Copertina
Autore Etienne Balibar
Titolo La filosofia di Marx
Edizionemanifestolibri, Roma, 2005 [1994], Incisioni , pag. 152, cop.fle., dim. 145x210x10 mm , Isbn 978-88-7285-395-5
OriginaleLa philosophie de Marx
EdizioneLa Découverte, Paris, 1993
TraduttoreAndrea Catone
LettoreLuca Vita, 2006
Classe filosofia
PrimaPagina


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Indice


I.   Filosofia marxista o filosofia di Marx?                 7

II.  Cambiare il mondo: dalla praxis alla produzione        21

III. Ideologia e feticismo: il potere e la soggezione       55

IV.  Tempo e progresso: ancora una filosofia della storia?  97

V.   La scienza e la rivoluzione                           135

Guida bibliografica                                        146


 

 

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Pagina 7

I. FILOSOFIA MARXISTA O FILOSOFIA DI MARX?



L'idea generale di questo libretto è quella di comprendere e far comprendere perché si leggerà ancora Marx nel XXI secolo: non solo come un monumento del passato, ma come un autore attuale, per le questioni che pone alla filosofia e per i concetti che le propone. Nel limitarmi a quel mi sembra l'essenziale, vorrei dare al lettore uno strumento per orientarsi tra gli scritti di Marx e introdurlo alle discussioni che essi suscitano. Vorrei difendere anche una tesi un po' paradossale: checché se ne sia pensato, non c'è e non ci sarà mai una filosofia marxista; di contro, l'importanza di Marx per la filosofia è più grande che mai.

Occorre prima intendersi su quel che significava «filosofia marxista». Questa espressione poteva riferirsi a due cose abbastanza diverse, ma che la tradizione del marxismo ortodosso, elaborata alla fine del XIX secolo e istituzionalizzata dai partiti-Stato comunisti dopo il 1931 e il 1945, considerava inseparabili: la «concezione del mondo» del movimento socialista, fondata sull'idea del ruolo storico della classe operaia, e il sistema attribuito a Marx. Osserviamo subito che nessuna di queste due idee è strettamente legata all'altra. Probabilmente sono state create espressioni differenti per esprimere questo contenuto filosofico comune all'opera di Marx e al movimento politico e sociale che a lui si richiamava: la più celebre è quella di materialismo dialettico, relativamente tarda, ma ispirata dall'uso che Engels aveva fatto di differenti formule di Marx. Atri hanno potuto sostenere che la filosofia marxista non esisteva a rigore in Marx, ma che era sorta a cose fatte, come riflessione più generale e più astratta sul senso, i principi, la portata universale dell'opera di Marx. Addirittura, che essa dovrebbe ancora essere costituita, formulata in maniera sistematica. Per contro, non sono mai mancati filologi o spiriti critici per sottolineare la distanza che correva tra il contenuto dei testi di Marx e i suoi posteri «marxisti» e mostrare che l'esistenza di una filosofia di Marx non implica affatto quella di una filosofia marxista dopo di essa.

Questo dibattito può essere troncato in modo tanto semplice quanto radicale. Gli eventi che hanno segnato la fine del grande ciclo (1890-1990), durante il quale il marxismo ha funzionato come dottrina di organizzazione, non vi hanno aggiunto nessun elemento nuovo, ma hanno dissolto gli interessi che si opponevano a prendere in considerazione tale questione. In realtà, non esiste una filosofia marxista, né come concezione del mondo di un movimento sociale, né come dottrina o sistema di un autore chiamato Marx. Ma, paradossalmente, questa conclusione negativa, ben lungi dall'annullare o sminuire l'importanza di Marx per la filosofia, gli conferisce una dimensione molto più grande. Liberati da un'illusione e da una impostura, guadagniamo un universo teorico.


FILOSOFIA E NON-FILOSOFIA

Qui ci attende una nuova difficoltà. Il pensiero teorico di Marx, a più riprese, si è presentato non come una filosofia ma come un'alternativa alla filosofia, una non-filosofia, e persino un' antifilosofia. È forse stata la più grande delle antifilosofie dell'epoca moderna. Agli occhi di Marx, infatti, la filosofia – quella che aveva imparato alla scuola della tradizione che va da Platone a Hegel, includendovi anche i materialisti più o meno dissidenti, come Epicuro o Feuerbach – era per l'appunto solo un'impresa individuale di interpretazione del mondo. Cosa che portava, nel migliore dei casi, a lasciarlo così com'era, nel peggiore, a trasfigurarlo.

Tuttavia, per quanto si opponesse alla forma e agli usi tradizionali del discorso filosofico, non v'è dubbio alcuno che egli stesso abbia intrecciato degli enunciati filosofici con le sue analisi storico-sociali e le sue proposte di azione politica. Il positivismo, in generale, glielo ha rimproverato a sufficienza. Tutta la questione, però, consiste nel sapere se questi enunciati formano un insieme coerente. La mia ipotesi è che non è affatto così, almeno se l'idea di coerenza alla quale ci riferiamo continua ad essere abitata dall'idea di sistema. L'attività teorica di Marx, dopo che egli ebbe rotto con una certa forma di filosofia, non l'ha condotto verso un sistema unificato, ma verso una pluralità, quanto meno virtuale, di dottrine, nelle quali i suoi lettori e i suoi successori si sono trovati impigliati. Parimenti, non l'ha portato verso un discorso uniforme, ma verso un'oscillazione permanente tra l'al di qua e l'al di là della filosofia. Per al di qua della filosofia intendiamo qui l'enunciato di proposizioni come «conclusioni senza premesse», come avrebbero detto Spinoza e Althusser. Per esempio, quella celebre formula del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, che Sartre, tra gli altri, ha considerato come la tesi essenziale del materialismo storico: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». Per al di là della filosofia intendiamo, al contrario, un discorso che mostra che essa non è un'attività autonoma, ma determinata dalla posizione che occupa nel campo dei conflitti sociali e, in particolare, della lotta di classe.

Tuttavia, queste contraddizioni, queste oscillazioni, ripetiamo, non costituiscono affatto una debolezza di Marx. Mettono in discussione l'essenza stessa dell'attività filosofica: il suo contenuto, il suo stile o il suo metodo, le sue funzioni intellettuali e politiche. Era vero ai tempi di Marx e lo è ancora, probabilmente, oggi. Di conseguenza si può sostenere che dopo Marx la filosofia non è stata più come prima. Si è prodotto un evento irreversibile, che non è paragonabile al sorgere di un nuovo punto di vista filosofico, poiché non obbliga solo a cambiare idee o metodo, ma a trasformare la pratica della filosofia. Ben inteso, Marx non è il solo ad aver prodotto effetti di questo genere. Per rimanere nell'epoca moderna, vi è stato anche, almeno, Freud, in un campo diverso e con altri obiettivi. Ma gli esempi paragonabili sono in effetti molto rari. La cesura operata da Marx ha potuto essere più o meno chiaramente riconosciuta, accettata più o meno di buon grado, ha anche potuto suscitare rifiuti violenti e accaniti tentativi di neutralizzazione. Quel che è indubbio, è che ha ossessionato e travagliato la totalità del discorso filosofico contemporaneo.

Questa antifilosofia che il pensiero di Marx, a un momento dato, ha voluto essere, questa non-filosofia che il pensiero di Marx è certamente stato rispetto alla pratica esistente, ha prodotto dunque l'effetto opposto a quel che si proponeva. Non solo non ha messo fine alla filosofia, ma ha piuttosto suscitato nel suo seno una questione permanentemente aperta, di cui ormai la filosofia può vivere e che contribuisce a rinnovarla. Infatti, non esiste nulla di simile ad una «filosofia eterna»: in filosofia vi sono delle svolte, delle soglie irreversibili. Ciò che è accaduto con Marx è, per l'appunto, uno spostamento del luogo, delle questioni e degli obiettivi della filosofia, che si può accettare o rifiutare, ma che è sufficientemente vincolante perché non lo si possa ignorare. Perciò possiamo, alfine, tornare a rivolgerci a Marx e, senza sminuirlo né tradirlo, leggerlo come filosofo.

Dove cercare, in queste condizioni, le filosofie di Marx? Dopo quanto ho proposto, la risposta non presenta dubbio alcuno: da nessuna parte se non nella totalità aperta dei suoi scritti. Non solo non bisogna operare cernita alcuna tra «opere filosofiche» e «opere storiche» o «economiche», ma questa divisione sarebbe il mezzo più sicuro per non comprendere nulla del rapporto critico che Marx intrattiene con tutta la tradizione filosofica e dell'effetto rivoluzionario che su tale tradizione ha prodotto. Gli sviluppi più tecnici del Capitale sono anche quelli nei quali le categorie della logica e dell'ontologia, le rappresentazioni dell'individuo e del legame sociale, sono state strappate alla loro definizione tradizionale e ripensate in funzione delle necessità dell'analisi storica. Gli articoli più immediatamente legati alla congiuntura, redatti in occasione delle esperienze rivoluzionarie del 1848 o del 1871, o per la discussione interna dell'Associazione internazionale dei lavoratori, sono anche il mezzo per rovesciare la relazione tradizionale tra società e Stato e per sviluppare l'idea di una democrazia radicale, che Marx aveva prima abbozzato in quanto tale nelle sue note critiche del 1843, scritte in margine alla Filosofia del diritto di Hegel. I più polemici scritti contro Proudhon, o Bakunin, o Lassalle sono anche quelli nei quali appare lo scarto tra lo schema teorico di evoluzione dell'economia capitalistica e la storia reale della società borghese, scarto che obbliga Marx ad abbozzare una dialettica originale, distinta da un semplice rovesciamento dell'idea hegeliana di progresso dello spirito...

In fondo, tutta l'opera di Marx è impregnata di travaglio filosofico e si pone, ad un tempo, in opposizione al modo in cui la tradizione ha isolato, circoscritto la filosofia (ed è questo uno dei moventi del suo idealismo). Ma ciò implica un'ultima anomalia, di cui egli ha fatto, in qualche modo, esperienza su se stesso.


CESURA E ROTTURE

Più di altri, Marx ha scritto nella congiuntura. Tale scelta non escludeva né la «pazienza del concetto» di cui parlava Hegel, né il rigore delle conseguenze. Ma era senza dubbio incompatibile con la stabilità delle conclusioni: Marx è il filosofo dell'eterno ricominciamento, che lascia dietro di sé numerosi cantieri... Il contenuto del suo pensiero non è separabile dai suoi spostamenti. Proprio per questa ragione, se si vuole studiare Marx, non se ne può ricostruire astrattamente il sistema. Bisogna rintracciarne l'evoluzione, con le sue rotture e le sue biforcazioni.

Il dibattito sviluppatosi negli anni '60 e '70 in seguito ai lavori di Althusser, pro o contro i suoi argomenti, si è molto occupato della «rottura» o «cesura», che questi individuava nel 1845. Contemporanea all'emergere della nozione di «rapporto sociale» nell'elaborazione di Marx, essa segnerebbe un punto di non ritorno, l'origine di un allontanamento crescente rispetto all' umanesimo teorico precedente. Ritornerò più avanti su questo termine. Questa rottura continuata mi sembra, infatti, innegabile. È sottesa da esperienze politiche immediate, in particolare l'incontro col proletariato tedesco e francese (inglese per Engels) e il rientro attivo nel corso delle lotte sociali (che ha come contropartita diretta l'uscita dalla filosofia universitaria). Tuttavia, il suo contenuto deriva essenzialmente da un'elaborazione intellettuale. In compenso, vi sono state, nella vita di Marx, almeno altre due rotture, altrettanto importanti, determinate da eventi potenzialmente rovinosi per la teoria della quale si riteneva sicuro. Di modo che quest'ultima ha potuto essere «salvata» ogni volta solo a prezzo di un rifondazione, attuata tanto dallo stesso Marx, quanto intrapresa da qualcun altro (Engels). Val la pena ricordare brevemente cosa furono queste «crisi del marxismo» ante litteram. Ciò ci fornirà, al contempo, un quadro generale per le letture e le discussioni che seguiranno.


Dopo il 1848

La prima coincide con un cambiamento epocale per tutto il pensiero del XIX secolo: è la sconfitta delle rivoluzioni del 1848. Basta leggere il Manifesto del partito comunista (redatto nel 1847) per capire che Marx aveva condiviso integralmente la convinzione di una crisi generale imminente del capitalismo, grazie alla quale, ponendosi alla testa di tutte le classi dominate in tutti i paesi (d'Europa), il proletariato avrebbe instaurato una democrazia radicale che avrebbe portato, a breve scadenza, all'abolizione delle classi e al comunismo. La forza e l'entusiasmo delle insurrezioni della «primavera dei popoli» e della «repubblica sociale» non potevano che apparirgli come l'esecuzione del programma.

Più dura sarà la caduta... Dopo i massacri di giugno l'adesione di una parte dei socialisti francesi al bonapartismo e la «passività degli operai» di fronte al colpo di Stato assumevano un significato particolarmente demoralizzante. Ritornerò più avanti sul modo in cui quest'esperienza ha fatto vacillare l'idea marxiana del proletariato e della sua missione rivoluzionaria. L'ampiezza dei rivolgimenti teorici che essa comporta per Marx non può essere sottovalutata. L'abbandono della nozione di «rivoluzione permanente», la quale esprimeva precisamente l'idea di un passaggio imminente dalla società di classe alla società senza classi; ed è l'abbandono altresì del programma politico, che a tale nozione corrispondeva, di «dittatura del proletariato» (opposta alla «dittatura della borghesia»). È l'eclissi durevole – di cui cercherò di indicare le ragioni teoriche – del concetto di ideologia, appena definito e messo in opera. Ma è anche la definizione di un programma di ricerche sulla determinazione economica delle congiunture politiche e delle tendenze di lunga durata dell'evoluzione sociale. Ed è allora che Marx ritorna al progetto di una critica dell'economia politica per rimaneggiarne le basi teoriche e portarlo a termine – in ogni caso fino alla pubblicazione del I Libro del Capitale, nel 1867 – al prezzo di un lavoro accanito, nel quale si può anche percepire il potente desiderio e la convinzione anticipata di una rivincita sul capitalismo vincente: attraverso il disvelamento dei suoi meccanismi segreti, che egli stesso non comprende, e, al contempo, attraverso la dimostrazione del suo inevitabile crollo.


Dopo il 1871

Ma ecco la seconda crisi: è la guerra franco-tedesca del 1870, seguita dalla Comune di Parigi. Gettano Marx nella depressione e suonano come un richiamo all'ordine del «lato cattivo della storia» (di cui riparleremo), cioè del suo svolgimento imprevedibile, dei suoi effetti regressivi, e dei suoi terribili costi umani (decine di migliaia di morti nella guerra, altre decine di migliaia – più le deportazioni – nella «settimana di sangue» che per la seconda volta in venticinque anni decapita il proletariato rivoluzionario francese e terrorizza gli altri). Perché questo richiamo patetico? Bisogna certo misurare la frattura che ne è risultata. La guerra europea va contro la rappresentazione che Marx si era fatta delle forze direttrici e dei conflitti fondamentali della politica. Relativizza la lotta di classe a vantaggio apparentemente almeno, di altri interessi e altre passioni. Le scoppio della rivoluzione proletaria in Francia (e non in Inghilterra) va contro lo schema «logico» di una crisi derivante dall'accumulazione capitalistica stessa. Lo sfascio della Comune mostra la sproporzione di forze e di capacità di manovra tra borghesia e proletariato. Ancora una volta, l'«assolo funebre» degli operai, di cui aveva parlato il 18 Brumaio...

Marx, indubbiamente, fronteggia la situazione. Nel genio dei proletari vinti, per quanto breve sia stata la loro esperienza, sa leggere l'invenzione del primo «governo della classe operaia», al quale sarebbe mancata solo la forza dell'organizzazione. Ai partiti socialisti in via di costituzione propone una nuova dottrina della dittatura del proletariato, come smantellamento dell'apparato statale nel corso di una «fase di transizione» nella quale si fronteggiano i principi del comunismo e quelli del diritto borghese. Ma liquida l'Internazionale (attraversata, è vero, da insolubili contraddizioni). E interrompe la redazione del Capitale, il cui manoscritto resta sospeso nel bel mezzo del capitolo sulle classi, per imparare il russo e la matematica e impegnarsi, con innumerevoli letture, nella rettifica della sua teoria dell'evoluzione sociale. Ed essa, interferendo coi regolamenti di conti, impegnerà gli ultimi dieci anni della sua vita. Spetterà a Engels, l'interlocutore di sempre e talora l'ispiratore, sistematizzare il materialismo storico, la dialettica, la strategia socialista.


Ma ogni cosa a suo tempo. Siamo nel 1845: Marx ha 27 anni, è laureato in filosofia all'Università di Jena, redattore capo della Gazzetta renana di Colonia e degli Annali franco-tedeschi di Parigi, espulso dalla Francia come agitatore politico su richiesta della Prussia; senza un quattrino, ha appena sposato la giovane baronessa von Westphalen, da cui ha una bambina. Come tutta la sua generazione, quella dei futuri «quarantottardi», vede il futuro davanti a sé.

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TAVOLA CRONOLOGICA

1818 Marx nasce a Treviri (Renania prussiana).

1820 Nascita di Engels.

1831 Morte di Hegel. Pierre Leroux in Francia e Robert Owen in Inghilterra inventano la parola «socialismo». Rivolta dei canuts (gli operai della seta) di Lione.

1835 Fourier: La falsa industria parcellizzata.

1838 Feargus O'Connor redige la People's Charter (manifesto del «carsismo» inglese). Blanqui propone la «dittatura del proletariato».

1839 Marx studia diritto e filosofia alle università di Bonn e Berlino.

1841 Feuerbach: L'essenza del cristianesimo; Proudhon: Cos'è la proprietà?; Hess: La triarchia europea; tesi di dottorato di Marx: Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro.

1842 Marx redattore capo della Gazzetta renana. Cabet: Viaggio in Icaria.

1843 Carlyle: Passato e presente; Feuerbach: Principi della filosofia dell'avvenire. Marx a Parigi: redazione degli Annali franco-tedeschi (che contengono La questione ebraica e l' Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel).

1844 Comte: Discorsi sullo spirito positivo; Heine: Germania, fiaba d'inverno. Marx redige i «Manoscritti del 1844» (Economia politica e filosofia) e pubblica (con Engels) La sacra famiglia; Engels pubblica la Situazione della classe operaia in Inghilterra.

1845 Stirner: L'Unico e la sua proprietà; Hess: L'essenza del denaro. Marx è espulso in Belgio; redige le «Tesi su Feuerbach» e, con Engels, L'ideologia tedesca.

1846 Miseria della filosofia (risposta a Filosofia della Miseria di Proudhon). Marx aderisce alla Lega dei Giusti che diventa Lega dei Comunisti, per la quale nel 1847 redige, con Engels, il Manifesto del partito comunista.

[...]

1883 Morte di Marx. Plechanov fonda il gruppo «Emancipazione del lavoro». Bebel: La donna e il socialismo; Nietzsche: Così parlò Zaratustra.

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Pagina 135

V. LA SCIENZA E LA RIVOLUZIONE



Il lettore che mi ha sin qui seguito, lo so bene, vorrebbe rivolgermi due critiche (almeno).

In primo luogo, egli pensa, Lei è andato da un'esposizione delle idee di Marx ad una discussione «con Marx»: ma senza rimarcare nettamente quando si passa dall'una all'altra. Donde la facilità con cui Lei proietta delle «voci» nel testo, interpreta i suoi silenzi, o quantomeno le sue mezze parole.

In secondo luogo, aggiunge, Lei non ha veramente esposto la dottrina di Marx: se non lo avessimo saputo da altre fonti, dal Suo libro non avremmo appreso come Marx ha definito la lotta di classe, come ha fondato la tesi della sua universalità e del suo ruolo «motore della storia», come ha dimostrato che la crisi del capitalismo è inevitabile e che la sua sola soluzione è il socialismo (o il comunismo), ecc. E ugualmente Lei non ci ha dato il modo di sapere dove e perché Marx si è sbagliato, se del marxismo qualcosa possa essere «salvata», se esso è compatibile o meno con la democrazia, con l'ecologia, la bioetica, ecc.

Comincio da quest'ultima critica, e mi dichiaro interamente colpevole. Poiché ho scelto di interessarmi del modo in cui Marx lavora nella filosofia, e la filosofia in Marx, mi occorreva scartare non solo il punto di vista del «sistema», ma anche quello della dottrina. La filosofia non è dottrinale, non consiste in opinioni o teoremi o leggi sulla natura, la coscienza, la storia... Soprattutto, non consiste nell'enunciare le più generali di queste opinioni o di queste leggi. Questo punto è particolarmente importante qui perché l'idea di una «sintesi generale», in cui la lotta di classe si trovi articolata con l'economia, l'antropologia, la politica, la teoria della conoscenza, è puramente e semplicemente il tipo di diamat ufficializzato in passato nel movimento comunista internazionale (e va detto chiaramente che, salvo il grado di sottigliezza, il medesimo ideale di «generalizzazione» regna anche presso molti critici del diamat). Questa forma, ben inteso, è di per sé interessante dal punto di vista della storia delle idee. Essa trova alcuni incitamenti in Marx. Altri, più deliberati, in Engels (che aveva di fronte concorrenti coi quali occorreva misurarsi, le «teorie della conoscenza», le «filosofie della natura» e le «scienze della cultura» dell'ultimo terzo del XIX secolo). Ha trovato alcuni dei più ferventi ammiratori tra i neotomisti dell'Università pontificia (si può leggere questo stupefacente episodio in Stanislas Breton, De Rome à Paris. Itinéraire philosophique).

Nel volgere risolutamente le spalle all'idea di dottrina, ho voluto problematizzare alcune questioni che guidano il pensiero di Marx: perché, se è vero, come egli stesso proponeva ne L'ideologia tedesca, che «le mistificazioni» sono «già nelle questioni» prima di essere nelle risposte, non bisogna forse supporre che ciò vale a fortiori per le demistifícazioni, cioè le conoscenze? E perciò riprendere dall'interno il movimento teorico che, incessantemente, «sposta le linee» di queste questioni. Ho scelto per questo tre percorsi che mi paiono privilegiati (erano certamente possibili anche altre scelte).

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L'OPERA IN CANTIERE

Ma torniamo alla prima obiezione che potrebbe essermi rivolta. Ho detto che leggere Marx come filosofo suppone di collocarsi al di fuori della dottrina, di privilegiare i concetti, e di problematizzare il loro movimento di costruzione, decostruzione e ricostruzione. Ma credo proprio che occorra fare un passo di più e, senza temere l'incoerenza, dire che questa dottrina non esiste. Dove sarebbe, infatti? Cioè, in quali testi? «Non ha avuto il tempo», si sa, e qui si tratta di ben altra cosa che di una distinzione tra un Marx giovane o vecchio, filosofo o scienziato. Tutto ciò che abbiamo sono dei riassunti (la prefazione a Per la critica dell'economia politica), dei manifesti (grandiosi), delle bozze lunghe e articolate, ma che finiscono sempre per essere bruscamente interrotte e che – è il caso qui di ricordarsene – Marx stesso non ha mai pubblicato (L'ideologia tedesca, i Grundrisse o «Manoscritto del 1857-58»). Non vi è dottrina, vi sono unicamente dei frammenti (e, d'altra parte, delle analisi, delle dimostrazioni).

Mi si comprenda bene: Marx non è ai miei occhi un «postmoderno» ante litteram, e non intendo sostenere che il suo pensiero derivi da una ricerca deliberata dell'incompiuto. Sarei piuttosto tentato di pensare che egli non ha, effettivamente, mai avuto il tempo di costruire una dottrina perché la rettifica andava più veloce. Non solo era in anticipo sulle conclusioni, ma sulla critica delle conclusioni. Per mania intellettuale? Forse, ma questa mania era al servizio di una duplice etica: etica di teorico (di scienziato), ed etica di rivoluzionario. Ritroviamo ancora gli stessi termini. Troppo teorico, Marx, per «impacchettare» le sue conclusioni. Troppo rivoluzionario, sia per piegarsi ai rovesci della fortuna, sia per ignorare le catastrofi, continuare come se niente fosse stato. Troppo scienziato e troppo rivoluzionario per rimettersi alla speranza del messia (benché questa, incontestabilmente, abbia fatto parte dei sottintesi del suo pensiero: ma un teorico o un politico non si definiscono per quel che rimuovono, anche se in parte la loro energia proviene da ciò, e se il rimosso – il religioso ad esempio – fa parte di ciò che, nel modo più sicuro, perviene alle orecchie dei «discepoli», dei «successori»).

Ma allora noi abbiamo il diritto di interpretare le mezze parole di Marx. Non di considerare i frammenti del suo discorso come carte che potremmo indefinitamente ribattere a volontà. Ma, tuttavia, di entrare nelle sue «problematiche», nelle sue «assiomatiche», nelle sue «filosofie» infine, per spingerle fino in fondo (alle loro contraddizioni, limiti, aperture). Così, in una congiuntura interamente nuova, vediamo ciò che possiamo fare con e contro di lui. Molto di quanto è abbozzato in Marx è lungi dall'aver trovato la sua forma definitiva. Molto di quanto appare oggi impotente, o criminale, o semplicemente caduco nel «marxismo», lo era già, oserei dire, prima di lui, poiché non era un'invenzione del marxismo. Tuttavia, se Marx non avesse fatto altro che affrontare la questione dell'alternativa al «modo di produzione dominante», nel seno stesso di questo modo (che è anche, più che mai, un modo di circolazione, un modo di comunicazione, un modo di rappresentazione)..., dovremmo ancora far ricorso a lui!


PRO E CONTRO MARX

È giocoforza tuttavia riconoscere che il marxismo è oggi una filosofia improbabile. Lo si deve al fatto che per la filosofia di Marx è in corso un lungo e difficile processo di separazione dal «marxismo storico», che deve superare gli ostacoli accumulati da un secolo di utilizzazione ideologica. Ora, non si tratta per tale filosofia di ritornare al suo punto di partenza, ma, al contrario, di apprendere la propria storia e trasformarsi nel corso della traversata. Chi oggi voglia lavorare nella filosofia di Marx non viene solo dopo di lui, ma dopo il marxismo: non può accontentarsi di registrare la cesura provocata da Marx, ma deve anche riflettere sull'ambivalenza degli effetti che essa ha prodotto – tra i suoi sostenitori come tra i suoi avversari.

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