Copertina
Autore Luigi Bairo
Titolo Bici ribelle
SottotitoloPercorsi di fantasia, resistenza e libertà
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2009, Ecoalfabeto , pag. 160, ill., cop.fle., dim. 12x16,8x1,2 cm , Isbn 978-88-6222-111-5
LettoreCorrado Leonardo, 2010
Classe citta' , salute , sport , costume
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Indice


Bella bici                                    3

Una storia controversa                        5

Filosofia della bicicletta                   12

Ribelli in bici                              33

Breviario del ciclista urbano                68

Bimbi & bici                                118

Pedalatori nei boschi                       126

Epilogo                                     150


 

 

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Pagina 2

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Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons "Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.5" consultabile all'indirizzo http://creativecommons.org. Pertanto questo libro è libero, e può essere riprodotto e distribuito, con ogni mezzo fisico, meccanico o elettronico, a condizione che la riproduzione del testo avvenga integralmente e senza modifiche, a fini non commerciali e con l'attribuzione della paternità dell'opera.

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Pagina 5

Una storia controversa



La prima antenata risale al 1816, realizzata da Karl Theodor Drais von Sauerbronn, un barone tedesco che tanto ricorda quello di Munchausen. Questo curioso e poco pratico mezzo di trasporto, passato alla storia col nome di "draisina", era provvisto di sterzo, ma non disponeva di pedali e andava spinto puntando i piedi a terra. Inutile dire che non ebbe fortuna.

Soltanto nella seconda metà dell'800 i fratelli Michaux realizzarono il velocipede, dotato di pedali collegati direttamente al mozzo della ruota anteriore, provvisto di un rudimentale freno.

Qualche decennio più tardi si arriverà all'introduzione della catena e successivamente al meccanismo della ruota libera, in grado di svincolare il movimento del pignone da quello del mozzo posteriore, in modo da smettere di pedalare senza per questo interferire con il movimento della bicicletta.

Facevano impressione le prime bici, così come le prime automobili, spaventavano le galline e facevano imbizzarrire i cavalli.

Pochi decenni separano l'invenzione della bicicletta da quella del motore a scoppio. Tutto avrebbe fatto pensare che l'automobile avrebbe fagocitato il debole velocipede, eppure le cose sono andate diversamente: la bicicletta, così fragile e inoffensiva, non soltanto è sopravvissuta al secolo delle macchine, ma è diventata emblema di libertà e ribellione contro l'oppressione e la tecnocrazia.

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Pagina 19

Il tempo, che già correva agli inizi del Novecento, ha subito, nei decenni seguenti, un'accelerazione. Tutto il nostro mondo è ossessionato dall'idea di velocità. Viaggiare, oggi, equivale a spostarsi da un punto ad un altro nel minor tempo possibile. Così abbiamo finito per smarrire il senso autentico del viaggio che consiste — questo ogni vero viaggiatore lo sa bene — non tanto nel raggiungimento della meta, ma nel percorso stesso che ci porta verso di essa. Per risparmiare alcune decine di minuti di ferrovia tra Francia e Italia non si esita ad investire capitali che basterebbero a coprire il debito pubblico di un Paese africano, sventrando e snaturando una delle valli alpine più belle d'Italia. Ma che fine fa tutto questo tempo risparmiato? Viene forse investito in attività piacevoli, o utili, per sé stessi o per la comunità? Parrebbe di no. Con chiunque capiti di affrontare l'argomento, si sentono le stesse affermazioni sul tempo che fugge e sul fatto che non ce n'è mai abbastanza. Come se il tempo, questo concetto vago che sfugge ancora, nella sua essenza profonda, persino alla potente scienza del Papalagi, avesse preso a correre come un forsennato e gli uomini, per quanto si affannino, non riescano più a tenere il passo.

Secondo John Zerzan, pensatore del nuovo ecologismo radicale americano, la febbrile accelerazione del tempo che caratterizza la nostra era è l'espressione più evidente della schiavitù che ci viene imposta dalla tecnologia e dal lavoro, che si esprime attraverso la natura ripetitiva e abitudinaria della vita industriale. L'uomo è costretto a correre, perdendo così gli aspetti migliori dell'esistenza, per mantenere il ritmo imposto dal sistema produttivo. È un circolo vizioso: il sistema ci impone un'organizzazione temporale estranea a ogni cadenza e bisogno umano, poi ci vende, a caro prezzo, dei palliativi.

Ma le cose non sempre vanno nella direzione prevista. Osserva Paolo Fabbri, docente presso il DAMS di Bologna:

La sempre maggiore velocità delle automobili ci consentirebbe di attraversare la città in un battibaleno – di notte i grandi centri urbani si percorrono rapidamente — eppure in mezzo al traffico ci ritroviamo a guidare a passo d'uomo. Cosa significa? Significa che l'accelerazione estrema finisce per provocare il massimo ritardo.

Il risultato paradossale a cui oggi assistiamo consiste proprio nel fatto che, nonostante la messa a punto e la disponibilità di strumenti sempre più rapidi, la loro utilizzazione provoca degli enormi rallentamenti.


Se teniamo conto anche dei tempi necessari per trovare un parcheggio, è dimostrato che la bicicletta è più veloce dell'automobile, su percorsi urbani al di sotto dei dieci chilometri.

La bici, da sola, non è il rimedio contro l'accelerazione del mondo, ma una delle vie possibili per tentare di riappropriarci non solo del nostro spazio – il territorio libero che ci circonda – ma anche del nostro tempo: umano, fisiologico e psicologico. L'uso della bici non ci mette al riparo dal mondo intorno a noi, che continuerà a seguire il proprio ritmo, e con esso dovremo continuare a fare i conti. La bicicletta, però, offre qualcosa che può andare al di là del semplice esercizio muscolare e respiratorio della pedalata: la possibilità di defilarci, almeno per qualche minuto, dal flusso e vedere le cose da un altro punto di vista. E questo "tirarci fuori", per la nostra salute e per quella del pianeta, è un gesto non trascurabile che può avere effetti stupefacenti.

Chi proverà ad abbandonare, anche solo ogni tanto, l'automobile, farà scoperte straordinarie. Quello che prima era soltanto un tratto d'asfalto che collegava due punti del nostro mondo quotidiano comincerà a prendere vita, ad assumere un significato, diventando "spazio-corpo, di cui facciamo parte e che di noi fa parte...".

L'uomo che pedala, non diversamente da "L'uomo che cammina" raccontato dal fumettista giapponese Jiro Taniguchi, ha un talento straordinario. Non ha bisogno di scenari esotici, né di mirabolanti avventure. Il suo sguardo minimalista gli permette di scovare lo straordinario che si cela lungo le strade familiari, appena al di fuori della sua frettolosa, miope quotidianità. Mondi dimenticati, arcani, meravigliosi si disvelano a camminatori e pedalatori.

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Pagina 26

La creatività umana ha dato il meglio di sé durante l'età dell'oro dell'automobilismo, quando la progettazione seguiva il puro estro creativo, non ancora condizionato dalla galleria del vento e dagli studi di aerodinamica.

Cent'anni sono trascorsi da quando Marinetti compose la sua Ode all'automobile da corsa e da allora abbiamo conosciuto gli aspetti meno poetici della quattro ruote, quelli meno ribelli, meno vitali, più estranei a qualsiasi concetto di libertà. Eppure, nonostante ogni evidenza, la pubblicità continua a battere e ribattere sul binomio automobile=libertà, mostrandoci veicoli che sfrecciano attraverso scenari di natura incontaminata, percorrendo strade silenziose e deserte. Luoghi che non esistono più, proprio a causa dello strapotere motorizzato.

E ribatte sul binomio automobile=donna. L'automobile, come e più della donna, è oggetto del desiderio di chi è disposto a rinunciare ai rispettivi compagni, ma non alla macchina.

Eppure l'automobile, oltre agli scompensi ecologici, ha provocato squilibri economici e sociologici. Il caso di Torino è esemplare. La "città dell'auto" – come ancora si legge sui cartelli all'ingresso della tangenziale – che aveva consacrato tutta sé stessa all'automobile, rischia di sprofondare in un profondo nord, che più profondo non si può.

I futuristi, se mai tornassero a vivere nei nostri giorni, sosterrebbero la bici, e non l'automobile. Molte delle ultime espressioni di ciclismo urbano in lotta contro lo strapotere automobilistico, come Critical Mass o Velocity, utilizzano uno stile mediatico che tanto assomiglia a quello dei futuristi.


Macchina, dissi accarezzando il cofano, non ce l'ho con te, tu sei bella e svelta, hai portato anche delle cose buone nel mondo. Bastava che restassi quello che sei, un carriolone con un motore assai raffinato, non la padrona di ogni strada e ogni città. Tu sei disegnata nella bandiera di quelli che hanno distrutto ciò che c'era di più vivo e generoso nel mio Paese. Ce ne sono milioni come te che in questo momento corrono sull'autostrada e si schiantano una contro l'altra, diventano carogne di lamiera, e sopra la gente ci muore contenta e rassegnata, e sempre più ne morirà.

Stefano Benni


Per alcuni l'automobile è il grande nemico, il "moloch" della civiltà industriale e post-industriale. Per altri un oggetto come tanti, indispensabile per la vita quotidiana, fonte di gioie e dolori: un male necessario. Ma per molti l'automobile resta un oggetto totemico, uno status symbol, una protesi per colmare le proprie deficienze, un biglietto da visita attraverso il quale presentarsi, in mancanza di altre credenziali degne di interesse, uno specchio della personalità e soprattutto della realizzazione sociale ed economica. E per ottenere tutto ciò si è disposti a sacrifici enormi. Poco importa che l'acquisto e il mantenimento di un'automobile costituisca la voce più consistente nel bilancio famigliare.

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Pagina 36

La bici patafisica di Alfred Jarry

La foto più conosciuta di Alfred Jarry, padre del teatro dell'assurdo, e che l'assurdo portò, con coerenza, nella sua vita, è quella che lo ritrae a cavallo di una fiammante bicicletta: una fuoriserie per quei tempi, acquistata a rate e mai pagata, che l'accompagnò fedelmente lungo le strade della Francia, nei pochi anni della sua breve esistenza, compagna ideale del suo stile di vita e della sua arte. La tenuta da ciclista lo seguirà in ogni occasione, persino ai funerali di Mallarmè, a cui partecipò pedalando da Parigi a Valvins. La bicicletta è per lui un mezzo di liberazione, una macchina per amplificare le potenzialità dell'essere umano. Uno "scheletro esterno" che permette all'uomo di andare al di là della sua evoluzione biologica. Come scrisse Fernand Leger, un altro artista-ciclista parigino, contemporaneo di Jarry, "una bicicletta opera nel regno della luce". Essa prende il controllo delle gambe, braccia e corpo, che si muovono su di essa, da essa e sotto di essa.

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Pagina 56

Ognuno è Graziano Predielis

Chi è questo Graziano Predielis, onnipresente in ogni evento delle masse critiche italiane, soprattutto qualche anno fa? L'altro giorno a Milano alla presentazione del libro Critical Mass, l'uso sovversivo della bicicletta, insieme con un politico e un giornalista, c'era un tipo che diceva di chiamarsi Graziano Predielis. Sul "Corriere della Sera" del 25 ottobre 2002 è stata pubblicata una lettera – "La città che vorremmo" – firmata Graziano Predielis. "La Repubblica" del 10 maggio scorso ha intervistato un ragazzo che si è presentato come Graziano Predielis e ha svelato l'arcano: "Siamo tutti Graziano Predielis. Il nostro è un nome collettivo". Perché Graziano Predielis, quello vero, è morto investito da un'auto il primo giorno di giugno del 2002.


Predielis, 66 anni, pensionato, stava rincasando in sella alla sua bici, nei pressi di Este, in provincia di Padova, quando verme travolto da una Peugeot 106 sopraggiunta alle sue spalle che trascinò il suo corpo per diversi metri. Al volante del veicolo, un ragazzo molto giovane. La scarna notizia di cronaca rimbalzò rapidamente negli ambienti legati a Critical Mass, e i partecipanti decisero di farne il portavoce di un movimento che non vuole portavoci. In onore di Graziano Pedielis, è stata anche "rinominata" Piazza dei Mercanti a Milano, sede dell'appuntamento cittadino delle masse critiche. Esistono altri esempi di protesta collettiva svolta con la bici. Uno è a Milano: il Gab, Gruppo Azione Bici, interassociativo, organizzato da Ciclobby onlus. www.associazioni.milano.it/ciclobby


Da Critical Mass a Critical Map

Dall'esperienza delle masse critiche nasce Critical Map, un progetto di "ciclocartografia partecipata", che consente, a chi utilizza la bicicletta, di fissare sulla mappa delle città la propria visione critica e onirica dello spazio urbano. Con un duplice obiettivo: da un lato uno strumento quotidiano ad uso dei ciclisti, su cui annotare e condividere i percorsi migliori, quelli da evitare, i pericoli, ma anche i luoghi utili, come le ciclofficine, i tracciati delle masse critiche, le fontane a cui rifornirsi, luoghi e traiettorie per inventarsi percorsi comuni verso i luoghi di lavoro, studio, divertimento; uno spazio per rappresentare la città ideale, che evidenzi i punti critici, ad esempio dove servirebbero nuove piste, dove bisognerebbe controllare meglio la situazione del traffico, suggerendo agli amministratori eventuali soluzioni alternative. Dall'altro si propone anche di raccogliere appunti legati all'aspetto emozionale dell'andare in bicicletta, individuando e condividendo luoghi della memoria, sia individuale sia collettiva. Sulla mappa è possibile annotare le sensazioni e le esperienze vissute in un certo momento, attraversando una certa zona della città.

Come si legge sul sito ufficiale: "Critical Map va quindi a costituire una sorta di blog della strada, una mappa psicogeografica che si muove come un boa con i 'post-it' azzeccati sulla schiena, immaginarie scie che tracciano le nostre nuove città...". www.criticalmap.org

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Pagina 90

La sella


Lascia perdere la chimera del sellino perfetto, il nostro è un mondo imperfetto, misto di gioie e di dolori. Speriamo in un aldilà dove si trovino sellini da bicicletta fatti di arcobaleni e imbottiti di nuvole. In questo mondo la cosa migliore è riuscire ad abituarsi a qualcosa di duro.

Jerome K. Jerome


La sella merita una trattazione a sé. Su di essa poggia la parte del nostro corpo più vilipesa e bistrattata, antitesi di ogni virtù nobile e spirituale. Ma nel nostro caso, si tratta di una parte anatomica di grande importanza, fulcro del pedalatore, non solo in senso metaforico.

In un mondo usa-e-getta, una sella di cuoio come una mitica inglese Brooks rappresenta un punto fermo. Dopo un periodo iniziale di assestamento, la sella di cuoio si adatta perfettamente all'anatomia del ciclista e lo accompagna per tutta la vita. Attenzione però che rispetto ad una sella in materiale sintetico richiede una certa cura. È necessario evitare, per quanto possibile, che si bagni, perché l'acqua tende a indurire il materiale e può causare perdite di colore. La sella deve essere tenuta morbida con l'applicazione periodica di un grasso specifico.

Nella scelta tieni presente che, se fai molti chilometri in bici, i modelli da passeggio, con ampia base d'appoggio e molto cedevoli, non sono adatti a una lunga permanenza. La sella deve essere affusolata, per consentire una comoda rotazione dell'anca senza raschiare contro la coscia; e dev'essere poco cedevole, perché su di essa devono poggiare le ossa e non le parti molli, che rischierebbero di infiammarsi. Riguardo alla regolazione dell'altezza, la gamba non deve mai distendersi completamente durante la pedalata. Inoltre va tenuta perfettamente parallela al terreno. La punta piegata verso l'alto causerebbe fastidio ai genitali, mentre l'innalzamento della coda provocherebbe uno scivolamento in avanti del corpo.

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Pagina 98

Tipologie di ciclisti e scuole di pensiero


Meno macchine vedo e meglio sto

Il ciclista che abbraccia questa filosofia evita come la peste le strade trafficate, in genere dritte, larghe e piene di auto e con aria irrespirabile. È disposto a scegliere percorsi più lunghi, pur di percorrere un tragitto piacevole. Predilige strade secondarie, parallele alle grandi arterie, ama tagliare per parchi e zone proibite al traffico motorizzato.


Prima faccio e meglio è

Per questo genere di ciclista è priorità assoluta effettuare il tragitto più breve. Procede in questo modo: sulla mappa della città segna il punto di partenza e quello di arrivo e traccia una linea retta tra i due punti. Le strade più vicine alla retta costituiranno il suo percorso.


Non ce la posso fare in salita

Il pedalatore che sceglie questa filosofia trova tutte le strategie possibili per aggirare eventuali salite che si parano sul suo percorso, deviando e magari allungando.


Pochi ciclisti hanno un solo tipo di approccio. Più spesso si fa una sintesi delle tre possibilità e si sceglie a seconda delle situazioni, dell'umore o della forma fisica.

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