Copertina
Autore Enrico Baj
CoautorePaul Virilio
Titolo Discorso sull'orrore dell'arte
EdizioneEleuthera, Milano, 2007, caienna , pag. 80, cop.fle., dim. 11x18x0,6 cm , Isbn 978-88-8949-034-1
LettoreFlo Bertelli, 2007
Classe critica d'arte
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Indice


PREMESSA	                                 7
di E. M. Arnico

Discorso sull'orrore dell'arte	            13

APPENDICE	                                67


 

 

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Pagina 15

«Una volta, uscendo dal metro Alésia, non lontano dalla Coupole, dove ora ci troviamo, Samuel Beckett venne accoltellato da uno squilibrato. Anni dopo, già vecchio e acciaccato, andò a stare in un ricovero per anziani nelle vicinanze. A un giornalista che lo riconobbe per strada e cercò di intervistarlo, Beckett disse: 'Non vede come sono mal ridotto? Sto morendo, vada a intervistare i vivi'. Giacometti stava qui vicino, all'Impasse Roussin, e io stesso ho cominciato a lavorare da queste parti come artista decoratore. Ho lavorato con Braque a fare delle vetrate e poi con Matisse a Vence».

Chi parla è persona estremamente affabile, carica di argomenti e di cultura, che per qualche tratto richiama alla mente Hans Arp e, per il modo di porgersi, André Masson. È un urbanista, teorico della velocità pura e polemista d'eccezione sull'arte. È Paul Virilio.

Una decina d'anni fa, Mario Perniola (Del Sentire, Torino, 1991) osservava come la nostra epoca sia l'epoca del «già sentito»: cose e persone sono percepite con una tonalità sensoriale già determinata in modo anonimo, impersonale; al periodo dell'ideologia, del già pensato da altri, subentra quella che Perniola chiama una specie di sensologia che, come l'ideologia, toglie agli individui responsabilità, fatica, ma soprattutto inventiva e indipendenza. Un sentire unico predigerito e premetabolizzato s'impone sotto l'apparente varietà delle realtà reali e di quelle virtuali, in modo tale che sia impossibile la critica, il confronto e lo stesso stupore che ormai, come l'indignazione, sono programmati e previsti.

Il campo dell'arte rappresenta forse eminentemente questa situazione: mi pare che i direttori di museo e i curatori di mostre non vogliano saperne di polemiche.


In effetti quando convocano conferenze-stampa o dibattiti si parlano addosso, solo tra di loro, perché non vogliono oppositori. Credo che sbaglino profondamente perché l'arte è sempre stata tenuta viva dal dibattito tra oppositori e sostenitori. Altrimenti, che arte è quella che ci si vuole smerciare? È arte ufficiale di fronte alla quale si stabilisce la procedura del consenso, dell'ubbidienza e del silenzio. Quindi niente dibattiti, oppure dibattiti solo per dire di sì.


Oggi assistiamo a uno iato sempre maggiore tra economia dei flussi finanziari, del denaro, che ormai non esiste più neppure nella sua rappresentazione di carta moneta, ed economia della produzione, della lavorazione della materia. In questo senso possiamo dire di avere un modello economico manicheo: l'anima, cioè il nuovo «denaro» che si sposta alla velocità della luce (e questa ricchezza dei pochi che produce la povertà dei molti è veramente mondializzata, proprio come l'inquinamento che colpisce anche chi non l'ha causato), e il corpo, cioè la merce che è trasportata lentamente. La merce non è per nulla mondializzata, ma resta concentrata in una zona ristretta del pianeta. La nuova ricchezza ha mirabili capacità di metamorfosi e di ubiquità, ha la capacità di concentrarsi per poi dissolversi subito dopo e riapparire altrove. Si creano così dei fenomeni da Fata Morgana, dei «miracoli» che abbagliano, ma privi di ogni consistenza e di ogni legame con l'economia di base, quella della materia, della sostanza.

Non credi che l'arte abbia anticipato la New Economy con la sua forzatura dei flussi e dei valori speculativi?


La mia risposta è sì. È sicuro che quel che si è chiamato l'inflazione del mercato dell'arte è un delirio che non ha più niente a che vedere con l'espressione artistica, ma piuttosto con le multinazionali, con la possibilità di riciclare denaro del narcocapitalismo al punto da partecipare proprio alla creazione del narcocapitalismo. Quest'ultimo non è solo il traffico di droga, ma anche la possibilità di creare un'economia parallela. Di fatto accanto alla droga, agli allucinogeni, vi è l'arte, e particolarmente l'arte moderna e contemporanea. Ciò spiega l'arrivo massiccio dei pubblicitari, di Saatchi e compagnia, in questo campo. Un pubblicitario trasforma chiunque in un artista che si vende a 25/50 mila euro a foto. Ma vi sono foto che hanno raggiunto cifre iperboliche, e d'altronde quasi tutti i Warhol sono riporti fotografici su tela. Non c'è più neanche la fatica di prendere in mano il pennello. Piuttosto si prende per modello un pupazzo, come fa Jeff Koons, o si prende un busto anatomico con polmoni, budella, coratelle e bulbi oculari in bella vista, lo si ingrandisce, come fa Damien Hirst, a sei metri d'altezza, lo si posa sopra un piedistallo ed ecco fatto il nuovo Colosso di Rodi. Il tutto in mostra alla Fondazione Saatchi.


Come ha dimostrato McLuhan ne La sposa meccanica (Milano, 1994), la pubblicità, i linguaggi di massa si nutrono delle ideologie e delle rappresentazioni correnti. Ora la pubblicità sembra essere divenuta essenzialmente autoreferenziale, cioè la finalità che le dovrebbe essere propria cede il passo a una contemplazione del presunto valore artistico della pubblicità in sé, come testimoniano trasmissioni televisive e non, quali Le notti dei pubblivori o Publimania: non c'è più un prodotto di cui fare propaganda, la pubblicità è al contempo prodotto e propaganda. La propaganda mente di necessità, non informa o informa pochissimo e in maniera distorta: ora questa distorsione determina il valore, lo statuto della pubblicità, che non fa vendere ma che vende se stessa. Nell'elogio della pubblicità non cé che l'elogio della menzogna volgare e dell'orpello, dell'ornamento futile che si vuole serio. La previsione di Walter Benjamin sulla scomparsa dell'aura non si è attuata, anzi oggi assistiamo a una proliferazione dell'aura: da qualunque oggetto promana un flusso fascinoso e tutto ciò grazie alla propaganda, sia essa quella della pubblicità che celebra se stessa, ovvero quella di governi politicamente corretti con le loro guerre altrettanto corrette, ovvero quella di Internet, che vuole essere strumento di libertà e di informazione, mentre è una grande rete da cui non si può sfuggire e dove abbonda soprattutto la pubblicità e non l'informazione.

Anche Warhol viene dalla pubblicità. Una quindicina d'anni fa, a Londra, una sua Marilyn ha realizzato più del Codice Hammer di Leonardo, diventato poi Codice Bill Gates.


È un delirio. Ciò significa che le cose non hanno più un valore. Siamo di fronte alla dismisura del valore. Warhol non è più quotato, è «delirato». La sua firma è la marca di un prodotto cui viene collegato un valore per eccesso. Tutto ciò non ha più niente a che fare con l'arte, con Cézanne, con Braque o con Picasso. Tutto ciò ha solo a che fare con una logica commerciale nel senso più banale del termine. Siamo di fronte a un delirio smisurato che mi ricorda una frase del grande Eraclito: «Bisogna spegnere l'eccesso prima ancora che l'incendio».

Oggi siamo di fronte alla mondializzazione: anche questo è un fenomeno di eccesso, è un fenomeno di delirio mercantile.

Sono ben note le inchieste che ci sono attorno alle case d'asta Christie's e Sotheby's per chiacchierate manipolazioni di prezzi. Due finanzieri francesi, Pinault e Arnault, vogliono comprarle. Siamo in un circolo vizioso: le potenze economiche, attraverso fondazioni, collezioni e case d'asta, vogliono ormai governare anche la mondializzazione dell'arte. D'altra parte il Guggenheim possiede già una rete a livello mondiale come la Generai Motors e ha recentemente inglobato sotto il proprio marchio persino il Kunsthistorisches Museum di Vienna e l'Hermitage di San Pietroburgo. La prima mostra di questa fusione si terrà a Las Vegas. Così titolava «Il Sole-24 Ore» del 21 gennaio 2001: Spregiudicata escalation del Guggenheim armato da una politica multinazionale.


L'arte moderna e contemporanea è già stata attaccata da più parti e da grandi intellettuali come Antonin Artaud, Roger Caillois, Claude Lévi-Strauss, e in tempi più recenti da Cornelius Castoriadis, Jean Baudrillard, Gilles Lipovetsky, Umberto Eco, Norbert Lynton. Tutti questi attacchi, per i direttori del sistema dell'arte è come se non esistessero.

È la forma contemporanea di democrazia che non ha alcun bisogno di censura perché non teme nulla dagli attacchi, anzi sembra che le critiche, le denuncie confermino sia il sistema dell'arte sia quello politico, perché gli attacchi, con la loro stessa presenza, mostrano che è concesso spazio a tutti. Ma si tratta di uno spazio puramente virtuale dal momento che è solo verbale e non può avere alcun accesso al controllo dei fondi, degli sponsor e di tutta l'ideologia dell'arte ufficiale. Il curatore e i critici compiacenti si pongono come separati dal pubblico: l'arte, come tutto oggi, diventa affare di esperti, mentre gli altri sono esclusi, possono solo partecipare a visite guidate, tanto per informarsi. Giotto, però, parlava a tutti.


Quando si attacca l'arte moderna si viene considerati come passatisti e conservatori. La critica è rifiutata, mentre essa è il motore dell'arte e di ogni vero rinnovamento. Quando Caillois o Artaud denunciano qualcosa, questo fa parte dell'arte. Non si può dire che Artaud sia un estraneo.

Da giovane ho lavorato con Braque e con Matisse, sono pieno di ricordi, di cose, di opere. Non parlo a vanvera, sono del mestiere. Ma c'è qualcosa di politically correct che sta installandosi anche qui. Cerco di spiegarlo.

Oggi non è più la lingua che deve essere corretta, è l'immagine che deve essere «otticamente corretta». L'immagine correct è quella fabbricata dal sistema nelle sue cattedrali e nei palazzi del potere, che per l'arte sono i musei. Le immagini devono essere efficaci. Abbiamo qui una sorta di darwinismo delle immagini che è quello imposto dalla pubblicità: le immagini devono essere efficaci, produttive per la marca. Quindi il linguaggio «politicamente corretto» è passato nell'immagine, nell'ottica. Questo concetto di un'ottica corretta in quanto efficace è una deriva che può portare alla sparizione della pittura, del disegno e dell'incisione.

Cos'è il darwinismo? Semplicemente che i più forti sopravvivono. Così oggi con l'immagine «efficace», «spettacolare» attraverso la proiezione, i fasci di luce fortissima, le video installazioni, l'alta definizione, ogni altra figurazione e sensibilità ottica viene declassata e sopraffatta a favore di quella che ho chiamato l'arte del motore, l'arte della motorizzazione, sino al monitor, i pixel, il digitale. I pittori vedono minacciate le loro possibilità di esporre, e quello che proprio non posso sopportare è l'eliminazione di alcune forme d'arte a favore di altre più aggressive e violente. Con la conseguente eliminazione del pluralismo a favore del più forte. Si tende quindi a eliminare la molla dell'arte e la tecnica della pittura a favore di una ipertecnica iperrealistica. L'alta definizione e le immagini ingrandite a dismisura producono un'attrazione ottica efficace, o terrific, come dicono gli americani, dimenticando che orrore e terrore fanno la stessa cosa.

L'ipertecnicismo produce il robot, il quale tende a eliminare i vari mezzi d'espressione. In nome di una libertà di espressione eccentrica, pornografica, concettuale, si installa un nuovo accademismo, l'accademismo della tecnologia, l'arte del motore. Qui si tocca un problema che non è stato analizzato a sufficienza: l'impatto delle arti tecniche e motorizzate sulle arti plastiche, impatto di cui il cinema è stato il vettore, il volano. Il cinema ha preteso di essere un'arte che conteneva tutte le arti, il che è a mio avviso scandaloso e totalitario. Un'arte che non ammetteva né la pittura né i disegni di Alberto Giacometti, che pure sono contemporanei. Il cinema ha introdotto la possibilità di un'arte totale. Io credo che la crisi attuale delle arti plastiche sia il proseguimento di quello che è successo negli anni Venti e Trenta tra il cinema e la pittura. L'ho già affermato. Il cinema parlato ha inferto un colpo fatale alle immagini: il sonoro ha anticipato quel che succede oggi con il video e l'infografia. L'arte motorizzata, attraverso la video-arte e l'informatica, ha contribuito a eliminare progressivamente molte tecniche della rappresentazione. Non è tanto il soggetto della pittura che è in contestazione quanto la sua tecnica, come pure le tecniche dell'incisione e di tutte le arti viventi. Cos'è l'ordine vivente delle arti? È l'ordine e la ricchezza dei vari mezzi d'espressione. Io non sopporto che vi sia una volontà di eliminazione. È proprio qui che si gioca la sopravvivenza dell'uomo messo di fronte al robot.

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