Copertina
Autore Lothar Baier
Titolo Non c'è tempo
SottotitoloDiciotto tesi sull'accelerazione
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2004 , pag. 190, cop.fle., dim. 145x220x12 mm , Isbn 978-88-339-1509-8
OriginaleKeine Zeit. 18 Versuche über die Beschleuningung
EdizioneVerlag Antje Kunstmann, München, 2000
TraduttoreOrsetta Barbero Lenti
LettorePiergiorgio Siena, 2004
Classe filosofia , antropologia , sociologia , psicologia
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Indice

  7 Introduzione. Rallentare, ma che cosa?

    Non c'è tempo!

 17  1. Tempo di accelerazione.
        Dialettica dell'accelerazione nell'illuminismo

 27  2. Interfaccia utente. Un mondo di oggetti in miniatura

 39  3. Vecchi tempi. Quando il futuro arrivava più in fretta

 47  4. Inghiottitore di tempo. Computer, il feticcio

 59  5. Mail Time. Tempo di lettere e corrispondenza elettronica

 65  6. Tempo di lettura, tempo di scrittura.
        Disimparare una capacità

 80  7. Tempo decompresso.
        L'esperimento di Julio Cortàzar e Carol Dunlop

 85  8. Non c'è tempo! La società classista del tempo,
        schiava della comunicazione

 91  9. Tempo ibrido. Vivere in più tempi

105 10. Necrologio del bon moment. Il senso del tempo

110 11. Svolte epocali. Le guerre ritrovate

125 12. Tempi nervosi. Dalla nevrastenia alla depressione

138 13. Tempo di riforme.
        Non cambiare nulla: attirare l'attenzione

145 14. Il tempo di vivere nell'assoluto. Modernità di Hitler

155 15  Tempo smontato. Calendari, orologi, time-lag

162 16. La freccia temporale spezzata.
        Disaccoppiare il tempo fisico e il tempo sociale

169 17. Il tempo dell'apocalisse.
        L'anno Mille e il Millenium Bug

176 18. Qualcos'altro? Nessuna rivolta del tempo in vista

181 Bibliografia

 

 

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Pagina 7

Introduzione


Rallentare, ma che cosa?

«In un mondo che sta cambiando mi riscopro vecchio. Perché vorrei tornare indietro, andare in giro per le viuzze di Murcia alla fine del XII secolo?» scrive lo scrittore e studioso tunisino Abdelwahab Meddeb nel romanzo Phantasia (1986). Già, perché? Con un pizzico di immaginazione storica possiamo raffigurarci la Murcia di quel periodo come un incredibile punto d'incontro tra Occidente e Oriente, una città nei cui quartieri, secoli prima della Reconquista dei cattolici spagnoli, gli eruditi arabi, ebrei e cristiani meditavano su rotoli di pergamena e volumi in folio dedicando un tempo infinito alla trascrizione di quei concetti che, mille o più anni prima, erano stati diffusi dagli scribi aramaici o greci.

Non mi è difficile capire ciò che prova Meddeb, e quella voce che esorta a rallentare mi affascina. A molte persone deve essere successo qualcosa di analogo: come spiegare altrimenti il grande interesse per libri intitolati al «rallentamento della società» oppure alla «creatività della lentezza»? I convegni delle accademie, evangeliche e non, si occupano del tema dell'accelerazione crescente e delle molteplici sofferenze che ne derivano: in Austria, a Klagenfurt, un'associazione a favore del rallentamento ha una propria sede e, a quanto pare, non lamenta mancanza di iscritti.

Molti sono convinti che tutto vada troppo in fretta: hanno la sensazione di non poter più sostenere il ritmo e di essere, presto o tardi, tagliati fuori. La vecchia paura di fronte al potere dei grandi cede alla nuova paura di fronte al potere della velocità: non sono più i grandi che divorano i piccoli ma i veloci che divorano i lenti, dice il giornalista economico Tom Friedman del «New York Times». L'economia è più che mai un destino ineluttabile: essendo l'istanza ultima di regolazione di ogni cosa, non c'è da stupirsi se aumenta il timore di essere vittima, un giorno o l'altro, dell'accelerazione universale imposta e indotta dall'economia.

Quando gli affari girano non resta più molto tempo per lo spuntino di mezzogiorno, dovette imparare un rappresentante di quella nuova schiera di speculatori di borsa, chiamati day traders, che mirano a guadagnare in un'unica seduta. L'uomo, che aveva abbandonato l'ufficio computerizzato solo un attimo per divorare un taco in un bar, perse parecchie migliala di dollari perché, lontano dal video, non aveva potuto sbarazzarsi in tempo di certi titoli crollati nel giro di pochi minuti. Questo momentaneo allentamento dell'attenzione richiesta, in seguito definito dal day trader «effetto taco», porta a considerare il tempo stesso come un nemico.

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Pagina 106

In una civiltà che si è appropriata della massima «il tempo è denaro», c'è poco spazio per il bon moment non convenuto, proprio come per il senso del tempo che lo riconosce. «Noi americani» scrive l'autore canadese Jean Larose, che è profondamente legato alla Francia e cerca di cogliere la specificità delle mentalità nordamericane analizzando le tradizioni francesi, «siamo persone ottuse alla maniera dei tedeschi, vogliamo sempre l'impossibile e la maggior parte di noi non riesce a capire che si offendono le persone sottolineando in continuazione le norme delle buone maniere e del savoir vivre, come se non ne fossero consapevoli quanto noi» (Larose 1991, p. 207).

Il senso del tempo ha comunque qualcosa a che fare con le buone maniere e con il savoir vivre, e comprende anche le norme le cui conoscenze sono trasmesse da una cultura del quotidiano ancorata nella società. Ma non si tratta di folclore insignificante, come si può rilevare in determinati momenti storici quando la capacità di cogliere e di approfittare del bon moment può provocare movimenti che, in altre circostanze, non avrebbero avuto luogo.

Le rivoluzioni riuscite forse devono il loro successo, molto più che alla strategia e all'armamento, al senso del bon moment, innato tra i loro attori, il cui intervento mirato fa oscillare lo status quo, sempre esposto ai rischi dell'erosione. Forse non è un caso che le uniche grandi rivoluzioni riuscite, e dunque mai del tutto cancellate dalle successive controrivoluzioni o restaurazioni, abbiano avuto luogo nell'Europa occidentale e in Francia, la terra del bon moment. Ovunque, inclusa la Germania, le rivoluzioni sono fallite, probabilmente perché i loro promotori, non avendo il senso del tempo, si fidarono troppo di progetti, concetti, calendari e orologi. Una caricatura di Karl Arnold, intitolata Gottvertrauen [Fiducia in Dio], apparsa nel 1919 nella rivista «Simplicissimus», ha così espresso questo concetto: un uomo panciuto è seduto sull'erba, comodamente appoggiato a un albero e dice, avvicinando l'orologio da tasca agli occhiali: «Le cinque e mezzo - sta per arrivare - la rivoluzione mondiale!»

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Pagina 135

Mentre il nervosismo, sintomo patologico e ipotesi culturale, reagiva ai cambiamenti, alle accelerazioni o ai rallentamenti o quanto meno era sentito come una risposta a queste trasformazioni così vistose, la depressione difficilmente si ricollega alle variazioni del ritmo temporale. E allora perché si manifesta in maniera così massiccia proprio in paesi come gli Stati Uniti che non hanno i treni ad alta velocità e che hanno saputo limitare la velocità del traffico automobilistico? Senza dubbio si tratta di una «patologia del tempo», però solo se si intende che quel tempo è impegnato in modo nuovo, secondo le esigenze che emergono da nuove norme di comportamento. Il tempo deve essere sempre utilizzato, non necessariamente - secondo l'auspicio di Settembrini - per il «progresso dell'umanità», ma per fabbricarsi un «nuovo stile di vita», per scegliere tra i ruoli da assumere, per lavorare alla rappresentazione di se stessi. Tuttavia l'impiego del tempo può anche trasformarsi, in maniera impercettibile, nel suo annientamento a causa del rispetto di determinati ruoli (vedi cap. 8). Ehrenberg, sulla base di analisi orientate in senso sociologico più che psichiatrico, sostiene che la depressione vorrebbe inconsciamente prendere congedo da questo sconcertante ordinamento del tempo: «La depressione è il recinto in cui si tiene l'uomo senza guida e non solo la sua miseria, è la contropartita al dispiegamento della sua energia» (p. 319).

Dopo aver notato che in Francia sette pazienti su dieci presentano sintomi che forse non rimandano tutti alla depressione in senso clinico, ma appartengono alla «patologia del tempo», egli (come altri sociologi) afferma che una parte considerevole delle popolazioni dei paesi più sviluppati, alla fine del XX secolo, deve aver avvertito il peso di pretese eccessive provenienti non più solo da frenesia temporale. «Il ritmo sempre più rapido dei mutamenti in corso obbliga ad accelerare il processo di adattamento. Se vuole sopravvivere, l'uomo del XX secolo è condannato ad adattarsi a una società in perenne mutamento, dove tutto cambia sotto i suoi occhi» (p. 157).

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Pagina 142

Oggi le riforme devono reggersi sulle proprie gambe, ma non essendo ancora abituate, perdono il passo. E i loro presupposti retorici non sono peggiori di quelli di un tempo: «Il termine riforma» scrive il linguista Clemens Knobloch «attenua soltanto l'ambivalenza nei confronti della continuità e della trasformazione. Il sistema democratico, l'assistenza sanitaria, l'ordinamento universitario "riformati" e così via restano com'erano, tranne un piccolo miglioramento» (Knobloch 1998, p. 121). La gente sembra pretendere sempre meno dalle riforme; forse vive già da troppo tempo una «modernità» che promette in continuazione cambiamenti vantaggiosi e che alla fine, con qualche modifica tecnica, riproduce sempre le stesse cose. Quando le modifiche tecniche, pur non cambiando nulla di sostanziale, richiedono comunque un po' più di attenzione, si può star certi che provocano solo un rifiuto dell'idea stessa di riforma.

In Germania la storia della riforma ortografica è, sotto questo aspetto, rivelatrice. Quando fu varata, sembrò che fosse stata concepita all'insegna dell'ambiguità proprio per non consentire a nessuno, forse neppure ai suoi promotori burocrati, di metterla in pratica. Era uno schiaffo tanto per i «conservatori» timorosi del minimo cambiamento, quanto per i «rivoluzionari» pronti a liquidare senza troppi scrupoli, per fare un esempio, la tradizionale iniziale maiuscola dei sostantivi. Alla fine non si è osato neppure sostituire, secondo il modello della Svizzera tedesca, la consonante ß con il gruppo ss. Ora vige un regime misto, e per ogni singolo caso occorre istruire un processo per decidere tra ß e ss. Questa riforma corrisponde proprio alle premesse formulate da Niklas Luhmann, secondo il quale un cambiamento improvviso equivarrebbe alla distruzione del sistema.

Certe innovazioni, come per esempio l'abolizione di alcuni participi composti, non hanno nulla a che fare con la semplificazione dell'ortografia, ma eliminano solo la possibilità di esprimere determinate sfumature di significato. È chiaro che questa riforma non è affatto interessata a mantenere una ricchezza espressiva, a migliorare qualcosa o a portare cambiamenti reali. Tutto ciò che vuole è attirare l'attenzione. Ed è riuscita nel suo intento, esattamente come la «interfaccia utente». Certo le industrie di software saranno riconoscenti a questa riforma, grazie alla quale hanno potuto lanciare sul mercato un gran numero di programmi di ortografia. Se il vocabolo tedesco Scallloch (foro di risonanza) oggi ha tre l invece di due, senza dubbio è una notevole conquista per il suono degli strumenti a corda.

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