Copertina
Autore Bruno Barba
Titolo Un antropologo nel pallone
EdizioneMeltemi, Roma, 2007, Universale 31 , pag. 168, cop.fle., dim. 12x19x1,5 cm , Isbn 978-88-8353-539-0
LettoreLuca Vita, 2007
Classe sport , antropologia , scienze umane , scienze sociali
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Indice

  9 Prefazione

 15 Capitolo primo - Il calcio questo sconosciuto

    Cose strane e lontane: il mestiere dell'antropologo
    La parola e l'autorevolezza
    Il campo
    Tutto è relativo, anche il calcio
    Polifonie
    Riti di passaggio
    Spazio, tempo, corpo
    "Chi" è la palla? Sorte, destino, predestinazione

 35 Capitolo secondo - La passione

    Tifare e soffrire
    Squadre di cuore, squadre di cervello
    Il bambino che è in noi
    I linguaggi
    La virtù dei brasiliani
    Il piede al centro del mondo
    Dioniso contro Apollo
    Il calcio come visione del mondo

 55 Capitolo terzo - Il simbolo

    I rituali
    Le metafore
    La setta
    Il grande semplificatore
    La gerarchia
    Il tabù e la festa
    I ruoli
    Il portiere
    Gli altri attori
    Superstizione e autoironia

 81 Capitolo quarto - L'identità

    La razza
    Degenerato o campione?
    La rivincita meticcia
    L'orgoglio ferito
    Garrincha, l'idolo
    Tempo di Mondiali, tempo di pregiudizio
    Quando gioca lo stregone
    Integrazione, violenza, rivalsa
    Cosa c'entra la politica
    E le donne?

107 Capitolo quinto - Mitologie

    L'epica
    La letteratura
    Gli eroi
    I drammi
    Le dittature
    La gloria
    Frammenti di memoria

137 Capitolo sesto - La giustizia

    Le regole del gioco, oggi
    Sudditi
    Lo Stato nello Stato
    Moggi il "mago"
    Lezioni di democrazia
    L'arbitro e l'allenatore, i capri espiatori
    Il rito del rigore
    Tutto quanto fa spettacolo
    Verso un calcio meticcio

163 Bibliografia

 

 

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Pagina 9

Prefazione


Il calcio e l'antropologia. Mi accingo a unire due mondi che appaiono molto distanti e sento il dovere di chiarire la portata delle mie ambizioni. Intanto, devo respingere due (forti) tentazioni. La prima: scrivere tutto quello che so (o che credo di sapere) sul calcio. Tanti lo fanno, ma in una monografia antropologica non si scrive tutto ciò che si sa (o si crede di sapere). Si seleziona, si sottrae e alla fine ogni libro si risolve in una grande scontentezza, quasi in una sconfitta. Christa Wolf ha detto che "solo chi non ha talento porta tutto a termine".

Credo tuttavia che l'umiltà sia una dote, magari non innata, che ogni antropologo dovrebbe coltivare, come impegno... disciplinare.

La seconda tentazione è quella di cercare di esplorare tutto quel (molto) che non so. Voglio dire che alcuni simboli, metafore, discorsi verranno trascurati; certi per volontà, per spazio e per tempo; altri per incapacità. Alcune metafore appariranno scontate e già ascoltate (ma sicuramente non da una prospettiva antropologica); altre "forzate". Vorrei usare l'ironia del relativista (osservare gli altri per mettersi in discussione), vorrei che trasparisse, da questo lavoro, la sete di conoscenza, il bisogno di esplorare ogni campo, la curiosità che dovrebbe appartenere a tutti noi.

C'è un po' di Brasile in questo testo. Per tre ragioni fondamentali. La prima: se è vero che il calcio è nato in Inghilterra alla fine del secolo scorso, è pur vero che sono loro, i brasiliani, i maestri del futebol. Con cinque vittorie ai Campionati del mondo sono i leader incontrastati, la nazione più forte del pianeta. Hanno diritto a una visibilità maggiore. La seconda ragione: la costruzione dell'identità è un tema privilegiato per la ricerca antropologica e il Brasile, in questo senso, è una "miniera" e vanta una storia appassionante ed emblematica. Agli inizi del Novecento l'élite bianca voleva eliminare i simboli neri e meticci, quegli stessi simboli (il samba, il Carnevale, il calcio stesso) che sono diventati le rappresentazioni inconfondibili di un "Brasile meticcio", i suoi fiori all'occhiello. In un mondo che vede Stati e individui alle prese con il problema della propria identità, l'analisi dell'ascesa del calcio brasiliano può offrire una chiave di lettura interessantissima.

La terza ragione ha a che vedere con la mia storia personale: il Brasile è il "mio" campo di ricerca.

Come tutti i testi, anche questo è diviso in capitoli. La scansione può essere giudicata arbitraria, o peggio, confusa. Temi, metafore, spunti si intrecciano. Vi si troveranno continui rimandi e riferimenti. Del resto, se il calcio è davvero un "fatto sociale totale", che interessa mille aspetti ed è legato a tante sfaccettature del nostro mondo, questo difetto potrà apparire perdonabile.

Il calcio è un fenomeno "serio": è sport, business, arte; è violenza e possibilità di ascesa sociale; è dramma, ,è mito; è gioia di un paese intero e disillusione perpetua. È, anche, "Calciopoli". Ma è, soprattutto, uno straordinario contenitore di simboli. Eppure, noi che amiamo il calcio non cogliamo o non ci soffermiamo abbastanza sui loro significati, e chi non ama il calcio semplicemente ignora, trascura o minimizza questi significati.

Un'ultima annotazione: la grande passione "calcistica" mi ha preservato da un grave pericolo, comune alla maggior parte degli antropologi: la noia, il tedio, il rifiuto del campo. "Odio i viaggi e gli esploratori..." disse Claude Lévi-Strauss. E, da quanto risulta sui suoi diari, anche Bronislaw Malinowski, il padre dell'osservazione partecipante, non amava troppo né i nativi, né le proprie missioni... I campi, quelli di gioco, e quelli dell'antropologia, io li ho amati. Parlando dei suoi reportages di guerra, Ryszard Kapusciríski (2003, p. 44) afferma: "sono convinto di non poter né scrivere né parlare di qualcosa che non ho visto di persona, qualcosa che non ho vissuto e di cui non condivido i rischi". Sono stato un calciatore dilettante: sono sicuro che centinaia di testimoni confermerebbero che sono stato giocatore di non eccelse doti, ma che ho svolto il mio "lavoro" con serietà e applicazione. E per un antropologo alle prese con le scelte di metodo e la serietà delle intenzioni, questo non può che essere una garanzia.

Nel titolo che ho scelto c'è chi vorrà vedere l'eco del brillante libro di Oliver Sacks Un antropologo su Marte (1995), il cui tema è la difficoltà di comprensione delle emozioni umane, in questo caso tra un medico e una paziente autistica. Per altri, il collegamento più immediato sarà con il film-commedia L'allenatore nel pallone (1984), di Sergio Martini, con protagonista Lino Banfi. Non sarò io a scegliere, anche se un orientamento forse "nobiliterebbe" il mio lavoro, mentre l'altro sfiorerebbe la cultura trash degli anni Ottanta. Tutto ci sta in un fenomeno culturale e antropologico quale il calcio; anche l'incomprensione, l'ironia, la possibilità di andare davvero... "nel pallone". Perché in quella palla che rotola vi sono misticismo, immaginazione, inafferrabilità; ci sono verità e fantasie.

In questo testo non vi sono sicurezze, né sentenze. Ogni paragrafo di ogni capitolo potrebbe essere analizzato, esteso, discusso all'infinito. Volevo aprire un campo al dibattito, e stimolare il confronto.

Credo che il calcio sia una straordinaria occasione (persa) di fratellanza, conoscenza, studio dei popoli e delle loro culture. Che sia "importantissimo" per la nostra società, ma non perché consente visibilità, ricchezza, successo, ma per via della miniera di significati che racchiude. Potrebbe essere una palestra di umiltà e di bellezza, un esercizio di umanità e di godimento estetico. Invece, una misteriosa volontà di autodistruzione ce ne mostra la parte peggiore: la violenza, il razzismo, il business.

Il calcio, per me, è scoperta, curiosità, cultura; mi ha permesso di guardarmi dentro.

E trovo che in fondo il calcio e l'antropologia siano due modi affini e coerenti di vedere e concepire il mondo. Questa prospettiva non la cambierei con nessun'altra, il mio sogno sarebbe di condividerla con più persone.

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Capitolo primo

Il calcio questo sconosciuto


Cose strane e lontane: il mestiere dell'antropologo

Il "rito" del calcio. La "tribù" del calcio. I "miti" del calcio, le sue "divinità". E poi ancora e soprattutto, il "campo", ovvero il luogo dove accade tutto. Il calcio ha la propria epica, un'ascesa e una decadenza, le proprie caste e leggi. Si attribuiscono a uno "sport" e a una "passione" linguaggi, terminologie e simbologie che apparterrebbero in realtà a un altro mondo: l'antropologia. Un processo inconscio perché questa disciplina non ha mai studiato le dinamiche complesse che dominano il mondo del calcio. Anche se alcuni argomenti – come il tifo da stadio o il razzismo – che sfiorano le tematiche antropologiche sono stati sviscerati e trattati con attenzione dalla disciplina sorella – o sorellastra? (le due fingono di detestarsi) –, la sociologia. Questioni di metodo, anche se è difficile distinguere due discipline che si intersecano continuamente, che scambiano i propri oggetti di analisi, e che, in altre parole, dovrebbero lavorare unite e non in competizione.

L'antropologia nasce come "scienza delle società primitive": è figlia del colonialismo, dell'espansionismo e dell'etnocentrismo occidentale e si sviluppa contestualmente alla "scoperta" dell'Altro, nell'incontro e dall'incontro con l'Altro. Un Altro che durante l'Ottocento e la prima metà del Novecento gli antropologi andavano a studiare in tribù nascoste e lontane, esotiche. Oggi che "quelle" tribù e "quei" villaggi non esistono più, perché sempre più simili ai nostri, l'antropologia si dedica alle dinamiche di trasformazione, contaminazione, meticciato che attraversano tutte le società complesse.

Per questo l'antropologia è considerata un "sapere mobile", "sempre disposto a riformulare i propri parametri sulla base delle nuove esperienze suscettibili di produrre nuove interpretazioni" (Fabietti 1999, p. 8).

Mettendo in discussione il proprio etnocentrismo, le proprie certezze, le proprie abitudini e quindi il proprio way of life, questa scienza umana, romantica e dinamica allo stesso tempo, ha il merito di rendere famigliare ciò che appare estraneo e insolito (ricco di risvolti "misteriosi") ciò che sembra famigliare.

Osservando il funzionamento e le dinamiche di un gruppo religioso, ad esempio, ho appreso quante similitudini e comparazioni sono possibili, anche tra culture diverse; partecipando, per anni, ai "rituali" delle partite di calcio, in veste di protagonista o di spettatore, ho imparato ad apprezzarne la ripetitività, la "serietà", la sacralità.

Chiedersi dove sia andato il "buon calcio" di una volta" nel villaggio globale in cui viviamo non ha molto senso perché anche questo fenomeno partecipa della lotta globalizzazione-localismo, e non si sottrae a un'analisi "antropologica" sulle trasformazioni e le contraddizioni della nostra epoca. Il calcio "è cultura" perché la cultura è ovunque. Proprio osservando e raccontando queste contraddizioni e differenze culturali in un certo senso contribuiamo a costruire e produrre nuovi processi culturali; in questo libro cercherò di fare emergere gli aspetti che il calcio condivide con l'analisi antropologica: personaggi, ruoli, situazioni, dinamiche di trasformazione e simbologie.

Penso pertanto che la "lente dell'antropologo" abbia il diritto di indagare su fatti e processi che interessano il mondo del calcio. Una lente che possiamo anche ritenere parziale, personale, deformata, perché ogni fatto, come diceva Clifford Geertz (1973) è "interpretazione".

Il calcio è uno sport, uno spettacolo, una fede, una passione, un rituale. Può essere inteso come un teatro shakespeariano (il mondo come un teatro, il teatro come il mondo), nel quale si confondono storia e chimera, commedia e tragedia. Certamente il calcio è "anche un gioco" – sempre bene ricordarne anche questo significato – che serve all'uomo "animale" per irrobustire l'organismo, e addestra alle attività della sopravvivenza, come il combattimento, la caccia, la fuga e, in più, abitua alla cooperazione. Canalizza la forza fisica, mette ordine al caos della prima infanzia; insegna, in quell'arco fatidico dei novanta minuti, a rispettare le regole. Simula la realtà e allo stesso tempo permette di oltrepassarla grazie alla fantasia (un povero, uno zoppo, può sconfiggere il più forte); inverte lo status sociale, come il Carnevale (il piccolo che si fa re, e lo abbatte), ma allo stesso tempo insegna che ci sono cose che non si fanno; può essere "fine a se stesso" (nello sport il rapporto tra mezzi e fini è capovolto), ma è da sempre anche un fattore di ascesa sociale. È, ancora, tragedia – vige il concetto di catarsi collettiva –, è una sequenza narrativa soggettiva – a differenza di altri sport il dato statistico fatto di corner, possesso palla, tiri in porta, è ininfluente; è, come vedremo, "guerra" e religione", "identità" e "giustizia". C'è chi, come Thomas Eliot, ha visto nel calcio un elemento fondamentale della cultura contemporanea; Pier Paolo Pasolini lo identificò come un sistema di segni; poeti e scrittori, da Saba a Camus, da Soriano ad Arpino, a Galeano, hanno dedicato versi e pagine bellissime a eventi, personaggi, ruoli del football.

Il calcio è tutto questo e, ancora di più, è un "fatto sociale totale", come avrebbe detto Marcel Mauss, perché esiste un'interconnessione tra ogni gesto dello spettatore, del giornalista, dell'attore della recita domenicale e la realtà sociale cui appartiene. Specchio e insieme voce della società, il calcio condiziona la cultura da cui proviene e nello stesso tempo ne è condizionato, in maniera evidente. Perché il calcio brasiliano, ad esempio, è diverso da quello inglese? Perché nel calcio l'imitazione – di tendenze, tattiche, modi di "giocare" – non diventa mai schiavitù, ma al contrario è sempre creatività, apporto, "costruzione"? Borges ha detto che laddove un bambino fa rotolare un pallone, là ha inizio la storia del calcio. Una storia che si rinnova continuamente, spontaneamente, in ogni parte del mondo. Pertanto, anche parlando di calcio, è difficile quantificare il peso che sulla nostra identità ha l'aspetto culturale rispetto all'animalità che rappresentiamo: non sappiamo dove sia il limite "naturale", perché non esiste natura umana indipendente dalla cultura. I nostri geni hanno "lacune" informative che devono riempire, colmare con la cultura. Ma i confini tra ciò che ci è dato biologicamente e ciò che apprendiamo sono nebulosi, e sicuramente condizionati da interazioni molto complesse. Chissà quanto di istintuale ci è rimasto in quell'estasi che ci coglie nell'osservare il rotolare magico e misterioso di una palla e quanto invece ci condiziona il calcio che apprendiamo, studiamo, osserviamo, discutiamo in così tanti momenti della nostra giornata e della nostra vita.

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Il calcio come visione del mondo

Fu Jean-Paul Sartre a dire, forse per primo, che "il calcio è la metafora dell'esistenza". E ad Albert Camus, che fu portiere, viene attribuita la frase "tutto quello che so con maggior certezza riguardo a doveri e moralità della vita lo devo al calcio".

Non tutti sono d'accordo nell'attribuire al calcio questa dignità, e molti si accontentano di rilevare la "teatralizzazione" delle pulsioni umane. Lo stadio è, secondo questa visione, il luogo dell'urlo, dell'aggregazione sediziosa altrove vietata. Ho sempre trovato riduttivo, quasi irritante, liquidare la funzione del gioco del calcio quale "oppio dei popoli". Questo schema è stato applicato all'Italia fascista, all'Argentina dei generali, alla Juventus degli Agnelli, al Napoli di Maradona: si vinceva, non si parlava d'altro e si dimenticavano i (drammatici) problemi. Ma gli effetti di questa euforia sono momentanei, per lo più innocenti e non è vero che distolgano il popolo dalla sofferenza. Il calcio non ha mai funzionato più di tanto come strumento ideologico per distogliere la massa oppressa.

I pensieri di Sartre, di Camus, ma anche di Soriano, Galeano, Arpino mi confortano piuttosto a rilevare che il calcio può efficacemente rappresentare non soltanto identità e appartenenze, ma soprattutto "i valori fondamentali di una comunità umana" (Bromberger 1995, p. 137). Il calcio, come dice il poeta Carlos Drummond De Andrade, "si gioca nell'anima" e non soltanto nella società. Il calcio è "accettabile", persino comprensibile nella sua incertezza, perché è il campo della lotta, del confronto, della pluralità.

Lo scrittore americano William Faulkner ha detto che "la vittoria è un'illusione dei filosofi e degli stolti", ma io credo, ben più prosaicamente, che il calcio insegni a vincere senza sentirsi imbattibili. E che il merito individuale, la grinta, la voglia non contano nulla se non sono messi al servizio di altri; che comunque ognuno di noi deve rimettersi in discussione, giorno per giorno, perché c'è sempre un avversario "di turno": squadra, stato di forma, arbitro o sorte che sia.

Per confermare la "serietà" del calcio si possono chiamare altri testimoni. Il protagonista di Febbre a 90' di Nick Hornby, un professore tutt'altro che povero di spirito e sotto le cui vesti si cela l'autore stesso, è capace di ricordare gli avvenimenti della propria vita in funzione delle partite giocate in quel momento dal "suo" Arsenal. Credo davvero che il calcio possa fungere da "selezionatore di memoria": non trovo riduttivo, né umiliante il fatto che molti ricordino dettagli "calcistici" della propria gioventù più di quanto non ricordino successi scolastici, amicizie o fidanzate.

Il calcio, per intensità, vitalità, creatività, può anche fungere da godimento estetico. In questo senso di "calcio-arte", si colloca e lavora ai limiti dell'identità: quell'atleta che non "sembri" appartenere al calcio del proprio paese esprime un desiderio di libertà e di ribellione ai principi che condividiamo.

Al contrario, un calcio ipertradizionale che si conforma ai canoni della società di cui è espressione da un lato valorizza una spiccata identità antropologica, dall'altro è utilitaristico, pigro, conservatore.

Persino nei suoi difetti, il calcio è importante. Tifare per una squadra o per un'altra non è, come abbiamo visto, una semplice scelta. A seconda della squadra per cui si tifa, si "vedono" le cose in maniera diversa. Il torinista Gian Paolo Ormezzano è arrivato a scrivere, in maniera molto seria, Il vangelo del vero anti-juventino (2005): non è un esercizio di ostilità, ma piuttosto di denuncia dell'incomunicabilità tra due mondi. Se la poesia è degli afflitti, dice, non può appartenere alla Juve, che non è creatura "mistica o mitica".

Questa visione etica del calcio è quella che mi interessa e mi impressiona di più. Forse perché, come dice Bromberger (1995, p. 140),

mette a nudo, sotto forma di dramma caricaturale, l'orizzonte simbolico della nostra società: la trama di una partita, di una competizione, raffigura l'incerto destino degli uomini nel mondo contemporaneo. E la combinazione delle leggi che costituiscono il genere dà a questa incertezza un senso accettabile da tutti.

Il calcio, si dice, ci insegna a vincere, a pareggiare, a perdere: ma sarebbe una frase vuota se non percepissimo che in realtà ci insegna soprattutto che vi è una "conclusione", una "fine", una "morte" simbolica. Come termina la vita, di cui è metafora, la partita – o il campionato – si conclude con un risultato inappellabile. A differenza della vita, il calcio prevede un giudice – l'arbitro – per cui ci possiamo avvicinare a una percezione di giustizia. Mai completa, peraltro, e sempre discutibile. Mentre però tutti sappiamo che è illusorio aspettarci risultati "giusti" nella vita – anche se con il nostro comportamento, ispirato dalla morale o dalla religione, cerchiamo di approssimarci a "qualcosa di meritato" – nel calcio questa giustizia, ovvero il risultato giusto, la si pretende. Con l'aiuto dell'arbitro (ma non l'ammetteremo mai, perché l'arbitro mai premia, sempre punisce) o della sorte perché abbiamo lottato fino all'ultimo ("fino al novantesimo"), e quel risultato "ce lo siamo meritati". Ai Mondiali del 1986 Diego Maradona segnò un gol di mano all'Inghilterra, chiaramente irregolare. Disse che era stata "la mano de Dios" ad aver guidato quel pallone. Per molti, non solo inglesi, quella fu una vera bestemmia. Pochi minuti dopo, Diego concluse a rete una delle più belle azioni osservate a un Mondiale, segnando quello che venne definito dall'enfasi del telecronista argentino "il gol più bello della storia". Quel gol divenne oggetto di dispute filosofiche. C'è chi scomodò il concetto di "giustizia divina" (il gol del raddoppio avrebbe dimostrato il gradimento del Dio del calcio, che voleva ripagare gli argentini, sconfitti dagli inglesi nella guerra Falkland-Malvinas); chi proclamò l'inesistenza di Dio (un Dio giusto non avrebbe permesso quel miracolo).

Ma da qualunque ottica lo si osservi, il calcio ci porta comunque a riflettere sull'ingiustizia imperfetta del mondo.

Chi si siede davanti a un televisore o si reca allo stadio pensa di desiderare soltanto la vittoria della propria squadra. Non lo percepirà direttamente e immediatamente, ma in realtà, in quei novanta minuti, non vedrà semplicemente una partita. Mediterà sulla fragilità umana, sull'alternanza di felicità e sventura che contraddistingue la vita di tutti, sui drammi e sulle gioie della nostra esistenza. Avrà modo di verificare la tirannia del fato, e che esiste la possibilità di batterlo, o per lo meno combatterlo. Come si può affermare ancora che il calcio è "soltanto un gioco?".

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Il portiere

È il sacerdote di un culto particolare, contraddittorio e anche misterioso. La porta, con i suoi "legni", i suoi pali, divide il tutto e il niente, separa il luogo dell'estasi da quello della frustrazione, lo spazio sacro da quello profano. I pali rappresentano infatti un'attrazione fatale per i calciatori, che non per nulla si esercitano a colpirli, in allenamento, per affinare la precisione: uno spot famosissimo dell'estate 2006 vedeva protagonista Ronaldinho alle prese con ripetuti e falsi tentativi di colpire la traversa. Ma si è mai visto un cecchino esercitarsi a colpire il margine anziché il centro del bersaglio? I legni rappresentano, anzi "sono" la frustrazione e l'impotenza.

Ancora, la traversa è come il profumo della donna desiderata, l'oggetto (una cintura di castità?) che impedisce o permette l'orgasmo del gol.

I pali e la traversa ostacolano comunque il progetto della squadra e insieme costituiscono la "sentinella simbolica" che divide il certo dall'incerto, il prevedibile dall'inesplicabile.

Il portiere è quindi il sacerdote di questo tabù, l'unico giocatore che può praticare la massima, estrema e scandalosa inversione del gioco del calcio: toccare la palla con le mani. Quel che per tutti è proibito, e, nel caso, sanzionato con "la massima punizione", ovvero il calcio di rigore, è obbligatorio per un portiere. In nome di una responsabilità soprannaturale, che gli permette tutto: c'è in gioco la "verginità", l'onorabilità della squadra, ovvero di una famiglia simbolica.

Il portiere cerca in qualche modo di annullare, di vanificare quel che tutti gli alti giocatori cercano e in questo ruolo sta il suo paradosso. Il suo obiettivo è opposto e disperato, perché contrastato da tutti: dai tifosi che vogliono il gol, dagli avversari che cercano di segnarlo e persino da alcuni scellerati difensori, capaci di memorabili "autogol". Vi era un giocatore del Cagliari, Comunardo Niccolai, che è diventato soggetto di brani letterari tanto era leggendaria la sua ostinazione (inconscia) nel tradire il proprio portiere.

La partita perfetta, per un portiere, è quella che non piace a nessuno. Per questo il portiere è solo, è come se stesse "contro" il gioco. È fuori dal sistema, è un ribelle "ipnotico", sentimentale e romantico, nonostante il suo attaccamento alla terra, di cui si infanga, più di tutti. Dove c'è lui non cresce l'erba, eppure "vola", si libra in aria, è un "giaguaro" (Castellini), un "ragno nero" (Cudicini); un gatto, una pantera. Soldato, ma diverso da tutti gli altri: è come il soldatino di piombo della favola, semmai, forte e impavido di fronte a ogni avversità, sottoposto al "bombardamento avversario" e baluardo. E più un portiere ha modo di dimostrare la propria forza, più si segnala la debolezza della squadra. Come un medico di fronte ai malati terminali, quella vicinanza con la linea del gol gli rende fatalmente "familiare" il limite con la morte sportiva che è il gol subìto. Può quindi essere il Salvatore, perché può salvare la sua squadra dall'agonia e quindi dalla sconfitta bruciante, dalla fine. Se cade lui, finisce tutto: "il portiere caduto alla difesa, ultima vana (...)" diceva Umberto Saba.

Anche l'abbigliamento lo rende "diverso". Un tempo era inconfondibilmente vestito con una tetra maglia nera che racchiudeva un incredibile, inconfessabile segreto: il portiere è, in fondo, un esibizionista passivo, un uomo temerario e insieme schivo, pazzo e tremendamente razionale; quasi sciatto, perché il suo compito è il più odioso di tutti: privare gli uomini della gioia del gol. Poco conta che questi siano calciatori o tifosi avversari, il suo è comunque un mestiere in negativo, un ruolo di polizia, di castrazione, di privazione.

Oggi certe maglie multicolori sembrano renderlo ancora più stravagante, ma il portiere rimarrà comunque e sempre un personaggio a sé stante, a prescindere. Sempre indispensabile e insieme liminale. Un giocatore sì, ma "diverso", mai o quasi mai (il sovietico Jascin unica eccezione) premiato con il Pallone d'oro al miglior calciatore europeo. Classico e introverso, felino e unico, come il suo numero Uno. Coraggiosissimo, ma di un coraggio diverso rispetto a quello degli altri giocatori: nessun portiere avrà mai paura di parare un calcio di rigore. Perché "non ha niente da perdere": ha già perso tutto, tranne l'onore.

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