Copertina
Autore Pio Baldelli
Titolo Informazione e controinformazione
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2006 [1972], Eretica speciale , pag. 460, ill., cop.fle., dim. 150x210x24 mm , Isbn 978-88-7226-919-0
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe media , politica , storia contemporanea d'Italia
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Indice

La controinformazione sulla canna di una bicicletta       3

Premessa – La crescita della controinformazione           7
Introduzione – Ruolo e forme della controinformazione    26

Prima parte                                              41

  I – Le nuove tecnologie audiovisuali:
      meccanismi e supporti                              42
 II – Impatto con la istituzione scolastica              77
III – Sovraccarico di informazioni, sovraccarico
      di ignoranza e uso antipopolare della scienza     100

Seconda parte                                           119

  I – Prime battaglie della controinformazione          121
 II – Controinchiesta, controgiustizia:
      Pinelli-Valpreda                                  145
III – La strage continua                                230
 IV – Notizie sull'eresia di massa dell'Isolotto        270
  V – Notiziari e contronotiziari riduttivi:
      i fatti di Cecoslovacchia                         320

Terza parte                                             353

  I – Linguaggi popolari adulti e tecniche audiovisive  354
 II – Ancora del bello e del brutto                     378
III – Servire il popolo in demagogia e paternalismo     399
 IV - Forme e usi politici della comunicazione di massa 416
  V – Olimpiade di Monaco e disinformazione di massa    427

Mass Media e violenza                                   451


 

 

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Pagina 3

La controinformazione sulla canna di una bicicletta


Strano destino quello toccato a me e a Pio Baldelli negli anni Settanta, i difficili e vitali anni della controinformazione.

Lui, Pio, il teorico rigoroso e visionario che – dopo una messe di libri che gli valsero anche la docenza universitaria – poneva il suo sapere al servizio del movimento con l'indimenticabile Informazione e controinformazione (un libro rimasto inossidabile fino a oggi e che, pubblicato per la prima volta nel 1972, fu in quel decennio un essenziale riferimento di chiarezza e puntualità nel confuso mare magnum delle ideologie e utopie); io in odore di marciapiede, che la controinformazione la coltivavo sulla canna di una bicicletta insieme a militanti, contestatori e figli del Sessantotto di varia estrazione, inondando l'Italia intera con milioni di copie di opuscoli semi-gratuiti su come reagire in concreto ad angherie e fogli di via e su come, per altro verso, organizzare schegge di società giusta o a misura di felicità.

Mentre Pio consegnava all'editore Mazzotta il suo Informazione e controinformazione, noi, editori libertari, autoproducevamo Fare controinformazione con tutti i possibili consigli, utili per gli abitanti dei marciapiedi, delle strade e delle piazze, delle comuni e delle cantine. La mente e il braccio... Anche senza conoscerci abbiamo avuto modo di essere prossimi l'uno dell'altro, compagni di strada in una fase storica cruciale per un paese come l'Italia sconvolto dalle fazioni violente e dalle strategie della tensione.

Dopo i nostri due libri, venne la stagione delle 'direzioni responsabili'.

Animati dallo stesso spirito e per dare la parola a chi aveva cose da dire, ma non poteva farlo a causa di leggi di stampo fascista (pure se approvate in anni di democrazia), lui, Pio, accettò la direzione responsabile di "Lotta Continua"; mentre io, dal mio marciapiede, rifiutai quella di "Potere Operaio" e di testate che agitavano prese di potere e lotte armate, per sposare le voci dei 'senza voce': tante, ma proprio tante. Voci non spente, che ieri come oggi, ancora e sempre, chiedono di potersi esprimere.

Chi più di me ha memoria di tutto questo e altro, anche ricordando le centinaia di supplementi a Stampa Alternativa? E dei quasi centocinquanta procedimenti pendenti per reati di opinione, causati da talune mie direzioni responsabili o, come qualcuno le chiamava già allora, 'irresponsabili'?

Pio, negli anni successivi, in Parlamento e all'Università (come professore prima di Storia del cinema e poi di Teoria e tecnica delle comunicazioni di massa); io, dapprima latitante, inseguito da un mandato di carcerazione per 'delitti di pensiero', e dopo amnistiato ad inventarmi improbabili lavori per sopravvivere mentre andavo riorganizzando la controinformazione di nuovo... Ma, in anni più recenti, con almeno un sogno a occhi aperti in comune. Per me, quello di recuperare e diffondere il mitico Informazione e controinformazione; per lui di rieditarlo pensando a nuovi lettori, magari con qualche revisione linguistica e alcuni cenni d'aggiornamento.

Anche se Pio non ha fatto in tempo a realizzare la sua idea, io penso che l'ormai classico Informazione e controinformazione, degno di stare accanto alle maggiori opere di McLuhan, Baudrillard, Eco o del Whitehead autore di Avventure di idee, possa parlare alle attuali generazioni bombardate dal nulla delle sociologie alberoniane, delle vacue ebbrezze dei Baricchi e delle Melisse, delle mistificazioni, inettitudini e ciurmerie dei politicanti. E possa, con la complicità della Stampa Alternativa del nuovo millennio, contribuire all'unico esercizio ancora possibile: ossia di resistere, resistere e resistere.

Marcello Baraghini

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Pagina 26

Introduzione

Ruolo e forme della controinformazione


Due sono le facce, entrambe mortifere, della pratica di dominio esercitata dal potere economico-politico: una permissiva, per cui, aderendo ad una logica consumistica, lungi dal proibire la produzione e circolazione delle opere di cultura e informazione, ne viene anzi stimolata la diffusione ad un livello tale di volgarizzazione e feticizzazione da assorbirne in varia misura la carica eversiva, rendendola così inefficace, ma non privandola in apparenza almeno della sua libertà di espressione.

L'altra faccia è quella dichiaratamente repressiva, che non ha bisogno di mascherarsi per bruciare o proibire i libri e i film, o per restringere gli spazi d'informazione dei canali tradizionali della stampa democratica, o di sinistra, con la concentrazione delle testate, le intimidazioni, la liquidazione di organi d'informazione scomodi alla borghesia.

Sorge a questo punto fra gli intellettuali progressisti, che vedono minacciata ogni forma di conoscenza e comunicazione della realtà, il proposito di assumersi ruoli responsabili con i mezzi disponibili: gli strumenti del proprio lavoro, le personali attitudini creative, una dichiarata e continua adesione alle scadenze che la lotta impone. Da qui la nascita di alcuni primi collettivi e comitati di controinformazione, allo scopo di garantire la circolazione delle informazioni sulle situazioni della lotta di classe, al di fuori dei canali controllati dal potere costituito ed anche utilizzando gli spazi che le contraddizioni della borghesia offrono all'interno di questi canali.

Che cosa significa controinformazione? In che modo opera un circuito di controinformazione?

Secondo un primo tentativo di definizione apparso ne "il Manifesto" del 23-5-'71, la controinformazione sarebbe un'informazione che, prendendo in contropiede la «normale» informazione, le succhia il sangue. Da tale concezione consegue che:

1) Un quotidiano come "il Manifesto" non potrebbe farne parte, in quanto prodotto «industriale» che «ripropone» il rapporto consueto tra un lettore solo e il foglio che ha davanti a sé; pur dando un'informazione diversa da quella degli altri quotidiani.

2) Controinformazione non significherebbe neppure dire al telegiornale cose diverse da quelle che attualmente dice, ma piuttosto, sempre secondo l'articolo del quotidiano citato:

a) andare dove la gente guarda il telegiornale e intervenire facendo notare come esso distorce le informazioni e come, interpretando «fra le righe», se ne possano cavare informazioni diverse.

Vantaggio della controinformazione sarebbe pertanto: cogliere il pubblico in un momento in cui «è già sensibilizzato» da qualcuno che sta parlando o scrivendo, e sulla base di quell'attenzione riacutizzata, indurlo a considerare le cose in modo diverso;

b) analogo lavoro verso chi esce da una sala cinematografica: può avere visto un western di John Wayne, o una commedia di Tognazzi, o un'opera di Fellini... in ogni caso gli è stato detto, magari in modo comico o avventuroso, qualcosa che lo tocca da vicino, e riguarda i rapporti di proprietà, il razzismo, il modo di considerare la famiglia, la libertà, il denaro, il ruolo dell'America nel mondo, la storia del nostro paese. A questo punto gruppi di giovani preparano per i film di maggior risonanza un'analisi piana ma rigorosa che ne smonti i congegni e ne disveli i messaggi. Volantinaggio in una città, poi avanti per molti mesi fino a che il film esce nel più remoto paesino, sempre tenendosi in contatto e scambiandosi i volantini di controinformazione. Con un lavoro meticoloso è possibile sensibilizzare centinaia di persone su questi film che diventano occasioni di altrettanti discorsi politici più allargati;

c) altri esempi di controinformazione portati dal "Manifesto": il gruppo della rivista "Rendiconti" lavora sul problema del testo scolastico; come frutto di questo lavoro nasce un interesse tra genitori e insegnanti che poco per volta giungono alla comprensione della questione e rifiutano il libro di testo: sarebbe questo un caso di controinformazione calzante;

d) altro esempio: i fumetti mostrati a Parma: gruppi di studenti hanno esaminato il fumetto nero: da qui, ancora insegnanti che prendono visione del fatto e ci lavorano sopra e trasmettono le informazioni a livello delle loro scolaresche.

Umberto Eco ha proposto, in varie occasioni, la «guerriglia semiologica».

Ho sempre inteso con questo termine l'azione di gruppi di base, al polo di destinazione dei messaggi, che discutono criticamente i messaggi che arrivano lungo i circuiti dell'informazione di massa. Questo è il lavoro che a me pare veramente alternativo. Non fare un nuovo giornale, ma addestrare un gruppo di base a leggere criticamente, a contestare il giornale che arriva dal vertice. Ho sempre sostenuto, che più che fare un film sulle lotte operaie (anche se è utile farlo), occorre formare dei gruppi di addestramento alla lettura del telegiornale, che battono i quartieri operai, i bar, il dopolavoro, la sera alle otto e mezzo, e coinvolgano la massa degli utenti televisivi in un esame critico e politico del telegiornale.

Questo punto di vista presuppone, intellettualisticamente e in forma illuministica, che i controinformatori siano non pochi, come realmente accade, ma molti, tanto da arrivare ai bar, ai dopolavoro, ecc. e non abbiano altra occupazione quotidiana. Al «polo di destinazione dei messaggi» l'interlocutore non intravede il peso della stanchezza dell'operaio, la sera, tanto da supporre nel «dopolavoro» una specie di fresca ginnastica. E poi: quanti lavoratori alle otto e mezza di sera si trovano al bar o al dopolavoro pronti a intrattenersi per la «demifisticazione» o la «decodificazione» dei messaggi del telegiornale? Sfugge così l'importanza dell'azione centralizzata: la possibilità del nuovo giornale proletario. Anche se, cosa ovvia, insieme occorre compiere l'addestramento a leggere criticamente il giornale o il film che arrivano dal vertice e dal nemico di classe. Soprattutto: su quale linea politica avviene l'opposizione ai messaggi dell'emittente e la promozione della partecipazione critica di massa? La linea-Arci, la linea "Espresso", o la linea del partito socialista, o quella del partito comunista e del PSIUP, la linea pansindacale e cosivvia? O nessuna linea, perché alla «linea» ci pensano gli uomini politici?

Come porsi poi di fronte ai nullatenenti dell'informazione durante gli scontri con le forze sindacali e con i partiti tradizionali della sinistra? Forse come «esercito della salvezza»?

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III - Sovraccarico di informazioni, sovraccarico di ignoranza e uso antipopolare della scienza


L'inquinamento della ragione a causa dell'uso burocratico e capitalistico dei mezzi di comunicazione di massa, procede in maniera capillare. L'alluvione delle informazioni manovrate fa coesistere una condizione di sovrapproduzione informatica con la distruzione di forme autonome di coscienza sociale. Il «potere informativo» derivante dal monopolio delle informazioni e dei messaggi e dal loro circuito controllato nel tempo e nello spazio, predispone la coincidenza tra il sovraccarico di notizie e il sovraccarico di ignoranza. L'immediatezza planetaria dei messaggi distribuiti dai mass-media, in luogo di portare i paesi della terra alle misure comunicative del «villaggio» – secondo quanto affermano certi intellettuali mediatori per incarico del sistema dominante – frantumano i dati reali in un polverio di apparenze verosimili. La diaspora dei significati autentici e la carenza di informazioni precise investono strutture di potere, statuali e private, codificate come dissimili, anzi talora opposte. Il comune denominatore che le avvicina smaschera, invece, le interne combinazioni della politica delle alleanze nazionali e internazionali. Il capitalismo di Stato, in Unione Sovietica, manovra i mezzi di comunicazione di massa in modo che il cittadino non sa niente o, peggio, ha notizie distorte su eventi che hanno sconvolto il mondo: gli avvenimenti del '68 in Francia e la crisi della sinistra tradizionale; niente altro che menzogne sull'invasione della Cecoslovacchia; grossolane turlupinature sul «distacco» della Cina; niente sulla situazione reale dei movimenti di resistenza palestinese. Altrove, in Giappone, lo scatenamento della progressione tecnologica usa l'elettronica combinata ai mass-media per coprire con una densa coltre di nebbia la situazione reale che porta a saldature in Giappone, il neocapitalismo con il vecchio progetto imperiale (bassi salari, soggezione devota all'azienda, riarmo atomico, ruolo di gendarme dell'Asia). Eppure, a sentire gli intellettuali procacciatori di consensi per il sistema, i mass-media «permettono a ogni giapponese di vivere intensamente all'unisono con l'era planetaria» (Jean-Pierre Brule). Infatti per il volume e le forme sempre varie dei mezzi di informazione a loro disposizione, i giapponesi dovrebbero essere tra i più informati del mondo, e tutti, individui o gruppi, vedere soddisfatti in essi i propri gusti e bisogni. Ci sono 2.400 editori e 16.000 librai che diffondono 19 milioni di volumi al mese. In un solo anno vedono la luce 25.000 titoli, ossia circa 280 milioni di volumi. I grandi quotidiani si servono di macchine capaci di stampare dalle 150.000 alle 180.000 pagine all'ora. Da anni hanno adottato la trasmissione di pagine intere su lunghe distanze. Oggi numerose notizie giungono a domicilio presso privati che posseggono un apparecchio recettore, il quale riproduce su carta elettrostatica una pagina di giornale in cinque minuti. I giornalisti vengono reclutati tra chi possiede una laurea, per concorso. Alla fine del '67, si contavano in Giappone 33 milioni di apparecchi radio. Il 43,3 per cento della popolazione ha due radio, l'11,4 per cento di questi apparecchi sono portatili, come i 28 milioni di televisori in bianco e nero e un milione e duecentomila televisori a colori. Esiste la radiotelevisione di Stato, finanziata dai canoni pagati dagli abbonati: due programmi radiofonici e due canali televisivi, di cui uno incentrato quasi esclusivamente sull'insegnamento; accanto alla radio e alla televisione statali, operano 78 imprese radiotelevisive private finanziate dagli introiti pubblicitari: 146 stazioni radio e 524 stazioni televisive. A Tokio i radiotelespettatori hanno a disposizione sette programmi. A chi giova? La sovrabbondanza dei mezzi di comunicazione di massa serve a spostare l'attenzione del fruitore centrifugandola verso messaggi manipolati intesi a nascondere l'informazione primaria: il rapporto fra lo scontro delle monete (dollaro e yen) e l'egemonia imperiale statunitense. Per esempio, nessuna notizia circa il collegamento tra i capitali privati nord-americani in Giappone e il compito di «gendarme dell'Asia» in sostituzione e per conto degli Stati Uniti. Secondo un'indagine del dipartimento del Commercio, fra il 1967 e il 1969 i capitali privati americani esportati in Oriente ascendevano a 2.533 milioni di dollari. L'investimento, nel solo Giappone, era di 868 milioni, dei quali 424 nell'industria, due nei pubblici servizi, 77 in imprese commerciali e 365 in altre imprese, tra cui quelle petrolifere. Di queste cose nessun organo di informazione, a cominciare dalla scuola, parla mai in Giappone. Proprio come nessuna notizia precisa arriva al cittadino dai normali canali di comunicazione circa il IV Piano quinquennale «di difesa nazionale» 1972-'76. Eppure le cifre del Piano sono tali da destare impressione: 5.800.000 yen, equivalenti a 16.320 milioni di dollari (ossia circa 12 mila miliardi di lire): la somma risulta più che doppia di quella stanziata per il terzo piano quinquennale e supera di 5.000 milioni di dollari (3.125 miliardi di lire) il totale delle spese militari sostenute durante quindici anni in base ai tre piani precedenti.

Sovraccarico di informazioni e ignoranza, dunque.

Anche nella situazione latino-americana, incidono gravemente i mezzi audiovisuali di massa: cinema, radio e televisione. Sappiamo che la diffusione su scala mondiale degli strumenti capaci di moltiplicare le relazioni informative di tipo audiovisuale (cinema e radiotelevisione) ha superato numericamente, da parecchi anni, la quantità assoluta dei veicoli per l'informazione «verbale» (giornali, libri, ecc.). Nei paesi culturalmente sottosviluppati, tale sproporzione risulta ancor più pronunciata per l'elevata percentuale di analfabeti e per le difettose comunicazioni territoriali che facilitano invece la trasmissione audiovisiva. La grave conseguenza di queste circostanze «es que tales sociedades subdesarrolladas son, a la vez, las mas esclavizadas y masificadas del mundo». E invero sono sconcertanti i dati relativi alla composizione dei programmi radiotelevisivi in questa zona del continente pur progredita rispetto ad altre zone. Pochi in Europa immaginano la situazione reale dei paesi dove la «libera impresa privata» dei mezzi di comunicazione ha avuto facile gioco. Eppure sono dati che dovrebbero essere conosciuti, data l'odierna pressione dell'«advertising» sull'Europa, e come campanello d'allarme per il giorno in cui le varie radio in mano ai gruppi privati avessero il sopravvento. Limitiamoci al settore della radio e alla composizione dei programmi nella radiodiffusione venezuelana. L'uso del medium radio nell'America Latina esemplifica il livello degradante che l'informazione pubblica giunge a toccare in regime di libera impresa. Le nazioni latine del continente americano appartengono nel complesso al gruppo di nazioni radiofonicamente servite dall'impresa privata. «Por esta razon fundamental, la radio latino americana es, incontestablemente, la mas caotica, mercantil, confesional, anticultural de todas; en una palabra, y sin rodeos, la peor del mundo».

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V - Notiziari e contronotiziari riduttivi: i fatti di Cecoslovacchia


A ridosso degli avvenimenti cecoslovacchi — «nuovo corso» e successiva invasione delle truppe sovietiche — i mezzi di comunicazione di massa, in particolare la stampa quotidiana e la televisione, hanno svolto un ruolo di prim'ordine; a seconda dei casi e dei luoghi, promuovendo un'ondata di attenzione sulla vicenda e intorno ai suoi contenuti sensazionali, apparenti, fuorviando e incanalando il fruitore dei messaggi trasmessi nell'immediatezza degli accadimenti: in altre parole, non riuscirono ad emergere i contorni reali della circostanza politica, affogati dalle interpretazioni oratorie che puntavano sulle emozioni e sulla resa spettacolare del 'disgelo' o, dopo, della rivolta popolare. Spesso l'occhio coglieva un'immagine sconvolgente o, comunque, veritiera, ma ecco che il commentatore era incaricato di sconnettere il processo di comprensione martellando l'orecchio con la ridondanza delle parole, protese ad interpretare i fatti quando invece li schiacciavano con frode.

Ad esempio, le immagini — fotografia, televisione, film — portarono ai quattro punti cardinali, nell'immediatezza delle cose mentre accadono, il peso e il volume (materiale, dal vivo, senza intercapedini descrittive) dei carri armati che traversano e occupano Praga: puoi toccare con mano, come mai nessuno in passato, le figure storiche dell'«occupazione», della «rivolta popolare», dell'«impatto emotivo» tra invasori e invasi. Il colore grigio-fumoso dell'aria, delle strade, dei ponti e delle case, in quelle giornate a Praga, i carri armati appostati nei punti nevralgici, i visi e i gesti «spaesati» dei giovani soldati russi, i cittadini cecoslovacchi intorno ai carri, arrampicati sui cingoli, a parlare, a inveire, a spiegare. Altrove i fiori sul rogo di Palach e la bandiera insanguinata agitata in corteo. Erano immagini sintomatiche. Ma la registrazione visivo-sonora dei fatti, compiuta da una cinepresa o da un apparecchio fotografico, riesce a manifestare, per propria forza di evidenza, la fisionomia intricata della circostanza storica (nella successione: degenerazione burocratica e coloniale — avvio del cosiddetto 'nuovo corso' — restaurazione sovietica)? Evidentemente no. Tuttavia le parole del commento (vocabolario, tono, frequenza, ecc.) e l'impaginazione della notizia visiva possono imboccare strade diverse: o stravolgono la sostanza del fatto registrato, aggiogandolo alla misura fissata dal potere locale per suo uso e consumo contingente, oppure cercano di mantenere il varco, aperto dall'immagine colta sul vivo a distanza minima, senza precipitarsi a giustapporre agli avvenimenti 'lontani' un'interpretazione strapaesana o riduttiva, lasciando lo spazio politico per un serio confronto (almeno lo sforzo di parlare a cittadini invece che a sudditi). A verifica prendiamo, nell'area di una tradizione borghese liberal-democratica, il comportamento anti-conformista della televisione inglese (la BBC) nei confronti della rivolta popolare nell'Irlanda del Nord.

La televisione inglese ha trasmesso la sera del 5 gennaio 1972 un servizio sull'Ulster, nonostante la minacciosa opposizione dei governi di Londra e Belfast. L'inchiesta 'aperta', durata circa due ore e mezzo, ricalca lo stile e le procedure delle commissioni di inchiesta del senato americano. La burrasca politica, che l'iniziativa provoca, ha la stessa forza di quella suscitata nel 1956 dalla faccenda di Suez, quando l'allora ministro Eden giunse ai ferri corti con l'ente radiotelevisivo nazionale, uscendo dal conflitto moralmente sconfitto. A presiedere l'inchiesta sulla vicenda irlandese viene chiamato lord Devlin, ex giudice di corte d'Appello, coadiuvato da tre giudici a latere. Il collegio ha ascoltato le varie proposte per una soluzione del conflitto nord-irlandese formulate da otto rappresentanti delle due Irlande, scelti in modo da rappresentare l'intero arco politico: dal reverendo Ian Paisley, esponente accanito dell'oltranzismo protestante, alla cattolica Bernadette Devlin, fautrice delle barricate di Bogside. I quattro giudici si sono giovati anche delle testimonianze di cinque esperti che hanno espresso il loro giudizio sulle opinioni degli interpellati. I due grandi assenti sono stati il governo britannico e nord-irlandese. Erano stati invitati a partecipare al programma ma entrambi hanno rifiutato. Il primo ministro dell'Ulster, Faulkner, lo ha definito 'mostruoso'. Il ministro degli interni britannico, Maudling, ha motivato il proprio rifiuto giudicando la trasmissione 'seriamente dannosa'. L'invito fu invece accettato dal capo dell'opposizione, Wilson; e la BBC, che era stata sul punto di retrocedere dinanzi all'ostacolo di registrare equamente le varie opinioni, nessuna esclusa, decise di portare avanti l'impresa dopo l'accettazione di John Maginnis, un unionista dell'Ulster che siede alla Camera dei Comuni. Giornali come il "Times" e il "Guardian" l'hanno spronata a non desistere, a non perdersi d'animo di fronte agli ostacoli. Altri giornali più timorati dissentono: come il "Daily Telegraph", per il quale l'inchiesta televisiva sarebbe stata tanto equilibrata «quanto un tavolo a quattro gambe, due delle quali siano state segate». La BBC ha il carattere di 'corporazione pubblica': come tale non può esprimere opinioni ma deve garantire a chiunque di esprimere la propria con assoluta indipendenza. La sua notevole autonomia dal governo dipende appunto dalla sua capacità di svolgere questo doppio ruolo, fatto a tempo stesso di distacco e partecipazione nella controversa situazione politica e sociale. Ma la tradizione, meglio che l'aspetto giuridico, serve a determinare questo rapporto di indipendenza tra BBC e governo. Lo spiega Asa Briggs, autore di una storia della BBC: formalmente, egli ha precisato, il governo ha l'ultimo controllo sull'ente, con il diritto del ministero delle Poste di vietare determinate trasmissioni. Tale diritto risulta sancito nello statuto della BBC, ma in quarantacinque anni non è mai stato usato una sola volta. Nemmeno in tempo di guerra. Neppure oggi, momento in cui la polemica appare aspra, nessuno degli oppositori del programma incriminato ha suggerito al governo di fare uso dei suoi poteri per impedire una trasmissione che tanto lo infastidisce. Le critiche sono rimaste critiche, non si sono trasformate in atti di imperio. Magari qualcuno ha proclamato che non si deve trasferire in uno spettacolo una questione nazionale di vita o di morte, che non pare corretto investire quello che, dopotutto, resta un programma televisivo, di un'autorità morale che non gli compete, che la televisione non si può arrogare le prerogative del Parlamento senza dividerne i pesi responsabili. La protesta ha portato questi argomenti e altri ancora, tuttavia senza uscire dal suo ambito, anche se, poniamo, in quei giorni altri soldati inglesi cadevano uccisi. La BBC ha deciso di tirare diritto per la propria strada, senza cedere alle pressioni politiche e ai ricatti emotivi, esattamente come fece nel 1956, quando espresse anche la voce della metà del paese contraria alla guerra di Suez, giungendo a smentire i dati ufficiali forniti dal governo sull'andamento degli scontri armati.

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