Copertina
Autore Daniele Balicco
Titolo Non parlo a tutti
SottotitoloFranco Fortini intellettuale politico
Edizionemanifestolibri, Roma, 2006, La nuova talpa , pag. 208, cop.fle., dim. 14,4x21x1,4 cm , Isbn 978-88-7285-509-6
LettoreRiccardo Terzi, 2007
Classe politica , storia contemporanea d'Italia , biografie
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Indice


PREFAZIONE di Romano Luperini                                  11

INTRODUZIONE                                                   15

LAVORO INTELLETTUALE E GUERRA CIVILE                           29

La formazione                                                  32
La guerra                                                      33
Ruolo e funzione intellettuale: prime ipotesi                  34
Critica del ruolo liberale                                     35
Stalinismo, partito nuovo, antifascismo resistenziale          37
Il laboratorio «Politecnico»                                   39
«Il Politecnico» di Fortini                                    40
Estetica e politica: tre saggi                                 47
Che cosa è stato «Il Politecnico»                              61

LAVORO INTELLETTUALE E POTERE POLITICO                         73

Sul Pci e l'organizzazione della cultura                       75
L'ipotesi socialista                                           80
Il 1956                                                        85
Stalinismo, socialismo italiano e movimento comunista mondiale 89
«Se dicevamo classe, ci veniva risposto partito»               92
Estetica e popolo                                              95
Stalinismo e regressione antropologica                        101
La legittimazione dell'arte                                   107
Un viaggio in Cina                                            112

LAVORO INTELLETTUALE E INDUSTRIA CULTURALE                    125

Due ipotesi, due strade                                       129
Alle origini di «Quaderni Rossi» e «Quaderni Piacentini»      137
Il «saggio come forma»                                        147
Attraversare le distorsioni del ruolo: l'integrazione         159
Attraversare le distorsioni del ruolo: l'engagement           171
L'estetica e la liberazione del lavoro                        181

BIBLIOGRAFIA GENERALE RAGIONATA                               197

 

 

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Pagina 15

INTRODUZIONE



        Nel momento in cui pubblichi i tuoi saggi in una data
        società, entri di fatto nella vita pubblica; chi non
        intende fare politica, si astenga dal praticare la forma
        saggistica o dal prendere la parola.

        E. SAID, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, p. 115.


        Il Manzoni nel 1821 ha calcolato e previsto un periodo di
        quindici anni senza avvenimenti di rilievo (ne ha aspettati
        ventisette per vedere le barricate sulle quali ha mandato
        il figliolo) e ha deciso di fare un lavoro proiettato su un
        periodo lungo senza trasformazioni. Avrei forse dovuto fare
        lo stesso, ma il mio peccato giovanile (la guerra, la
        resistenza) mi ha sempre imposto di guardare al presente.
        Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne
        via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro
        e fatela vostra, trasformatela. Combattete.

        F. FORTINI, Il dolore della verità, p. 59.



I.


Antonio Gramsci, in un celebre passo dei Quaderni, ha scritto che «tutti gli uomini sono intellettuali [...]; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali». Questo significa che se ogni persona esercita una funzione intellettuale — vale a dire una facoltà antropologica dell'esistere — quando cerca e formula risposte per interpretare il senso della propria vita e di quanto accade nel mondo, non tutte le persone, tanto più in una società come quella moderna che ha portato alle estreme conseguenze la divisione sociale del lavoro, sono intellettuali di mestiere, vale a dire persone che occupano, nella divisione del lavoro, un ruolo sociale definito dall'uso pubblico della conoscenza e della parola.

Questo mestiere possiede infatti, come ogni altra attività lavorativa, delle qualità tecniche e delle mansioni specifiche che non appartengono, come dato immediato, al senso comune, ma sono piuttosto esito di un complesso processo di formazione e di selezione che ne determina lo skill. Gramsci è molto chiaro:

La capacità dell'intellettuale di professione di combinare abilmente l'induzione e la deduzione, di generalizzare senza cadere nel vuoto formalismo, di trasportare da una sfera ad un'altra di giudizio certi criteri di discriminazione, adattandoli alle nuove condizioni ecc., è una «specialità», una «qualifica», non è un dato volgare del senso comune.

Per intendere per quale ragione questo tipo di attività lavorativa – la capacità tecnica di astrarre, di giudicare, di progettare, di comprendere – abbia occupato una posizione centrale, e per più di un secolo, nel dibattito filosofico, artistico e politico occidentale; e per capire, nello stesso tempo, il significato attuale dell'eclissi di questo stesso dibattito, è bene considerare, almeno a grandi linee, la posizione specifica occupata dal lavoro intellettuale nella società moderna, e cioè il suo essere attività lavorativa costretta «in un punto delicatissimo d'intersezione fra queste tre sfere, che sono il lavoro, la società e il potere (o la politica)».

In questa intersezione, infatti, vanno cercati i nessi che legano e aggrovigliano, nello stesso tempo, la questione del ruolo intellettuale, e cioè della storia, della trasformazione e, infine, della distruzione degli intellettuali come gruppo sociale detentore del monopolio pubblico della scienza e della parola, dunque del capitale sociale simbolico; a quella della funzione intellettuale, vale a dire della forma antropologica del conoscere come attitudine genericamente umana ad interpretare il senso dell'esistenza individuale e sociale.

Se l'analisi storica e politica, come analisi della composizione e del conflitto fra le classi nella lotta per l'egemonia culturale e per il potere politico, è il campo di verifica del ruolo, l'analisi specifica della trasformazione del lavoro, come analisi della sua progressiva disarticolazione formale e ortopedia, del suo divenire cioè da mestiere capace di determinare autonomamente forme a lavoro astratto comandato, è invece il campo di verifica della funzione, della trasformazione cioè, in un'attività particolare e generica come quella intellettuale, dell'immagine stessa dell'uomo, della sua antropologia come essere generico determinato.

Ed è precisamente per questa sua qualità generica che, per quanto stravolto e piegato, come qualsiasi altra attività nel moderno, dallo sfruttamento capitalista, il lavoro intellettuale diventerà pressoché integralmente lavoro astratto solo dopo la terza rivoluzione industriale, quella cioè che, nello sviluppo delle macchine cibernetiche e informatiche, metterà a lavoro non solo il corpo del lavoratore, ma soprattutto le funzioni conoscitive della mente, la sua coscienza: naturalmente, in questa lettura, almeno per chi scrive, vale ancora oggi l'insegnamento di Panzieri, per il quale, come è noto, lo sviluppo tecnologico delle macchine deve essere letto anche come sviluppo del dominio capitalista, come intensificazione, nella razionalità di cui è attore, del comando e dello sfruttamento del lavoro vivo.

Così, se il problema della distruzione degli intellettuali come ruolo, cioè come gruppo sociale del monopolio della scienza e della parola pubblica, è un problema storico e politico che coinvolge e travolge la società italiana a partire dalla seconda metà degli anni '50; la metamorfosi del lavoro intellettuale in lavoro astratto mentale rinvia ad una trasformazione, visibile in Italia solo nell'ultimo ventennio, molto più profonda perché coinvolge la funzione intellettuale stessa: una trasformazione, dunque, che, nella sua ragione immediatamente economica, apre, invero, ad un ordine di problemi qualitativamente diversi riguardanti, insieme, l'antropologia e l'ontologia.

Il postmoderno, infatti, può anche essere letto come l'età nella quale la sussunzione reale ha raggiunto, per così dire, le facoltà kantiane della ragion pura: ed è precisamente nell'apriori comandato del conoscere che si rivela, come nel rovescio di un arazzo, la possibilità attuale della distruzione della specie, la forma cioè di un'ontologia che, non prevedendo diacronia, ma solo intensificazione di se stessa come divenire quantitativo illimitato, agisce ormai direttamente sull'antropologia opponendo, senza mediazioni possibili, capitale a vita umana.


II.


L'itinerario saggistico di Fortini è l'itinerario di un intellettuale della Guerra Fredda, di un pensatore cioè che ha attraversato i conflitti del secolo presupponendo sempre, nella sua ricerca, la possibilità reale, sebbene stravolta nelle sue incarnazioni storiche, dell'emancipazione politica del genere umano. Questa è la grande narrazione che organizza e dirige il senso complessivo della sua attività intellettuale, politica, poetica. Ed è la sua distruzione attuale, perfino come potenza e negazione nell'immaginario sociale, a rendere quasi indecifrabili, per le nuove generazioni, il senso vero delle sue parole. È, del resto, Fortini stesso a sostenerlo introducendo, nel 1993, il suo ultimo libro pubblicato in vita, Attraverso Pasolini:

Quanto in lui e in me si agitò in quelle occasioni non può non apparire alcunché di incomprensibile, quasi al confine della mania, per un giovane d'oggi. Ma non eravamo né pazzi né fanatici. Eravamo, a poco più di dieci anni dalla fine della Seconda Guerra, nel cuore del secolo, ancora ricchi di qualcosa che — scrisse Pasolini — ci faceva piangere guardando Roma città aperta. Le lacrime non sono affatto un buon criterio di giudizio. Eppure mi piacerebbe sapere che cosa possa oggi far piangere un uomo di trent'anni, che tanti allora Pier Paolo ne aveva. E a uno o due di quei giovani anche vorrei dire: come si impara una lingua straniera, cercate di capire la lingua nostra, solo in apparenza simile a quella che ogni giorno impiegate conversando o pensando. Se ritenete che non valga la fatica, chiudete in fretta i nostri libri e l'età che li produsse; e buona fortuna.

Oltre ad essere un pensatore della Guerra Fredda, Fortini può anche essere letto come uno scrittore del «Triangolo Industriale». È stato, infatti, un intellettuale umanista capace, in un universo ad alto sviluppo industriale, in quegli anni attraversato da uno straordinario processo di politicizzazione di massa, di assumere coscientemente la propria formazione letteraria come contraddizione, insieme figura di subalternità e di potere. Del resto, gli scritti di Fortini, almeno fino agli anni Settanta, sono gli scritti letterari, politici, estetici di un lavoratore dipendente, di un consulente, naturalmente ad alta qualificazione, dell'Olivetti e dell'Einaudi: e solo in un secondo tempo, dopo essere stato licenziato da entrambe, all'inizio degli anni Sessanta, per ragioni politiche, di un insegnante delle secondarie superiori prima, universitario poi.

Sta qui, probabilmente, la ragione della misura e del ritmo della sua scrittura (vale a dire del «saggio come forma»), nonché della torsione 'pratica' che lui stesso le imprime: osservata a distanza, nella sua qualità sintattica sembra infatti depositarsi il conflitto fra due mondi e due tempi qualitativamente opposti, eppure condensati in un equilibrio stabile, seppur scheggiato e assolutamente disarmonico. La sua è la storia, in fondo, della lotta fra l'universalità che il sapere umanistico pretende e un'universalità di segno opposto, quella della merce come arcano e geroglifico sociale che impone strumenti per la sua interpretazione non differibili, pena l'incomprensione del presente, l'incoscienza subita come determinazione del dominio. Ed è una lotta tanto più estenuata, quanto più l'universo che la circonda sembra chiudersi in una totalizzazione fatale: il senso di molta saggistica fortiniana è per questo incomprensibile se non ricondotto a questa precisa posizione, ancor prima che politica, geografica ed esistenziale.

Del resto, sempre nello stesso 'spazio', il suo lavoro intellettuale ha partecipato di una comunità politica diffusa, ma non ufficiale, le cui origini risalgano quanto meno alla Resistenza e il cui sviluppo politico cresce accanto alle lotte operaie e sociali del dopoguerra; ancora una volta, per comprendere il senso preciso della sua scrittura, della sua posizione umanistica e «industriale», il confronto che lui stesso pone, anche dal punto di vista lavorativo, fra sé e Pasolini può essere davvero illuminante:

Nel 1961 uscì a Torino, in una situazione sociale che presto sarebbe esplosa, il primo numero di «Quaderni Rossi» e l'anno successivo, a Piacenza, comparve una minuscola rivista che, insieme ad alcune altre, avrebbe occupato in Italia uno spazio di opposizione intellettuale simile a quello che in Francia si opponeva al gollismo, alla politica del Pcf e alla guerra d'Algeria. Ai primi del '62 Torino visse gli scioperi della Lancia e della Michelin; e quest'ultimo durato tre mesi. Col titolo Scioperi a Torino, avrei scritto il commento a un documentario su quelle agitazioni. Il 23 giugno ci fu il grande e fino allora impensabile sciopero di sessantamila operai alla Fiat. In quel periodo Pasolini veniva sviluppando la sua opera di regista. È forse difficile oggi rendersi conto di quanto fosse stridulo il contrasto fra il modo in cui veniva vissuto il presente fra Torino e Milano in quegli anni di trasformazione profonda e l'immagine che di quello ci veniva da Roma. Per più di quasi tutti gli intellettuali che erano stati vicini a pubblicazioni come «Quaderni Rossi» o «Quaderni Piacentini», fra il 1962 e 1964 scomparivano alla vista, rinunciavano alla 'presenza', sopravvivevano nelle forme più modeste e anonime. È forse difficile capire, oggi, che per costoro, non solo Pasolini ma anche Calvino erano dei 'perduti', dei passati nel campo avverso.

Per Fortini, Milano resterà sempre dell'Italia, almeno fino alla fine degli anni Settanta, il «privilegiato teatro dell'esistenza sociale», o forse meglio, l'allegoria di una possibilità e di una sconfitta, lo spazio del comando e insieme della negazione determinata del capitalismo italiano. Per Fortini Milano è stata, infatti, la capitale della Resistenza, del marxismo critico, delle lotte operaie, dei movimenti sociali di massa e, nello stesso tempo, la città guida del capitalismo italiano, della finanza, dell'americanizzazione sociale; dunque un laboratorio straordinario e contraddittorio, la città che ha espresso, al più alto grado possibile, un movimento politico di massa incisivo e politicamente cosciente e, nello stesso tempo, la sua negazione immediata, feroce e, in un certo modo, definitiva.

È inevitabile, dunque, che per questo suo essere «zona di frontiera», cuore del capitalismo italiano e della sua negazione più cosciente, Milano rappresenti, per Fortini, un punto d'osservazione privilegiato sulle verità delle trasformazioni profonde, strutturali e ideologiche, che il nostro paese ha attraversato, quanto meno lungo tutti gli anni della Guerra Fredda.


III.


A questo punto, se il suo itinerario saggistico è stato posizionato storicamente nell'età della Guerra Fredda e geograficamente nella società politica radicale dell'Italia industrializzata, il senso della sua scrittura può essere ulteriormente approfondito considerandolo, nella sua qualità autoriflessiva, come sintomo di una condizione generale, di una lacerazione oggettiva che ha attraversato in profondità la cultura e la società italiana degli anni che qui si considerano.

Fredric Jameson ha sostenuto, in un noto saggio sui rapporti fra narrazione e sistema mondo, che un'analisi comparata delle varie letterature mondiali contemporanee potrebbe portare ad una restituzione di una mappa simbolica nella quale, tradotte e formalizzate nell'estetico, le reali gerarchie politiche ed economiche dell'attuale sistema mondo si rivelerebbero come implicito contenuto di verità. Proiettando, infatti, il conflitto hegeliano servo/padrone, come lotta irriducibile fra due logiche culturali e simboliche (l'astrazione idealistica del padrone contro il materialismo pratico del servo), è possibile, secondo Jameson, riconoscere, nella differente qualità retorica e simbolica delle strategie narrative, la forma estetica del conflitto strutturale fra Nord e Sud del mondo:

Ho l'impressione che noi americani, i padroni del mondo, ci troviamo per certi versi nella stessa posizione. La vista dall'alto è epistemologicamente deformante, riduce i suoi oggetti alle illusioni di una miriade di soggettività frammentate, alla povertà dell'esperienza individuale di monadi isolate, a singoli corpi morenti privi di qualsiasi passato o futuro collettivo, senza alcuna possibilità di afferrare la totalità sociale. Questa individualità apolide, questo idealismo strutturale che ci permette il lusso del dibattito di ciglia sartriano, rappresenta una benvenuta evasione dall' 'incubo della storia', ma al tempo stesso condanna la nostra cultura allo psicologismo e alle 'proiezioni' della soggettività privata. Tutto ciò è negato alla cultura del terzo mondo, che dev'essere situazionale e materialistica suo malgrado. Ed è questo, in definitiva, che deve spiegare la natura allegorica della cultura del Terzo Mondo, in cui il racconto della singola storia e della singola esperienza deve per forza di cose comportare, in un'ultima analisi, tutto il laborioso racconto dell'esperienza della collettività stessa.

Proviamo a continuare, riferendolo agli anni che qui si considerano, il ragionamento di Jameson e chiediamoci: qual è stata la posizione dell'Italia nel sistema mondo durante tutto l'arco del secondo dopoguerra? In che modo questa stessa posizione può avere influito sull'attività intellettuale non solo politica, ma perfino simbolica ed estetica, del nostro Paese?

Senza dubbio, l'Italia è stata, per tutto il periodo dell'attività intellettuale di Fortini, proprio come è titolata una sua raccolta di saggi, una «zona di frontiera». Per un verso il suo spazio è stato infatti uno spazio ideologico, vale a dire uno spazio geografico connotato politicamente dall'essere uno dei teatri mondiali della Guerra Fredda, e non solo perché Stato capitalistico in una zona di confine fra Est e Ovest, ma soprattutto perché ulteriormente diviso, al suo interno, dalla presenza tanto del più grande partito comunista occidentale, quanto dei piu grandi movimenti sociali che abbiano attraversato l'Occidente.

Per un altro il suo è stato, e continua ad essere, il confine di uno spazio strutturale, vale a dire uno spazio economico posizionato al confine geografico, nel sistema mondo, fra Nord industrializzato e Sud agricolo, fra Europa e Africa. Confine, e lacerazione fra due diversi universi sociali, ancora una volta, riprodotti in scala al suo interno, nel contrasto fra un Nord industrializzato, ad alta conflittualità operaia, e un Sud per lo più agricolo, sfruttato come riserva di manodopera a basso costo.

Quello che si vuole dire, insomma, è che l'Italia ha concentrato in uno spazio geografico davvero limitato una qualità e una quantità tale di confini e di contraddizioni da renderla, effettivamente, quanto meno negli anni che qui si considerano, una riproduzione in scala del sistema mondo, una «zona di frontiera» che ha riprodotto, al suo interno, squilibri e gerarchie, poteri politici e movimenti sociali opposti, figure di conflitti distanti, eppure incredibilmente ravvicinati.

Ed è questa la ragione per la quale, in un certo modo, la dialettica servo/padrone, il materialismo subìto e l'astrazione aerea senza appigli, è stata, per così dire, temporaneamente sospesa, quasi avvicinando i due poli in un reciproco riconoscimento: e se questo ha portato, sul piano dell'azione politica, ad un conflitto operaio e sociale politicamente cosciente perché realmente capace di aggredire la verità dell'accumulazione come comando sul lavoro vivo, sul piano dell'attività simbolica, mai come nell'Italia del secondo dopoguerra, il piano politico ha invaso, nel bene e nel male, l'estetico e l'estetico, a sua volta, il politico.

Non è dunque un caso se il «saggio come forma», per antonomasia genere dell'intersezione fra queste due sfere, sia stato il genere guida della letteratura italiana contemporanea. Forma dell'espressione soggettiva che pretende e rivela, rifranta nella mediazione di un pretesto, la totalità come verità della propria esistenza, il «saggio come forma» è stato l'allegoria della forma dell'Italia, della sua posizione specifica nel sistema mondo, del suo essere, paradossalmente, cruciale «zona di frontiera» della Guerra Fredda mondiale.


IV.


L'itinerario intellettuale di Fortini è, per tutte queste ragioni, un itinerario integralmente politico. Naturalmente a questo termine non va attribuito in alcun modo un significato tecnico perché definisce, semmai, un'area connotativa, una certa forma dell'agire e del pensare, una sintassi profonda che regola e attribuisce senso all'esperienza di Sé e del mondo. Questo lavoro cerca di ricostruirne il profilo analizzandone tre momenti fondamentali: la Resistenza e il 'laboratorio' Politecnico, gli 'inverni' dello stalinismo italiano, l'integrazione neocapitalistica degli anni Sessanta. Ad ognuno di questi periodi è dedicato un capitolo ed ogni capitolo premette una nota introduttiva a cui si rimanda.

Ciò nonostante, in estrema sintesi, si può comunque anticipare che se il primo capitolo ricostruisce il movimento attraverso cui la politica diventa per Fortini categoria qualificante la propria identità intellettuale, innanzitutto come funzione, come forma antropologica del conoscere e dell'agire, il secondo e il terzo capitolo discutono invece la questione del ruolo, prima nella sua distorsione stalinista, quindi nella sua integrazione neocapitalistica.

In entrambi i casi, l'eccezionale qualità critica del suo itinerario intellettuale, come continua riflessione sulla liberazione possibile anzitutto dalla propria subordinazione come lavoratore intellettuale, deriva dalla pretesa inseparabilità di ruolo e funzione, di estetica e politica; discende, del resto, da questa precisa impostazione, la comprensione immediata del significato politico della radicale trasformazione antropologica (come distruzione delle facoltà sintetiche dell'Io e della memoria volontaria) che segue, in Italia, alla devastazione dei movimenti; e che abita il nostro presente.

Questa nuova soggettività, incapace di «incarnazione» e di «narrazione», di memoria storica e di totalità politica, non è altro, e nientemeno, che la forma realizzata della nuova antropologia capitalista, vale a dire di quella nuova massa di forza-lavoro mentale che lo sviluppo delle macchine informatiche metterà a lavoro nei decenni successivi.

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Pagina 161

[...] L'atteggiamento contemplativo di fronte alla società industriale (tanto nella versione Calvino, che crede possibile potersi calare nel mare dell'oggettività e attraverso il potere della ragione operare, dall'esterno, una riforma ordinatrice dell'esistente; quanto nella versione Vittorini, che invece riduce il progresso allo sviluppo della tecnica, e dunque, la modernità industriale al divenire del rapporto uomo/macchina;) rivela la separazione dell'interprete dalla totalità sociale di cui è parte. È, infatti, secondo Fortini, la forma conoscitiva di un soggetto incapace di oltrepassare la divisione del lavoro, dunque della coscienza, nella quale è costretto; per questa ragione, nell'attenzione all'universo degli oggetti industriali, ma non certo all'origine umana degli stessi oggetti, Fortini riconosce l'omissione della storia come prassi, da cui discende, contemporaneamente, l'implicita proposta di un'antropologia dell'autocoscienza riflessa in se stessa: entrambi errori antichi, entrambi di derivazione illuminista.

Ma è soprattutto Lukàcs di Storia e coscienza di classe a metterlo in guardia contro questa distorsione conoscitiva, nel cui moto di rappresentazione ideologica si nasconde, come rifrazione, l'arcano della merce, il suo spettrale potere reificante. Eppure, contro di esso, basterebbe ricordarsi dell'insegnamento del giovane Marx dei Manoscritti secondo cui chi separa soggetto conoscente da oggetto del conoscere dimentica che «l'oggetto è il sensibile» e che «il sensibile è attività umana, praxis»:

Si vuole illuminare il rapporto fra oggetto e utente, fra oggetto e produttore? Perché allora oscurare l'origine umana degli oggetti? Fossero sensibili alle citazioni di Marx, potrei rammentare ad alcuni amici la Terza glossa a Feuerbach, dove le conseguenze illuministiche e paternalistiche di quell'errore sono già previste fino alle moderne crociate degli architetti e dei designers e alle angosce sociologiche di chi atterrito denuncia l'uomo contemporaneo immerso in una fanghiglia di merci, pur di non dover rammentare che ne è premessa la condizione di merce dell'uomo stesso.

Il punto di partenza di Fortini è dunque opposto a quello dei redattori del «Menabò»: lo sviluppo capitalistico non è tanto progresso tecnologico, ma sviluppo dello sfruttamento, non è tanto invasione di merci nel mondo dell'uomo, quanto riduzione dell'uomo a merce:

Nel vecchio film di Chaplin, tragicomica non è la catena di montaggio, né l'anarchica e ovvia reazione di Charlot, ma la serietà degli altri operai, il loro interesse al buon andamento produttivo, la persuasione di stare adempiendo un dovere. Perché non sono alienati dalle macchine ma dai padroni delle macchine. (è uno dei punti di contatto, fra i molti, di Chaplin e Brecht). Che l'industria non produce soltanto oggetti ma rapporti umani e «idee» vogliamo rammentarlo? [...] E, fra quelle idee, anche l'idea che le cose abbiano una importanza decisiva per l'uomo, non come risposta ad un bisogno «umano», ma «in sé».

Correttamente, da un punto di vista marxiano, Fortini imposta un'analisi della società capitalistica come sistema unitario di produzione di merci, di produzione di rapporti sociali e di produzione di rappresentazioni ideologiche. L'alienazione non è, dunque, come per Vittorini e Calvino, semplice disorientamento antropologico in un mondo artificiale, né tantomeno ontologica oggettivazione hegeliana, come invece in Umberto Eco.

Per Fortini, l'alienazione capitalistica discende da un preciso rapporto di produzione; è quest'ultimo, infatti, che, mentre espropria il lavoratore della sua produzione materiale contemporaneamente dissimula questo furto, attraverso una espropriazione della coscienza:

Come si fa a parlare di industria e letteratura senza essere d'accordo almeno su questo (ma è quasi tutto): che le forme, i modi, i tempi della produzione industriale e i suoi rapporti sono la forma stessa della vita sociale, il contente storico di tutto il nostro contenuto e non semplicemente un aspetto della realtà? Che le strutture economiche – nel nostro caso capitalistiche e quindi industriali – sono né più né meno che l'inconscio sociale, cioè il vero inconscio, il mistero dei misteri?

Se dunque l'economia politica è «il mistero stesso della nostra vita, l' essenza che giace sotto il fenomenico», lo scopo della riflessione critica è nientemeno che la ricostruzione dei nessi complessi e storicamente articolati attraverso cui un processo di trasformazione materiale agisce sul presente autodissimulando se stesso. Ancora una volta l'insegnamento di Adorno si sovrappone a quello di Panzieri e Tronti: le strutture economiche occultandosi si rivelano, nella loro potenza, come inconscio sociale del presente. Ma se questo è vero, non è pensabile che il rapporto fra arte e mondo contemporaneo si possa ridurre semplicemente alla rappresentazione privilegiata e didascalica del mondo industriale. E non solo perché, come insegna Mario Tronti, «quando tutta la società viene ridotta a fabbrica, la fabbrica – in quanto tale – sembra sparire»; ma soprattutto perché «l'industria non è un tema, è la manifestazione del tema che si chiama capitalismo».

Il rapporto fra arte e sviluppo capitalistico deve essere dunque pensato in termini completamente diversi, tornando a Lukàcs, e cioè allo specifico potere di conoscenza che la forma artistica porta con sé, indipendentemente dal pretesto e dal soggetto specifico della sua elaborazione. Il potere conoscitivo dell'arte è contenuto nella sua forma, come interpretazione soggettiva e metaforica della verità dell'esperienza umana in un dato presente storico. Il suo fine, dunque, in un mondo industrializzato, non è la descrizione di oggetti nuovi, di spazi nuovi o di gesti umani nuovi, ma l' interpretazione nella forma più adeguata possibile di quei nuovi rapporti (sentimenti, valori, pensieri) fra gli uomini che lo sviluppo capitalistico ha indotto.

Ancora una volta, l'incrocio di estetica ed economia politica, in Fortini, diventa arma potente per disoccultare, nella manipolazione del simbolico, l'azione capitalistica come autodissimulazione, riconducendone il moto alla ragione strutturale: l'intensificazione del comando.

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