Copertina
Autore Matteo Baraldi
Titolo I bambini perduti
SottotitoloIl mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2006, Letterature omeoglotte , pag. 200, cop.fle., dim. 14x21,4x1,6 cm , Isbn 978-88-7462-139-2
LettoreLuca Vita, 2007
Classe storia letteraria , sociologia , antropologia , pedagogia , miti , ragazzi , paesi: Francia
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Indice


 11       Introduzione
          Il «mondo intermedio» di Paul Klee

 15    I. Il secolo dei ragazzi selvaggi

 55   II. O beloved kids

103  III. Il paese dei bambini perduti

139   IV. L'ombra a quattro zampe

175       Una conclusione ancora possibile?

181       Bibliografia
197       Indice dei nomi


 

 

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Pagina 11

Introduzione

Il «mondo intermedio» di Paul Klee


In un colloquio con l'amico Lothar Schreyer, il celebre pittore Paul Klee sostenne che, tra i privilegi e i doveri di un artista, vi è quello di accedere e di far accedere a «un mondo intermedio», un luogo che non appartenga al presente e alla quotidianità eppure capace d'irradiare su di essi una nuova luce. «Lo chiamo mondo intermedio» si spiegava Klee «poiché io lo sento tra i mondi percepibili ai nostri sensi e posso afferrarlo intimamente in modo tale da poterlo proiettare verso l'esterno in forme equivalenti. Sono in grado di guardarlo ancora e di nuovo i bambini, i pazzi, i primitivi».

Con quella che sembrava un'affermazione di assoluta libertà, di scardinamento del dettato accademico, l'artista svizzero si collocava invece in una lunga tradizione risalente almeno al XVIII secolo. Una tradizione che accomunava le tre grandi alterità in grado di attrarre e ripugnare la coscienza europea: l'infanzia, la follia e il mondo «selvaggio», in special modo quello considerato più barbaro e primigenio. Per lungo tempo si è guardato a questo mostro tricipite incerti se cogliere in esso un'orma primordiale e perduta del nostro passato o qualcosa di completamente estraneo, qualcosa che, semmai, contribuiva per contrasto a rendere ancora più netta e definita l'identità europea.

Una delle più inquietanti e affascinanti rappresentazioni che siano state date di questo «grande autre», di questa identità segreta, tanto ricercata quanto rimossa, ci è parsa proprio quella del fanciullo selvaggio, un mito che trova una sua incarnazione moderna nella figura storica di Victor dell'Aveyron, studiata da Jean Marc Gaspard Itard, e resa popolare da François Truffaut nel suo ambiguo capolavoro L'enfant sauvage (FRA, 1969), in cui il regista francese decise all'ultimo momento d'interpretare egli stesso il ruolo dello studioso. L'ambiguità di questo film, e del modo in cui guardiamo ad ogni caso di questo genere, sia esso leggendario o reale, si fonda sull'idea che ogni forma rieducativa nasconda un più o meno celato sopruso nei confronti del soggetto che la subisce, lasciandoci convinti che, così facendo, sia più ciò che si perde – la sauvagerie del fanciullo, la sua identità assoluta col mondo naturale – di quello che si acquisisce – un sempre deludente adattamento alla vita civile.

I fanciulli selvaggi incarnano infatti, nel mondo occidentale, la speranza di un impossibile e totale ritorno alla natura, a una selvatichezza libera e incontrollata, ed anche per questo, mano a mano che le nostre città si addentrano, o sprofondano, nel mondo postmoderno e postindustriale, questo è un mito che continua a parlare alle nostre coscienze. Ed è un mito talmente forte e vivo da presentarsi ancor oggi sotto nuove forme, non esclusa quella della beffa mediatica. D'altra parte, già nel 1970, nella settimana in cui si presentava il film di Truffaut a Los Angeles veniva scoperta, in quella stessa metropoli, una bambina reclusa che aveva vissuto in totale isolamento, confinata da una famiglia che l'aveva ritenuta ritardata e inadeguata a una vita pubblica. Era, sotto ogni aspetto, l'altra faccia della medaglia di Victor, eppure il suo caso si ripresentava con perfetto tempismo nel momento esatto in cui il tema del bambino selvaggio, del bambino isolato e quindi «allo stato puro», riceveva nuova attenzione nel dibattito culturale e sociologico. Evidentemente questa è una storia che ancora chiede di essere raccontata, e il feral child resta una figura viva nei nostri sogni, e nei nostri incubi.

Il grande assente di queste pagine potrebbe essere Tarzan, vera e propria cerniera tra l'Ottocento inglese e darwinista e il Novecento americano e superomista. Ma quello che ci premeva di affrontare qui è il rapporto tra l'idea di fanciullo selvaggio espressa da Kipling nel celeberrimo personaggio di Mowgli, che resta a tutt'oggi la sua creazione più popolare, celando in sé un'idea di conciliazione, ma anche di violento contrasto tra la maturità inglese e l'infanzia indiana del suo autore, sintetizzate in una identità imperiale, e quella espressa dallo scrittore e poeta australiano David Malouf. Da un lato, quindi, ci confrontiamo con un mito coloniale e, dall'altro, con una sua sfuggente ed elusiva interpretazione postcoloniale.

Non si tratta però di delineare solo un confronto tra due autori prescindendo dalle loro rispettive tradizioni. In ambito postcoloniale questo non avviene mai, non potendo astrarre da un ambito sociale, culturale, storico e politico che non è immune nemmeno, o forse soprattutto, nel campo della rappresentazione letteraria, di una sua profonda carica di violenza. Si è inteso dare spazio, quindi, non solo all'analisi di figure come Mowgli e il Wild Boy di Malouf e a un parallelo tra i diversi ruoli che essi giocano nei libri di cui sono protagonisti, ma anche a tutto quel processo culturale che è stato vitale per la genesi di questi personaggi e per la rielaborazione di tale mito da parte di questi due autori.

In ambito britannico le premesse alla nascita di Mowgli vanno individuate sottotraccia. Non esistevano, infatti, nella tradizione inglese, almeno non prima dell'avvento di Kipling, ragazzi selvaggi intesi nel senso stretto del termine, ma una ricca tradizione culturale rivolta all'infanzia maschile che esaltava le virtù del coraggio, della vita all'aria aperta e di una pragmatica inclinazione alla selvatichezza, intesa come ardimento e sprezzo del pericolo, che necessariamente risultava assai utile ai fini dell'espansione dell'Impero e del suo mantenimento.

Le premesse del recupero di questa figura risultano invece in certo modo più esplicite nel caso di Malouf, preceduto dalla lunga, ricca e drammatica tradizione del lost child, del bambino perduto in Australia, tradizione che quest'autore contribuisce almeno in parte a rovesciare. Malouf, infatti, come molti autori postcoloniali, scrive «contro» la tradizione coloniale, una tradizione che ha profondamente condizionato l'identità stessa del suo paese poiché l'Australia, come tutte le settler colonies, le colonie d'insediamento, ha lungamente sofferto per trovare la sua più vera identità e rifiutare di plasmarla esclusivamente sul modello della propria lontana madre patria. Ma scrivere «contro» la tradizione coloniale significa, in realtà, partecipare a un rapporto molto più complesso e intricato, un rapporto che non implica una semplice opposizione e va inteso come un atto di riscrittura del tutto libera e creativa che si trasforma in un atto di riappropriazione della propria verità e della propria identità senza per questo rinunciare al lascito culturale di una pur dolorosa esperienza di sottomissione.

L'obiezione che si può fin da qui porre sia a Kipling che a Malouf, nonché all'analisi tentata in questo volume, è che comunque il fanciullo selvaggio, con tutta la sua aura di libertà, è un mito prevalentemente occidentale, ed è un mito ambiguo che non può mai essere raccontato dal suo punto di vista, ma solo da quello di chi teme di perdere la sua civiltà e intende quindi ricondurre il feral child alla sua stessa dimensione. Oppure dal punto di vista di chi auspica di liberarsi egli stesso della propria civiltà per raggiungere uno stato naturale, perfettamente libero e felicemente selvaggio, rischiando così di far diventare questa una figura puramente strumentale. Ma ciò, ormai, fa parte della natura di questo mito, la cui cifra ultima e il cui fascino più profondo restano celati nella sua inafferrabilità, nella sua intatta capacità di indicare una via verso quel «mondo intermedio» a cui aspirava Klee.

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Pagina 15

Capitolo primo

Il secolo dei ragazzi selvaggi


C'è, lo sento, un'età a cui l'uomo come individuo si vorrebbe fermare; tu cercherai l'età a cui desidereresti si fosse fermata la tua specie. Scontento del tuo stato presente per ragioni che preannunciano alla tua infelice posterità ancor più gravi insoddisfazioni, vorresti, forse, poter tornare indietro; e questo sentimento deve essere l'elogio dei tuoi primi antenati, la critica dei tuoi contemporanei, lo spavento di quelli che avranno la disgrazia di vivere dopo di te.

Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini


Nel mese di Termidoro dell'anno settimo della Rivoluzione, nei boschi dell'Aveyron, venne catturato un fanciullo selvaggio a cui sarebbe stato imposto il nome di Victor. Il ritrovamento di questo ragazzo, più che un banale accidente, una curiosità di paese, rappresentò un evento paragonabile alla scoperta della fenice, dell'unicorno o di qualche altro animale mitico. Egli irrompeva sulla scena al momento giusto, nel tardo Illuminismo post-rivoluzionario animato dal dibattito degli idéologues, e nel posto giusto, la Francia, il paese che più di tutti aveva contribuito, nel corso del XVIII secolo, alla riflessione antropologica, pedagogica e filosofica sulla figura del selvaggio.

I ragazzi selvaggi erano sempre esistiti, non solo come corollario mitico alla necessità umana di recuperare quelle radici naturali, in qualche modo interrotte da ogni tipo di civiltà, ma proprio come evento di cronaca, come accadimento ciclicamente ripetuto e originato, per lo più, da difficoltà economiche, da momenti di crisi politiche e sociali che costringevano madri e famiglie a sbarazzarsi di figli diventati ingombranti. Leggendo saggi e cronistorie dedicati a questo argomento si può infatti osservare come questi eventi trovino una loro costante documentazione a partire almeno dal XIV secolo e abbiano, a tutt'oggi, numerosi riscontri. Cosa aveva allora di diverso il fanciullo dell'Aveyron? Perché di lui, più che di ogni altro caso, intellettuali e studiosi si sono occupati, a volte quasi con accanimento?

Nel corso del Settecento la riflessione filosofica si era interessata sopra ogni altro argomento allo studio dell'uomo e alle sue relazioni sociali. Quindi figure isolate e solitarie come i naufraghi, i pazzi, certi tipi di selvaggio o, per l'appunto, i feral children, acquisirono il significato di casi da laboratorio, diventando la pietra di paragone dell'uomo non solo isolato, ma, in qualche modo, dell'uomo allo stato puro, dell' homme naturel di cui Rousseau, e con lui altri intellettuali dell'epoca, avevano teorizzato.

Come osserva Sergio Moravia nella sua brillante introduzione ai saggi di Itard – il medico e pedagogo che più di tutti si occupò del giovane Victor – la stessa esistenza di queste singolari creature metteva in dubbio alcuni pronunciamenti fondanti dell'Illuminismo, in special modo attraverso tre punti chiave:

1) «in che misura era possibile considerare veri e propri uomini degli esseri privi addirittura della parola?»

2) «in che rapporto erano da mettere questi sauvages coi selvaggi parlanti e socialmente organizzati [...] che i viaggiatori andavano da tempo scoprendo in terre lontane?»

3) «come valutare il comportamento di questi individui e il loro rapporto da un lato con la natura e dall'altro con la società?»

Sarà bene mantenere presenti questi tre interrogativi perché le opere di Kipling e Malouf che prenderemo qui in esame possono anche essere intese come un tentativo di dare ad essi una risposta, prima a cento e poi a quasi duecento anni di distanza dall'apparizione del ragazzo selvaggio dell'Aveyron. Il piccolo, nudo, inerme Victor pone ancora queste mute domande a noi che lo osserviamo due secoli dopo e ancora fatichiamo a dare ad esse una risposta perché presumono lo scioglimento di tre nodi gordiani: il rapporto con il linguaggio – che è il rapporto con il Sé –, il rapporto con l'Altro e il rapporto con la Natura.


*



Quando Victor venne catturato ci si illudeva potesse testimoniare in breve tempo la sua esperienza alla società tutta. Il suo arrivo presso l'Istituto per i Sordomuti di Parigi fu salutato con grandi aspettative e curiosità non solo dalla comunità scientifica, ma dall'intera cittadinanza. Egli era l'argomento del giorno, ma la delusione fu, fin da subito, cocente.

Le comitive che si recavano in visita all'ultima curiosità offerta dalla capitale francese, convinte di poter contemplare l'essere umano al grado alfa della sua evoluzione, non si trovavano dinanzi la statua ancor priva di sensibilità, ma ricca di decoro, a cui aveva fatto riferimento Condillac nel suo Traité des Sensations. E nemmeno davanti al Bon Sauvage, libero dagli obblighi delle civiltà europee e, proprio per questo, considerato naturalmente felice e dotato d'una innata eleganza, ma un essere disgustoso. Che non si curava di sporcare il proprio letto dei suoi stessi escrementi, che riusciva a stento ad emettere, ripetendolo in continuazione, un solo orrido suono, la cui fisionomia era sempre contratta da tic nervosi e i cui occhi erano incapaci di soffermarsi su alcunché, sempre vagando per guardare tutto senza vedere nulla. Era dunque questo l'Uomo di Natura? A uno spettacolo così indegno si riduceva l'essere umano spogliato della sottile crosta della sua civiltà e della vita sociale?

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Pagina 103

Capitolo terzo

Il paese dei bambini perduti


Bad enough to lose a youngster for a day or two, and find him alive and well; worse, beyond comparison, when he's found dead; but the most fearful thing of all is for a youngster to be lost in the bush, and never found, alive or dead.

Joseph Furphy, Such Is Life


Se nel primo capitolo è stato necessario delineare il rapporto tra i ragazzi selvaggi e la società del Settecento francese e dell'Ottocento inglese allo scopo di cogliere in modo più compiuto la funzione che essi occupano nella narrativa di Kipling, per comprendere più pienamente il ruolo che destina loro David Malouf sarà indispensabile soffermarsi sul valore simbolico del lost child nella cultura australiana. Si noti come ci si serva qui di un'espressione diversa rispetto a quella utilizzata nella prima parte del nostro percorso. Laddove, in ambito europeo, ci si è avvalsi del termine feral child, qui sarà più opportuno parlare, appunto, di lost child.

In un'ottica illuministica si può fare infatti riferimento a fanciulli che, abbandonati dalla società, recuperano per essa un contatto primordiale, mentre la relazione instaurata dai primi coloni bianchi col territorio australiano, percepito come ostile e inaccessibile, non poteva consistere in un ritorno alla natura, ma nella scoperta di un luogo alieno dove non era possibile ritrovare se stessi, ma soltanto perdersi. La scomparsa del fanciullo o della fanciulla acquista anche in Australia non solo un senso storico-cronachistico, testimonianza della dura vita nel bush, ma si colora di un valore mitico-simbolico, opposto però a quello europeo, incarnando il primordiale impatto della comunità anglo-celtica con un luogo che solo dopo molto tempo si sarebbe potuto chiamare casa, patria, nazione.

Se per Rousseau la figura del ragazzo selvaggio rappresentava una possibilità di salvezza e liberazione, in chiave australiana questo mito implicava una minaccia al residuo legame con la civiltà britannica. Il bambino o la bambina perduti nel bush assumevano così il ruolo di perfetto emblema di un'identità incerta: sparire, essere inghiottiti dalla natura rappresentava l'oggettivazione di quel timore to go native che si proiettava sulle più giovani generazioni, quelle che non potevano ricordare la lontana madrepatria o che erano nate in Australia.

Ma forse la differenza più significativa tra le narrazioni, siano esse mitiche o scientifiche, riguardanti i ragazzi selvaggi europei e quelle che analizzeremo in questo nostro percorso, va individuata nelle modalità stesse dello smarrimento e della conseguente ricerca. Nei casi di Victor e di Mowgli ci troviamo dinanzi a fanciulli che, fin dalla più tenera età, sono diventati vere e proprie creature dei boschi riuscendo a sopravvivere pressoché autonomamente. Le reazioni di coloro che si dovrebbero addolorare della loro scomparsa, la famiglia e i genitori, finiscono assolutamente in secondo piano rispetto alla vicenda avventurosa di cui è protagonista il fanciullo o al percorso riabilitativo che ne è la più diretta conseguenza.

Come avremo modo di osservare la prospettiva è completamente rovesciata nel caso australiano. Non solo i fanciulli che si perdono nel bush sono destinati, nella grande maggioranza dei casi, a non sopravvivere al loro vagabondaggio, ma, salvo alcuni casi, l'enfasi dei racconti non è posta sullo sguardo infantile sperduto in una natura minacciosa e indecifrabile, ma preferisce indulgere sulla disperazione delle famiglie sconvolte da questo evento, spesso con esiti di straordinaria finezza psicologica e potenza narrativa.

Il mito australiano del fanciullo perduto diventa così un perfetto rovesciamento del suo corrispettivo europeo in cui non si parla, appunto, di una perdita, ma di una ritrovata sauvagerie. Qui, invece, la perdita dell'infanzia assume proporzioni devastanti assurgendo a simbolo di una privazione non solo familiare e individuale, ma collettiva e identitaria. In genere la morte o l'assenza dei fanciulli in letteratura costituisce la più perfetta esemplificazione della mancanza di fiducia nel futuro dell'epoca e della cultura che la esprime. Nel caso dell'Australia ottocentesca, invece, l'angoscia è raddoppiata dal fatto che non solo queste sparizioni provocano un'ansia profonda per la vita a venire, ma che nessun paese come questo ebbe una nascita altrettanto traumatica e un distacco altrettanto problematico dalle proprie radici. Il lost child australiano è quindi una figura che, come ogni fanciullo perduto, nega il futuro, ma, allo stesso tempo, esprime l'impossibilità di un ritorno al passato. Ed è forse questa, in ultima analisi, la principale differenza con il sogno dell' enfant sauvage europeo, per cui un ripiegamento su se stessi è in qualche misura possibile; in quanto in Australia il ragazzo che si inoltra nel territorio perdendo il contatto con il proprio malfermo punto di riferimento, è immediatamente inghiottito da uno spazio alieno che non gli lascia alcuna possibilità di sopravvivenza. Un ritorno a un contatto primordiale con la natura è negato, semplicemente perché quella natura non gli appartiene.

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