiunga l'apice dopo mezzo secolo di vita, ma in questo, a quell'età la sola cosa che resta è lo spirito, e a volte nemmeno quello. Raimoti sospira. Si sente troppo vecchio, ma ha ancora voglia di lottare. Per tutta la sua vita vincere non è stato importante, perché si è preservato per il solo scontro a cui sa di essere destinato. Sa che accadrà. Solo che non sa quando.

Volta la testa da un lato, lontano dalla luce. Per un attimo gli sembra di aver colto il lampo di un movimento improvviso. Dopo qualche istante libera il respiro e capisce che l'ha trattenuto troppo a lungo. Si alza lentamente e inarca la schiena per liberarsi del dolore sordo che ormai sembra non abbandonarlo mai. Non era così da giovane. Si volta a scoccare uno sguardo all'estremità remota del tunnel e decide che c'è tempo per un'altra breve esplorazione.

Mentre si addentra nel buio più denso, Raimoti accende la lampada sul casco. Un pallido filo di luce emerge e ondeggia davanti a lui, creando forme che richiedono interpretazione, e dà un rilievo acuto all'inanimatezza: cumuli, rivetti, cunei, ganci arrugginiti, frammenti di utensili abbandonati e, naturalmente, imprevedibili grumi di carbone. Nelle miniere crescono selvatici.

Nessuno di questi gli parlerà. Deve trovare da sé le proprie risposte. Più si addentra, più diventano solide le ombre attorno a lui. Il silenzio s'insinua da tutti i lati e gli urla attorno alle orecchie, rendendolo ancora più irrequieto. Solo il suo naso disseppellisce un fatto nuovo: un vago sentore di morte che fino a ieri non c'era. Da lungo tempo sa che le rocce in questa parte della miniera sono malate. Non hanno molto da vivere. Ma non si aspettava che la fine arrivasse così presto o così all'improvviso. Qui dentro c'è troppo poca speranza a nutrirle, e quasi nessuna felicità, e il carbone è sensibile e vulnerabile alla melanconia, che in questa miniera abbonda.

Raimoti crede nel fatto di esaurire tutte le possibilità prima della rinuncia, quindi nelle ultime settimane ha provato a parlarne con il sorvegliante e a metterlo in guardia, ma nessuno fa molto caso a ciò che dice, di questi tempi. Respinto, ha cercato di farsi assegnare a un'altra miniera, ma il dirigente non ha voluto incontrarlo. Questa miniera e gli uomini che ci lavorano sono diversi. Gli uomini non vengono assegnati a questa miniera. Sono condannati a lavorare qui.

Chiunque entri in questa miniera può avvertire un sudario debilitante calargli sulla mente, risucchiare i pensieri positivi e soffocare le aspirazioni. Gli uomini che lavorano qui vengono tutti scelti uno per uno dalla compagnia per un trattamento speciale. Ogni giorno questi uomini sbiaditi indossano le loro tute sbiadite e si calano con riluttanza nelle profondità inflessibili di questa miniera, fuggendo dal vuoto disperante delle loro vite di sopra verso la durezza anestetica del carbone di sotto. Dentro, trapanano, martellano, scavano, grattano, sollevano e spingono. Alle rocce che non oppongono resistenza fanno cose che non possono fare alle persone che lasciano indietro in superficie. Si sfiniscono tanto che quando tornano al mondo di sopra portano meno pesi nella mente. Col tempo alcuni cominciano a cedere pezzetti di anima al sottosuolo. Cosa che affrontano bevendo. Bevono tanto, così il giorno dopo possono tornare giù, e poi bevono ancora di più dopo essere sopravvissuti un altro giorno nel sottosuolo. Bevono perché di sopra sono perduti e bevono perché non possono trovare la pace di sotto. Questo non è un posto in cui esistere. Ed è un posto anche peggiore in cui morire.

La Miniera Numero 3 è la miniera più vecchia in funzione nell'Area; è stata aperta una decina di anni fa. Qui sotto è tranquillo perché la miniera è quasi abbandonata. I macchinari sono tutti spariti. I trapani, i carrelli, gli svuotatori ultimo modello sono stati da tempo trasferiti all'ultimo giacimento più recente aperto dalla compagnia. Anche gran parte degli uomini sono spariti. Solo un pugno di minatori e capisquadra restano a lavorare negli angoli più remoti, nei tunnel più bui, nelle pieghe meno accessibili della miniera, per estrarre l'ultima libbra di carne dalla terra. Gli abili giovani ingegneri hanno prosciugato i pilastri fino all'ultimo millimetro possibile dei venti metri stabiliti nella speranza di massimizzare lo scopo societario di estrazione ottimale, o il volume di produzione. Il fronte di avanzamento è stato portato all'estremo, lasciando solo qualche buco da dove vogliono estrarre ancora qualche tonnellata di minerale. Per questo hanno schierato i «meno produttivi» tra i minatori e i capisquadra: quelli troppo vecchi o troppo giovani per essere utili nelle miniere più recenti. Ci sono anche alcuni noti facinorosi, uomini ribelli che hanno osato ritenersi pari ai ricchi dirigenti, e che pure hanno continuato a non iscriversi ai sindacati. Sono feccia. Sacrificabili.

Raimoti lo sa. Ha vissuto tutta la vita nelle miniere. Sa come vanno le cose qui, sotto la superficie, lontano dagli occhi spioni dell'umanità. Nella sua vita ha sostituito molti minatori che hanno ceduto all'età, agli incidenti o alla morte. Ha imparato ad accettare l'inevitabile. In questo mondo buio e privo di scrupoli non ci sono vincitori né vinti. Ci sono solo sopravvissuti. All'inizio le macchine dovevano aiutare gli uomini, adesso gli uomini faticano per servire le macchine. Sa che entro pochi mesi, non appena raggiungerà l'età ufficialmente riconosciuta di cinquantacinque anni, dalla compagnia gli verrà richiesto senza clamore di optare per il pensionamento volontario. Si sta avvicinando alla fine del tunnel. Non gli importa, sa che la compagnia è stata ingannata, proprio come aveva inteso suo padre. Almeno vedrà la luce del giorno per il resto dei suoi giorni.

Raimoti si ferma a un incrocio. Capisce che la luce del casco non aggiunge nulla al suo campo visivo, quindi la spegne e rimane immobile a occhi chiusi, cercando di vedere ciò che gli occhi non possono rivelare. Il velo di oscurità prima si infrange in strette strisce e poi si disintegra in rivoli che consentono a cerchi concentrici di luminosità di riversarsi su di lui a ondate. Si abbandona al calore di quel brillio e vaga nello spazio, nel tempo e nei ricordi. Lo fa spesso. Gli è di conforto quando la sua mente vaga oltre l'asprezza della vita che lo circonda verso la spugnosità seducente della nostalgia. Lento, il puzzo invasivo delle rocce morenti lascia il posto a una feconda fragranza di pensieri speranzosi.

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L'acqua gli cola lungo i lati della bocca e forma un anello scuroansioso attorno al collo, mentre deglutisce nervosamente. Bibhash ha voglia di vomitare. Ecco, pensa desolato, sarà tutta colpa mia. Nota il tremito delle proprie mani e le nasconde in fretta sotto il tavolo. In qualità di Manager di SottoArea deve reagire immediatamente, valutare la gravità della situazione e inviare una missione di soccorso. L'inquisizione, la caccia alle streghe, il rimbalzarsi le colpe verrà dopo. Per il momento, deve vedersela con l'inevitabile folla inferocita, prima che lo lincino. È l'incubo di ogni manager. Perché io? Perché, Kariakhani? chiede ai cieli. Perché io, cazzo?

Capisce che anche in questo momento operai rabbiosi si stanno raccogliendo all'imbocco del pozzo, chiedendo a gran voce il sangue della Direzione. Dovrà superare la barricata della loro rabbia indifferente prima che possano cominciare le operazioni di salvataggio. Storie orripilanti di colleghi e superiori rimasti intrappolati in situazioni simili esplodono come petardi nella sua testa. Il signor Sahay — ricorda — era il ViceManager quando era crollato il tetto della Barner. Trecento uomini l'avevano preso a schiaffi, spezzandogli la mascella. Amante del cibo non vegetariano, il signor Sahay da allora si è convertito a un casto vegetarianesimo perché non può masticare niente di duro. Sono passati cinque anni. E Das da? Dopo il disastro di Joonidih, è impazzito. L'esplosione di gas spontaneo e polvere di carbone aveva ucciso due minatori e ne aveva accecato uno. Das da era corso di sotto, guidando gli infermieri e scomparendo per parecchie ore. Fu ritrovato la mattina dopo in un vicolo nel villaggio dhowrah con ustioni di terzo grado sul settantacinque per cento del corpo. Das da è rimasto in coma per sei settimane, e quando si è risvegliato si è rifiutato di indossare abiti. Anche dopo undici anni e nonostante le lunghe cure, Das da può scattare all'improvviso dalla sedia dell'ufficio e strapparsi di dosso i vestiti per poi versarsi bicchieri d'acqua sulla pelle raggrinzita dalle ustioni per calmare il «calore delle fiamme».

Bibhash rabbrividisce a questi orrendi ricordi di ciò che una folla di operai invasi dal panico e infuriati può fare a un manager, che considerano il loro primo nemico, un simbolo di tutti i fattori responsabili di tutte le loro pene. E chi può biasimarli, in verità? Il calore, la polvere, lo stridio assordante dei trapani, l'ambiente paranaturale del sottosuolo e il terrore perpetuo dell'imprevedibile sono ragioni sufficienti per la loro instabilità emotiva e mentale collettiva.

Queste miniere sono incubatrici di feccia del Diavolo. Alimentano pensieri oscuri, nutrono rabbia e sputano fuori uomini — più esseri che uomini, più bestie che esseri — gonfi di violenza repressa. Quale forza spaventosa produce tutto questo? Quale mano contorta, quale cervello agitato? Con quale rabbioso intento? si chiede Bibhash isterico, mentre la sua mente perde in fretta presa sulla realtà. Domande metafisiche di qualche poeta morto svolazzano nella sua mente come lucciole infuocate. Chi è la Bestia che forgia tali cose?

«Bibhash!» L'urlo iroso di Pandeyji lo estrae da un abisso metafisico. «Arre! Cosa stai lì a bocca aperta? Vai fuori con questi operai e scopri che cosa succede, mentre Karna sahib e io finiamo di cenare. Non ci si può mai fidare di quello che dicono, questi ganwar. Pazzi maledetti.»

«Ma sahib» cerca di intervenire Ram Babu «io ero là dentro quando è successo. Gli operai corrono fuori dalla miniera e l'acqua si diffonde così in fretta che temiamo che il Livello 2 sia già mezzo sommerso e che l'acqua abbia raggiunto il nastro trasportatore. E poi anche alcuni dei condotti di ventilazione sembrano otturati.»

«Dhat! Sei un ingegnere? Voi gente vi fate prendere dal panico come un mucchio di donnette paesane al primo segnale di pericolo. Bibhash! Che cosa aspetti, un palki? Vai a dare un'occhiata e torna a riferirci tra mezz'ora. Mi spiace, Karna sahib, saar. Dell'altro biryani, prego?»

Con passo greve e incerto, Bibhash segue il gruppo di operai fuori e si ammucchiano tutti sulla jeep. Whiskey e paura sono un miscuglio mortale per la guida veloce, e gli uomini si aggrappano alla superficie traballante per sostenersi mentre Bibhash si precipita giù per la strada buiavvolta fino alla bocca del pozzo. C'è già una notevole folla di uomini coagulata attorno alla cima torreggiante dell'argano, il meccanismo che tira su la gabbia o il cassone. L'intera area è inondata di luci di fanali al vapore di sodio, che attribuisce una sfumatura inquietarancio a ogni cosa, come una scena dell' Inferno. Ci sono allarmi e sirene che risuonano e fischiano da tutte le parti e decine di persone corrono in giro completamente smarrite e confuse. Qualcuno è riuscito ad accendere le pompe di emergenza e da qualche parte si è spaccato un tubo, che schizza acqua fredda e trasforma il terreno tutto attorno in una pozza di fango nero e melmoso.

Bibhash pigia sui freni e la jeep si blocca all'improvviso appena fuori dal terreno cintato che segna l'ingresso della miniera. Cerca di saltar giù, come dovrebbe fare un Manager di SottoArea energico, ma scivola e cade penosamente sul terreno fangoso. Nessuno accorre in suo aiuto. Gli uomini che l'hanno accompagnato sono stati attratti come limatura di ferro verso il magnete dell'argano. Bibhash si rialza con qualche difficoltà e cerca di superare la barriera di minatori che si spintonano. È ai margini della folla e i suoi abiti macchiati di fango gli consentono di confondersi; finora nessuno sembra turbato dalla sua presenza.

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Acqua. Carbone nero. E un po' d'aria. C'è silenzio dove non c'è stato rumore. Silenzio dove non potrebbe esserci rumore. In questa fredda tomba – sottoterra nessuna voce è zittita – la non vita cammina silenziosa. Solo Raimoti e Arif, ancorati in silenzio alle acque morte di questo fiume senza rimorsi. Non toccato dalla morte, immobile in vita. Aria sottile e muffita grava sopra di loro come un baldacchino contro la morte. Due uccelli della stessa razza, inseparabili per destino, si aggrappano allo stesso albero. Uno mangia il frutto, l'altro lo guarda con paziente speranza.

Siedo sulla cornice, immerso nella pena, piangendo la mia stessa impotenza, ma quando vedo Arif appeso alle mie ginocchia e comprendo la sua gloria, il mio dolore cala.

Fa così freddo.

Dal caos nacque l'universo, dal vuoto venne la vita. Dall'abisso di disperazione venne lo spirito di sopravvivenza. Fiori dalla terra. Oro dal fuoco. Ardo come fuoco. Piccole fiamme mi sbocciano sulle dita dei piedi, poi nello stomaco, poi nel cuore. Ora la mia anima arde. Senti il calore?

Fa così freddo nell'acqua.

Vedi il brillio. Senti il calore che s'irradia. Lo senti?

Non vedo niente. È così buio. Non sento nulla. Intirizzito.

In principio non c'era nulla. Sei tornato dove hai cominciato. Prima dell'Uno c'era Zero. Nulla. La Morte... copriva tutto.

Ho fame.

La fame è morte. Come la morte, abita la tua mente. Non è nulla. Dal nulla Lui creò la Mente. Mente assetata. Da quella Mente venne l'acqua. Io lo so – così l'acqua viene a me. La spuma di quest'acqua s'incrostò a formare la terra. Poi Lui riposò. Da Lui così riposato e scaldato venne la Sua essenza e luminosità. Fuoco. Senti il calore dentro.

Fa così freddo. Ho fame. Sono stanco. Ho paura.

Non sei solo. Vedo due uccelli su questo albero.

Io non vedo niente.

Non sei cieco. Hai solo gli occhi aperti. Chiudi gli occhi e vedrai.

I miei occhi sono diventati acqua. Tutto è diventato acqua. Ho ancora fame. Troppa fame.

L'acqua è più grande del cibo. L'acqua è tutto. Senz'acqua non c'è vita. È l'acqua che assume forme diverse di questa terra, l'atmosfera, le montagne, il cielo, gli dèi, gli uomini, l'erba, gli alberi, i vermi, gli insetti, gli uccelli e la Bestia. Medita sull'acqua. Lì sta la tua liberazione.

Sono tutt'uno con l'acqua. Mi porta via la vita.

Tu non muori nell'acqua, diventi ricco nell'acqua. Diventi ciò di cui sei fatto. Colui che è nell'acqua, che l'acqua non conosce ma il cui corpo è diventato acqua, controlla l'acqua dall'interno.

Fa freddo. Non capisco nulla. Non riesco più a parlare.

Non deve esserci silenzio. Il silenzio è Morte. Conosci l'importanza del Suono.

Dimmela. Che cos'altro c'è da fare se non ascoltare? Mi sento sordo.

Hau è questo mondo; hai è Aria; i è Fuoco; ya è Cibo; iha è Sé; hum è il suono variabile, casuale; il respiro è Suono.

Cchapp! Glugg! Cos'è?

Il Rumore dell'Acqua.

È tutto attorno a me. Tremo. Perché mi manca il fiato?

Rifletti su questo: quando Lui produsse i sensi, litigarono tra loro. La Morte, stanca, s'impadronì di loro, soffocandoli lentamente a uno a uno. Ma la Morte non poté vincere quello che chiamiamo respiro. Tutti i sensi dunque furono d'accordo che il respiro era il più grande tra loro. Acquistarono tutti la sua forma. Intoccabile ma reale. Essi sono i sette compagni ostili del Respiro. Ostili perché intralciano la percezione del sé intimo. Ti senti senza fiato perché hai consentito a queste sensuali creature ostili di offuscare la tua percezione. Punta tutti i pensieri sul respiro. Inspira ed espira ed esprimi il desiderio «che la Morte non mi reclami». Vincerai la Morte.

Per quanto tempo? Quanto si può continuare a respirare e basta?

Ogni essere è dotato di un numero finito di respiri; all'interno e all'esterno. Conservali e respirerai più a lungo. Sprecali e morirai.

Perché dovrei morire? Perché qui? Perché ora? Perché noi?

Dimenticati di me. Io non sono né morto né vivo. Né qui né altrove. Per me, il tempo presente e il tempo passato sono entrambi presenti nel tempo futuro e il futuro è contenuto nel mio passato. Tutto è irreparabile per me. Io sono qui perché qui devo essere ora. Tutte le strade della mia vita dal passato, presente e futuro convergono qui. Io sono qui alla ricerca della Bestia. I nostri sentieri s'incroceranno qui.

Ma io non voglio morire.

Perché vuoi vivere?

Chi vuole morire?

Colui che ha compiuto il corso della sua vita. Quando arrivi alla fine di un libro, non ti resta che chiuderlo.

Io non ho ancora compiuto il corso della mia vita.

È quello che ho chiesto: perché vuoi vivere? Quali faccende sono rimaste incompiute?

Sono giovane.

Quello non è un fine, e nemmeno una scusa per vivere.

Non sono sposato.

Lo consideri un traguardo o un fallimento?

Tutti si sposano. Si sposano e hanno figli. È così che continua la vita. Sento ancora tanto freddo.

La vita continua comunque. Lui trova le Sue vie per perpetrare la vita. Il matrimonio non è il Suo strumento preferito per questo. È tanto al di sopra quanto al di sotto della vita.

Lo dici tu. Tu ci sei già passato: hai avuto una moglie, una famiglia e dei figli.

Una moglie – ardhangini – ne ho condivisa solo metà. Una famiglia densa come l'aria che respiriamo. Figli che sono germogliati, hanno dato frutto e sono appassiti.

Ma io devo ancora farne esperienza.

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