Copertina
Autore Silvia Ballestra
Titolo Piove sul nostro amore
SottotitoloUna storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2008, Serie Bianca , pag. 176, cop.fle., dim. 14x22x1,4 cm , Isbn 978-88-07-17153-6
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe salute , femminismo , paesi: Italia , etica
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Indice


  7 1. La nonna di Cappuccetto rosso

 23 2. Cav

 44 3. Benedetto fanatismo

 70 4. La vita, non la conoscono

 82 5. Quando le straniere siamo noi

 97 6. Un'altra pillola

118 7. Piove sul nostro amore

142 8. Non puoi far finta

161 9. Senza perdere la tenerezza


 

 

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Pagina 34

Vado a sedermi sulla sinistra, indietro, perché le prime file sono già tutte piene; mi guardo attorno. La bella e ampia sala è occupata da una trentina di donne che, a una prima occhiata, dividerei in tre grandi gruppi: un terzo di figlie di Maria (ma tipo nuovo millennio, vale a dire probabilmente studentesse universitarie cariche di master e stage, non saprei se conseguiti in Cattolica o in università private dai nomi latini), un terzo signore di provincia molto fund raising (anche in tiro, truccate e tutto, zona Opus Dei, direi), un terzo operatrici vere e proprie, cioè mamme e mogli un po' trasandate, allegre e casual, che immagino stazionare ore e ore nei presìdi ospedalieri dei Cav, a lavorare sul campo (delle tre componenti, questa è quella che mi attira di più). A fare il quadro completo delle partecipanti bisognerebbe aggiungere le due outsider. Vale a dire, in velo e tonaca marrone e sandali coi piedi nudi, una robusta e bonaria monaca. E naturalmente io, misteriosissima e silente (mi rendo conto, con un brivido, che forse sono proprio io la presenza più inquietante). Ecco, ci siamo tutte. Pronte ad ascoltare dalla viva voce della psicoanalista Kantzà - una anziana terapeuta dal simpatico accento toscano ma milanese da tempo immemore, credo, presentata dall'organizzatrice come una "che si starebbe ad ascoltare per ore in quanto brillante e piena di spunti" - questa sorta di corso accelerato di storia della psicologia. Poiché è venuta a parlare a gente che, esattamente come me, è del tutto digiuna di certi argomenti, parte proprio da un avvicinamento per "chi non è avvezzo a certi percorsi". Strana, però, mi dico, questa inedita alleanza tra sacro e profano. Cattolici ortodossi e forse persino integralisti da un lato e psicoanalisi dall'altro. Ma non erano nemici giurati? Ma Freud non portava la peste? Ma tutto quell'inconscio non era un tempo il diavolo, al cospetto della fede? Sentiamo.

"La nascita della psicoanalisi," dice Kantzà, "avviene con Freud sulla base della storia di Dora, ragazza in crisi per un abbraccio non voluto. La psicoanalisi nasce dunque proprio con una donna e consiste, per quanto riguarda l'uomo, nella domanda 'Chi sono io?', e per quanto riguarda la donna 'Che cosa vuole una donna?'. Per Freud uomo e donna non sono uguali e non sono pari. Dobbiamo ricordarci che Freud è ebreo e gli ebrei hanno con la madre un rapporto del tutto particolare."

"Ve la ricordate la scena di Woody Allen con la madre nel cielo?" chiede la dottoressa. Mi guardo attorno e palpo il gelo, le facce sono attonite; come può immaginare che queste donne abbiano visto un film di Woody Allen, proprio non lo so. Ma andiamo avanti.

"La soluzione per Freud è che la donna deve diventare madre e trovare nel figlio il fallo che lei non ha e avrà finalmente la serenità. Passiamo a Lacan. Per Lacan, la donna è sempre une pauvre femme. Lacan insiste molto sulla condizione di povertà della donna! L'uomo ha il pene, il fallo: è ricco. La donna ne manca ed è povera. Ma chi è povero è rivoluzionario, è trasgressivo, non ha nulla da conservare."

A questo punto la Kantzà fa uno strano salto e per dire della differenza fra uomo e donna cita le diverse modalità del parlare. Gli uomini, dice, parlano della squadra di calcio o di politica, adesso che ci sono le elezioni; le donne, della primavera e dei tailleur. (Nuovo mio sguardo circospetto, tutt'attorno: la monaca la vedo di spalle e quindi non so come accoglie la boutade, comunque non è svenuta, ma anche il resto dell'uditorio non sorride molto; io meno di tutte.) Poi la dottoressa parla della sua esperienza di analista e di testimone del fatto che le donne piangono moltissimo e non sanno dire perché: "È perché hanno bisogno d'amore, dato che sono particolarmente vicine all'amore. Per quanto riguarda le psicosi, quelle dell'uomo vertono più sulla paranoia: visione del mondo delirante, il mondo mi vuol male!, quelle della donna più sull'erotomania: la donna si prende d'amore per qualcuno che nemmeno conosce e diventa persecutoria".

Mi sento sospesa come in un vortice. Tra Lacan e la collana Harmony, tra Freud e i programmi tv del pomeriggio, immersa in un frullatore caldo di concetti un po' troppo approssimativi. Sarà per questo che non riesco nemmeno a distrarmi.

"Altra perla maschilista di Lacan: on dit femme, on la diffame. Ora, il godimento per la donna è nell'essere madre. Ma donna e madre non coincidono, anzi sono in opposizione. Se sono tutta madre, disgraziati i miei figli perché tutti i miei desideri saranno su di loro. Le donne hanno un tipo di godimento diverso da quello dell'uomo perché il godimento è un fatto soprattutto di percezioni, sensazioni, e le donne hanno un corpo che da uno può diventare due. Le donne chiedono all'uomo di essere tolte dall'angoscia di essere donna: l'uomo deve sollevarla dalla sua angoscia, essere il trait d'union con l'ordine simbolico poiché la donna soffre, è messa a disagio (a prescindere dal fatto che sia madre o no) fra l'essere donna e l'essere madre."

"Infatti," ricorda la Kantzà, "secondo i dati dell'Oms la depressione è donna: anoressia e bulimia sono le spie che qualcosa non va, nel nostro tempo. Nel 1958 Lacan diceva che la famiglia deve la sua sussistenza alle donne, oggi non è più così. Rispetto al femminismo degli anni settanta, che attaccava la visione fallocentrica di Freud, Lacan provava grande divertimento: suggeriva la via dell'essere donna a partire da un loro linguaggio. Diceva che le donne, un tempo postulanti dell'amore, erano divenute postulanti dell'uguaglianza (reclamando uguali diritti e uguali ruoli). Ma la società attacca le donne, non solo mancando sui servizi, ma perché in generale ci si muove tutti più sul versante consumismo e usiamo la nostra vita su queste grandi conquiste femminili: la possibilità di accedere a tutti i lavori (per esempio le donne soldato), insomma questa possibilità di scegliere tutto diventa motivo di sconfitta."

Conclusione prima del "coffee break": dobbiamo riprendere in mano la questione dell'amore. Cavoli, sono d'accordo! Riprendiamola assolutamente in mano. Soprattutto la monaca, direi. (Chissà se qualcuno qua dentro ha visto Irina Palm.) Ma ora basta fare la stupida: si fa proprio pausa.

Ok. Ho tralasciato alcuni aneddoti "di alleggerimento", a uso e consumo della platea dopo quaranta minuti di conferenza, ma grosso modo ci siamo. Le corsiste si alzano, sgranchiscono le gambe, chiacchierano attorno al tavolo imbandito coi rinfreschi. Esco in corridoio a spedire un paio di sms, guardo dai finestroni e l'ospedale sembra deserto, in quest'ala; allora torno dentro e mangio il cioccolatino che mi viene gentilmente offerto, perché a questo punto sono l'unica che non ha socializzato e non voglio sembrare scortese. Mi risiedo e aspetto che la conferenza riprenda.

Ci sono domande. Non le riporto tutte ma solo quelle che mi sembrano più indicative del cosa siamo venute a fare, qui, oggi, noi aspiranti volontarie del Cav accanto a già esperte operatrici. La prima che interviene comunica il suo disagio per l'espressione corrente "donne con le palle". Un'altra chiede che venga approfondito l'aspetto dell'angoscia. La terza chiede come poter rispondere a donne che vengono lasciate da sole davanti a una decisione, a una scelta (risposta lapidaria della dottoressa: "Con l'ascolto"). Una più operativa si interroga sul perché all'annuncio di una gravidanza, che è meraviglioso, si possa rispondere con l'angoscia (risposta: "L'angoscia è dettata dal corpo che cambia, pensate a queste cliniche per rimettersi in forma dopo il parto, ma anche dalla dimensione di madre che viene a oscurare quella di donna"). L'organizzatrice tira fuori la questione della medicalizzazione della gravidanza che diventa una malattia con tutte le analisi, diagnosi e la perdita di naturalità del parto (risposta: "A Lugano hanno organizzato corsi per padri e madri, ma così, lasciando che il padre faccia il bagnetto al bambino e cambi il pannolino, l'uomo ci toglie di mano il neonato, sottrae il piccolo alla donna!").

Poi, lo confesso, mi perdo dietro un'ulteriore, macchinosissima risposta riguardo alle donne che, a causa di una cultura che rema contro di loro, sono diventate fortissime e devono sostenere gli uomini qualora questi avessero delle debolezze: dopo tutta la menata sull'uomo che deve sollevare la donna dall'angoscia, la Kantzà adesso sta dicendo che la donna deve smollare l'uomo in crisi e lasciarlo a risolversi i suoi problemi da solo...

Io penso che mi sto disunendo, e sto cominciando a sviluppare una forma di orticaria invisibile e tutta mia - ma forse qualcun'altra, altrettanto perplessa, qua dentro c'è, magari è la monaca, oppure quella faccina tagliata con le forbicine, solitaria sulla destra, chissà - che conferma le mie riserve sui Grandi Pensatori Freud e Lacan, soprattutto così come ce li ha imbanditi la Kantzà, un po' ironica e un po' no, un po' fedele ai maestri e un po' distaccata lei per prima.

Non so come, essendo donne (e donne "studiate" cioè laureate e lavoratrici), si possa, oggi, essere così misogine e adagiate su modelli patriarcali (penso anche alle cose che ho letto sull'incontro precedente e insomma tutto il quadro d'insieme sull'immagine che si dà delle donne in questo luogo è quello o di vittime lagnose, o di sceme da mettere sotto tutela, o di persecutrici dei maschi, o di povere derelitte: un'immagine che piacerebbe molto a molti uomini). La sostanza è che una malcapitata che volesse, come ho fatto io, seguire e avvicinarsi al movimento, fare addirittura questi incontri di formazione, e magari in buona fede accostarsi al "dramma della donna lasciata sola davanti all'aborto" eccetera, finirebbe, come me, a perdersi tra ragnatele di luoghi comuni da stampa rosa e macchiette di donne stilizzate come nei bozzetti dei sarti.


E poi c'è una cosa che mi tormenta dall'inizio. La domanda non troppo peregrina e cioè: che ci azzecca, veramente, la psicoanalisi con questa parte più, diciamolo, dura e pura della cultura cattolica? Ma la mia tenacia sta per essere premiata. Ancora una domanda, congrua e assai sensata dal mio punto di vista (l'avrei fatta io, se non mi fossi ripromessa di tacere) e la pone un'operatrice del Cav della Mangiagalli: il discorso verteva sulla relazione col maschile, ma quando il maschile non c'è? La dottoressa se la sbriga con un vago "Si è parlato in generale, certo la donna sola fa molta più fatica", che secondo me è assolutamente insufficiente, anche perché visto che questo sarebbe un corso di formazione ben preciso, magari si stava chiedendo "In che modo posso, io donna, aiutare un'altra donna se solo l'uomo la solleva dall'angoscia?", ma vabbe', non sempre ci si intende.

E infine, alleluja eccomi accontentata. L'ultima questione è: la famiglia è in crisi, minacciata dalle unioni omosessuali. Come si pone la scuola lacaniana di fronte alla cultura dominante che si confronta con modelli diversi di famiglia (Dico, Pacs ecc.)? Risposta: vi sono perplessità, divisioni sul riconoscimento delle unioni omosessuali, da un punto di vista analitico, non religioso né morale, perché alcuni di noi dicono: "Voi siete diversi, non potete essere uguali agli altri"; ma la buona notizia è che l'Università della Santa Croce e la Scuola di psicoanalisi dal prossimo anno si confronteranno su questi temi brucianti: psicoanalisi e religione sono l'ultima frontiera, barriera, contro il relativismo. Dobbiamo allearci pur mantenendo eserciti separati!

Perbacco! Fremo. Tremo. Sotto i miei occhi, dalle parti di Magenta, Lombardia, Italia, sto assistendo al miracolo né atteso né annunciato della santa alleanza tra due dottrine finora irriducibilmente nemiche. Chiesa e psicoanalisi che si alleano qui, proprio sotto i miei occhi dopo più di un secolo di sgambetti e battibecchi e liti feroci. E tutto questo palpitare di comuni intenti su cosa avviene? Sul corpo delle donne e sul corpo dei gay. Se fossi cosciente della portata storica di questa alleanza dovrei scrivere subito a qualche giornale, correre ad annunciarlo al mondo. Raccogliendo le mie cose, mi chiedo come possa la Psicoanalisi ergersi a baluardo contro il relativismo. E la monaca, siamo sicuri che sarà d'accordo con questa stramba alleanza? Dovrei proprio chiederglielo!

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Pagina 44

3.
Benedetto fanatismo



Una decina di giorni dopo, dunque, sono di nuovo in pista. Stavolta non da sola, però. Stavolta vado accompagnata da mio marito perché il viaggio notturno, su questi trenini scalcagnati del passante ferroviario col rientro a Milano a tarda ora, sarebbe in effetti inquietante. Per di più non so quanto disti la stazione di Corbetta dal posto in cui si tiene l'incontro che è, poi, il palazzo dei padri Somaschi. Però faccio giurare al mio autista che non si manifesterà in nessun modo e maniera: non sbufferà, non alzerà la mano per porre domande provocatorie, insomma non farà nulla che possa far saltare la nostra copertura inficiando l'ascolto, che deve essere il più neutrale e liscio possibile. Lo guardo con chiari intenti intimidatòri e decidiamo che sì, wow!, facciamolo, questo viaggio nella galassia nazipunk.

La chiamo "galassia nazipunk" per scherzo, pensando ai belushiani nazisti dell'Illinois. Perché ho fatto una ricerchina sull'oratore che terrà la conferenza di stasera e mi sono un po' spaventata. Navigando per la rete continuavano ad aprirmisi finestre l'una più interessante dell'altra, ma anche l'una più piccola dell'altra, una caduta in un mondo sempre più piccolo e delirante (per me, delirante: sia chiaro).

Per dire. Linkatissimo nei siti gay, la prima cosa che ho trovato sul professor Mario Palmaro è una sua dichiarazione sull'omosessualità: "L'omosessualità è una condizione patologica che ostacola la piena realizzazione della persona. Dalla quale se si vuole si può uscire. Ma l'azione di una potente lobby gay mira a nascondere questa verità". Poi ho trovato alcuni suoi attacchi a quei cattolici giudicati troppo soft perché accusati di non opporsi con opportuna veemenza alla mortifera legge 194 (emblematica la sua polemica su "Tempi" con la professoressa Assuntina Morresi, membro del Comitato di bioetica, rea di sostenere le tesi abortiste). Quindi una sua intervista rilasciata a un orribile blog corredato da immagini truculente di corpicini sbruciacchiati (bambolotti, spero), in cui afferma che si devono prevedere delle pene per le donne che abortiscono. Poi una serie completa di video da sue conferenze sull' Evangelium Vitae: su Youtube i suoi filmati sono postati da un certo radicalimacellai che in un primo momento avevo pensato, appunto, potesse rimandare a un gruppo punk, o, in subordine, a imprenditori del settore carni particolarmente agguerriti (ma, poi, ho capito che si parlava proprio dei radicali intesi come partito, e "macellai" era un gentile termine d'accompagnamento). È presidente del comitato "Veritàevita" e attivo collaboratore di "Fratelloembrione" che dovrebbe essere una radio on line ma non ne sono sicura perché non sono mai riuscita a caricarla (non la supporto?). Interessante la ricca produzione libraria del giovane prof, quasi tutta edita da Piemme: si va dalla biografia di Guareschi a titoli spiritosi come Io speriamo che resto cattolico, Catholic pride, Contro il logorio del laicismo moderno, passando per lavori diversissimi come Manuale di sopravvivenza per interisti e un contributo al saggio collettivo Tolkienology, sorta di lettura dei personaggi del Signore degli Anelli attraverso i segni zodiacali. Per le edizioni San Paolo, invece, il suo titolo di maggior peso, Ma questo è un uomo. Indagine storica, politica, etica, giuridica sul concepito, che poi è il libro di cui parlerà a Corbetta.

Insomma, alla ricerca di tracce sul Palmaro, nella perigliosa navigazione fra totustuus.network (il banner di questo sito va fortissimo) e cuoreimmacolato.it eccetera, eccetera, ogni cliccata mi forniva nuovi attraenti elementi. Soprattutto, il sito dell'università dove Palmaro è titolare della cattedra di bioetica: la ridente Pontificia Università Regina Apostolorum, posta in Roma, sull'Appia, legata ai Legionari di Cristo (quelli fondati da mons. Marcial Maciel, punito nel 2006 dalla Congregazione della dottrina della fede per pedofilia) e instancabile ideatrice di master del tipo "Donne e aborto" con, fra gli insegnanti, monsignor Sgreccia, Giuliano Ferrara, Livio Fanzaga direttore di Radio Maria ecc. e dove, con soli 5320 euro, puoi ottenere un baccalaureato in bioetica che ti permetterà di diventare un "leader cristiano, specialmente ecclesiastico, e sviluppare una rigorosa ricerca, al fine di creare una corrente culturale di pensiero che impregni di spirito cristiano la società...". Faccio due conti: l'offerta mi sembra molto allettante ma mi sa che io, in quanto donna, anche impegnandomi tanto, ho scarsissime possibilità di diventare veramente una leader cristiana, specialmente ecclesiastica. Peccato! Nella loro homepage, a proposito di una conferenza sulla riproduzione, appare un'icona cliccabile della locandina dell'incontro di forte impatto, con un ammasso sanguinolento in cui si indovinano forme inequivocabili. Ma su questo torneremo.

Bene, è il lindo e pinto Cav di Magenta, assieme al Centro culturale don Cesare Tragella, gli Amici del centro culturale Shalom, e l'Associazione genitori Gianna Beretta Molla, l'organizzatore di questo incontro dal titolo "Ma questo è un uomo?", sottotitolo: "Aborto: una questione morale e giuridica", pubblicizzato dal manifestino aranciato sullo sfondo del quale s'indovina l'ombra tutta sfumata d'un piccolo feto ritratto di profilo. Il grafico ha lavorato bene, a uno sguardo distratto potrebbe pure sembrare la locandina d'una qualche festa bangra-trance-acid da discoteca, insomma qualcosa di psichedelico e spiraleggiante, misterico e spaziale.

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4.
La vita, non la conoscono



Pare di vederli, piccolini, in gruppo, per mano alle mamme e alle zie, che accompagnano le donne di famiglia dalla levatrice. Sono maschietti e percorrono ubbidienti le vie del paese nella controra, il primo pomeriggio quando il sole infuoca strade e piazze e ci sono quaranta gradi e in giro il deserto. È la Puglia degli anni quaranta: gli uomini sono al lavoro, e dietro le persiane serrate per non far entrare l'afa, tutti guardano e tutti sanno. Mentre loro, i bambini, solo col tempo capiranno cos'erano quelle visite un po' segrete dall'ostetrica, quando le mamme andavano ad abortire.

È vero, i maschi venivano tenuti un po' in disparte ma poi capivano. E anche i padri, quei padri che normalmente erano via, a lavorare come bestie, avevano un loro ruolo nel parto. Anzitutto, andare a chiamare aiuto quand'era il momento, poi provvedere a bollire le lenzuola per sterilizzarle. Quindi, badare agli altri bambini. La maternità era un fatto collettivo, una cosa di famiglia. C'era una grande dimestichezza con le cose delle donne, il parto ma anche l'aborto, e fra i due, nella civiltà contadina, era il parto il nemico della donna, non l'aborto, perché di parto si moriva molto di più. E solo nell'ultimo anno prima di venire su a Milano, nella strada dove viveva con la sua famiglia, a Cerignola, erano morte in due, di parto.

È così naturale, quando te lo racconta, seduto nel suo studio a Porta Romana (è in pensione ormai da dieci anni), così colmo di saggezza e solida vicinanza alle donne, se non vera e propria ammirazione, che lo capisci subito che l'idea di intraprendere questa carriera è nata allora. È in quei pomeriggi estivi passati assieme al collettivo femminile della sua famiglia ("Il separatismo da noi è sempre esistito! Quando la mia mamma, una volta emigrati quassù, ha assistito alla nascita dei gruppi di autocoscienza, ne ridevamo assieme dicendoci: e queste che hanno scoperto?") che si è formata la sua "vocazione". Voglio chiamarla così perché il professor Francesco Dambrosio la sua professione di ginecologo l'ha vissuta con grande energia e passione, prendendosi anche un sacco di rischi e rogne, conducendo gloriose battaglie, e studiando moltissimo per migliorare la vita delle donne e dei bambini. Di lui si è detto e scritto. Pioniere, senza dubbio. Nemico giurato, per il fronte antiabortista a cui ha sempre tenuto testa, combattendo e vincendo innumerevoli battaglie legali. Mai stato un politico, mai stato un teorico, eppure la 194 è un po' roba sua, e avendone letto le gesta e le prese di posizione, mi accingo a incontrarlo con qualche timore reverenziale che scompare subito. È gentile, è simpatico, e ci ritrovo un'umanità - ma sì, una pietas - che non ho trovato nei suoi agguerriti nemici, che della pietas dovrebbero avere, se non il monopolio, almeno il copyright.

Poi, certo, negli anni, in quei formidabili anni in cui ha lavorato alla Mangiagalli, l'ostetricia ha fatto grandi progressi: con le trasfusioni, soprattutto, e con il cesareo, che oggi è un po' messo sotto accusa (se ne abusa, perché veloce e programmabile) ma è stato il vero salvavita di mamme e bambini. Però diciamo pure che qualche passettino, in questa affascinante e vitalissima materia, è stato fatto anche grazie a lui. Sono infatti diversi i pilastri della carriera di Francesco Dambrosio: migliaia di bambini fatti nascere, applicazione, fra i primi in Italia, della medicina trasfusionale (le trasfusioni in utero e l'isoimmunizzazione da Rh), chemioterapia di tumori ginecologici, perfezionamento di tecniche ecografiche per l'individuazione del cancro al seno, studi epidemiologici della mortalità perinatale, natale e materna. Linguaggi medici che possono apparire astrusi e che in una parola si traducono così: progresso.

E poi ci sono gli aborti, certo, perché Dambrosio è stato, assieme ai colleghi Buscaglia e Brambati, il primo a eseguire aborti "pubblici", nel senso di aborti legali, in strutture pubbliche. Successe in occasione del disastro di Seveso e loro tre furono gli apripista, "dei guerriglieri", un po' per conto loro, senza veri sostegni politici, quando, a poche ore dal disastro dell'Icmesa di Seveso, partirono in tre da Milano, diretti alla zona A, la più colpita, la più inquinata.

Era il 1976 e al mondo, ancora, non c'era stato un disastro ambientale di quelle proporzioni. Non era ancora arrivato Bhopal, né Chernobil, così tutti erano stati presi alla sprovvista da questa nube di diossina, che camminava, si spostava, spandendo il suo carico di veleno tutt'attorno, minacciosa e mortifera. I sindacati e i partiti, fino ad allora, avevano lavorato bene per la sicurezza nelle fabbriche, dentro, ma nessuno s'era posto il problema di come gestire un'eventuale fuoriuscita di materiale nocivo all'esterno, sulla popolazione civile. Francesco Dambrosio ricorda che era agosto e già si trovava, con la moglie e i quattro figli, in vacanza a Ponte di Legno, in montagna, quando aveva seguito le notizie in tv. Era stato allora, all'annuncio di questo avanzamento ingestibile della nube, degli esami che quotidianamente indicavano come il veleno si stesse diffondendo, e soprattutto dopo aver sentito un'intervista a uno dei dirigenti della Mangiagalli che rassicurava l'opinione pubblica sull'innocuità della diossina, che Dambrosio era tornato di corsa in una Milano svuotata dalle ferie. S'era rivolto alla sua amministrazione ospedaliera, con i due colleghi avevano caricato un camion di tutto il materiale ed erano partiti per la Brianza. Una volta a Seveso, s'erano fatti dare una scuola e vi avevano impiantato il primo consultorio pubblico.

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Pagina 80

Tutto sommato, nonostante le difficoltà, la legge 194 a Dambrosio pare che funzioni e che non verrà intaccata in nessun modo. "Ricordiamoci cos'era prima. Chi vuole tornare a quella situazione?"

Ecco, ricordiamoci cos'era prima della 194. Fino a quel momento, fino a quel maggio 1978, Dambrosio aveva visto morire le donne massacrate dall'aborto clandestino. Arrivavano in Mangiagalli con l'utero perforato dai ferri da calza o intossicate dai decotti di prezzemolo, "e questo ti faceva male, ti faceva arrabbiare". Il giorno prima che entrasse in vigore la 194, ha visto l'ultima ragazza morta: diciotto anni, aveva bevuto l'apiolo che è un estratto di prezzemolo. "Era arrivata la sera prima, tutta gialla, con un'insufficienza renale, è morta in urologia. Ti viene una rabbia assoluta!" ricorda. Aggiunge pensando agli integralisti: "Ma ci vogliono prendere in giro? Della morale non gliene frega niente, loro vogliono il dominio sulle donne. Il vero problema non è l'aborto, è la donna, soprattutto la sessualità".

Quando Ferrara se n'è uscito con la sua proposta di moratoria, un gruppo di amici ha premuto molto perché Dambrosio facesse una lista contrapposta a quella di Ferrara, che avrebbe dovuto chiamarsi, provocatoriamente, "Lista pro-194", perché "Ferrara con la lista ha avuto un sacco di spazio per andare a dire quello che voleva e non una voce si è levata contro, ma io ci ho pensato un po' e poi ho lasciato perdere perché non ho capito bene a chi e a cosa dovevo contrappormi: a uno che ha fatto sempre i propri interessi?".

E poi Dambrosio è tranquillo sulla legge. Ha visto tante volte la chiesa ritirare fuori l'argomento, tastare il terreno e poi arretrare. Infatti anche Ferrara è stato mollato, sia da Berlusconi sia dalle gerarchie cattoliche. Uno, coi sondaggi in mano, aveva capito che si sarebbe attratto le antipatie di metà elettorato. Le altre divagavano con il solito metodo: tu vai ma se ti beccano io non ti conosco, temendo che una sconfitta sonante di Ferrara sarebbe stata una sconfitta anche per loro.

E poi ci sono le donne, dice Dambrosio. E le donne sanno benissimo cosa è giusto.

Gli chiedo, a lui che è partito proprio dagli aborti terapeutici di Seveso, cosa pensa quando viene agitato il fantasma dell'eugenetica da quelli che sostengono che "la legge 194 si è trasformata in una prassi di selezione eugenetica".

E lui risponde semplicemente e con inattaccabile saggezza: "Basterebbe far parlare le donne che passano per questa cosa, la drammaticità della loro condizione quando decidono di interrompere una gravidanza. Quella non è una gravidanza non voluta, quello è un bambino cercato: adesso c'è il prelievo dei villi, ma quando c'era solo l'amniocentesi arrivavi anche a diciotto settimane e il feto lo senti muovere, e per forza lo devi vedere in ecografia se fai l'amniocentesi, è un bombardamento di stimoli emotivi. E questi coglioni non sanno cos'è per la donna affrontare questo problema. Ma quale eugenetica? Non avete mai parlato con una donna!". Scuote la testa, chiude il discorso con una frase che non lascia spazi, né scappatoie teoriche, né vie di fuga: "La vita, non la conoscono".

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Per questo so di quella ragazzina che tanti anni fa andò ad abortire in ospedale senza nemmeno una camicia da notte, e si ritrovò, davanti ai medici sconcertati, così com'era vestita, con certi sandaletti azzurri ai piedi e la gonna tirata su, gli slip appallottolati in una mano e gli occhi fissi al soffitto. So che aveva provato a farsi dare "la pillola del giorno dopo" ma per la prescrizione serviva un ginecologo e così, al volo, si poteva solo andare al pronto soccorso: se sei piccola e appiedata e non vivi in una grande città, non è facile arrivarci. So che ne aveva parlato col ragazzo in questione e quello non le aveva creduto - si erano conosciuti tipo venti minuti prima di prendersi per sempre - ma comunque questo non era molto importante; lui non c'entrava anche se tutti invece le dicevano che c'entrava eccome. Ma "tutti" non erano lei, non erano lì con loro quand'era successo, non conoscevano la dinamica, anche assurda e irriferibile, e non sapevano proprio nulla di cosa le stava veramente accadendo dentro. Di certo si sentiva una perfetta stupida, e questo era molto seccante, per aver fallito proprio quel giorno lì, in piena ovulazione, per essersi fatta sorprendere senza quel diaframma, che, pur non avendo tutte queste occasioni d'usare, s'era procurata per tempo; ma a quell'età sei così fertile che può capitarti di restare incinta in un battito di ciglia, e il desiderio per quel ragazzo lì, così bello e così speciale, che l'aveva fatta innamorare con uno sguardo, aveva travolto ogni possibile rischio e timore. Succede così, si fa una cazzata una volta, una sola maledetta volta, e poi la si paga cara. Niente più di questo, si ripeteva. Poi a casa non lo aveva detto, neanche quando i genitori si erano preoccupati perché, cupa e ammutolita, appariva per quel che era: una bestia rabbiosa e ferita; ma non voleva angustiarli con una storia così brutta. Non voleva che altri soffrissero per questa cosa che già la tormentava senza requie. Non era vergogna o paura, piuttosto orgoglio non disgiunto dall'affetto filiale: voleva semplicemente tenerli al riparo, non chiamarli in qualche modo a partecipare d'una decisione già presa. Non voleva renderli suoi complici, dividere il peso di quella responsabilità, e non aveva neanche voglia di mostrarsi così vulnerabile e umiliata, facile preda di recriminazioni e rimproveri futuri. Insomma, era già abbastanza esposta per conto suo, non aveva bisogno di altri; men che meno di padri e madri, né reali né potenziali. Per quello le aveva dato immensamente fastidio il colloquio con la ginecologa per avere il certificato: quasi stupefacente nella sua totale inutilità, era stato tutto un mugugno elusivo e ostile, soprattutto quando le avevano chiesto del "padre". Sì, insomma, del ragazzo coinvolto con lei: non voleva, per caso, portarlo lì? Aveva trovato la forza di protestare, dall'alto dei suoi diciotto anni e dall'angolino in cui era andata a ficcarsi, ma le era stato detto che questo benedetto colloquio andava fatto per legge. E poi, dopo, a distanza di due mesi, quella stessa ginecologa aveva acconsentito a segnarle la pillola - anche se non aveva tutte queste occasioni di usarla - perché la ragazza sembrava dare qualche segno di depressione di troppo (scioccata, quanto meno).

So che poi, per tanto tempo, in certe notti lunghissime il pensiero di quel che aveva fatto non l'aveva mai abbandonata e ancora una mattina d'un paio d'anni dopo s'era svegliata in un bagno di sudore perché aveva sognato che, tornata dalla spesa, svoltolava un pacchetto sul tavolo di cucina e dentro, al posto del petto di pollo, c'era un bimbo piccolissimo fatto a pezzi. E so anche che nonostante questo blocco scuro, che non riusciva a scalare, né a smontare, né a contemplare in nessun modo, ma che non smetteva di smuovere delle cose dentro, a volte fermandosi, a volte riprendendo a colare incandescente, altre sgorgando in lacrime silenziose, insomma nonostante questo lutto difficilmente gestibile, né sanabile con nessun tipo di rito o accettazione di sottomissione (sei tu che l'hai fatto, tu che l'hai deciso, tu che l'hai determinato anche se, in qualche modo, "ti è capitato", insomma una sequela di atti e di prese in carico di responsabilità molto impegnativa: ecco tutto il peso della famosa autodeterminazione, massimo esercizio di giudizio), non si è mai pentita né ha rimpianto nulla. Dispiaciuta sì, moltissimo, pentita mai. Quando, molti anni dopo, felice e stupita, si è ritrovata col suo fagottino in braccio, un bimbo vero, vivo, suo e d'un uomo che l'aveva voluto, a cullarlo per ore e accudirlo e, qualche volta temerlo, spaccandosi la schiena e perdendoci il sonno per rassicurarlo e allattarlo, si è proprio detta, nel silenzio di notti diversissime, che aveva fatto bene come aveva fatto, quella volta. Che non avrebbe potuto tenerlo, da sola, a diciott'anni. Che passata l'euforia per l'eventuale arrivo del neonato, che comunque non è un bel bambolotto, poi quello sarebbe cresciuto, diventando un bambino e poi un ragazzo, e poi un uomo con una strana madre un po' troppo giovane. Non scherziamo, s'era detta. Ché per diventare genitori ci vogliono l'età e la forza giuste. No, con certe cose non si può proprio scherzare, bisogna essere molto seri e responsabili e saldi. Mai e poi mai sarebbe stata all'altezza di affrontare l'arrivo di un bambino, muscoli, strilli, manine che si aggrappano, profumo di piccolo, peso che aumenta ogni giorno, vaccinazioni da fare, sussulti per una febbriciattola, pannolini da cambiare, quando ancora non aveva la maturità necessaria: non ancora abbastanza nutrita dalle cose del mondo, dallo studio, dal lavoro, dalla sicurezza economica, dalla consapevolezza dei suoi diritti. No, per lei non era stato ricevibile, quel dono, in quel momento. Per di più si sarebbe ritrovata quasi sicuramente da sola, oppure, se in compagnia, chissà, si sarebbe trattato di una alleanza al prezzo di strane mediazioni e accomodamenti con un ragazzo che non era affatto un compagno, o sarebbe dovuto diventarlo in una circostanza tutta sfigata e ormai compromessa.

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