Autore Walter Barberis
Titolo Storia senza perdono
EdizioneEinaudi, Torino, 2019, Vele 153 , pag. 92, cop.fle., dim. 10,5x18x0,8 cm , Isbn 978-88-06-24248-0
LettoreGiangiacomo Pisa, 2019
Classe shoah , storia criminale












 

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                                Quando ho scritto Se questo è un uomo ero
                                convinto che valesse la pena di documentare
                                queste cose perché erano finite. Adesso non
                                sono piú finite: bisogna parlarne di nuovo.

                                                           PRIMO LEVI, 1973



«La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace». In questa affermazione di Primo Levi , pulita e precisa come sempre, sono gli aggettivi che fanno riflettere. Perché sottolineano tutta la aleatorietà dei nostri sforzi per ricordare avvenimenti e tempi trascorsi; e perché sottraggono a ogni meccanismo fisico o psichico la possibilità di una esattezza, cioè di una verità che è difficile da scoprire e da comunicare.

Levi, divenuto con gli anni testimone eccellente, oltre ogni supposizione originaria, sapeva bene che qualsiasi ricerca pretende di giungere alla verità, in una tensione costante quanto vana. O almeno, parzialmente vana. Anche i matematici più rigorosi, anche i metrologi, devono aggiornare i loro calcoli, rettificare una rotta, verificare una misura. Figurarsi le persone che vogliano ricordare una esperienza vissuta in un laboratorio irripetibile. E cosí carico di conseguenze traumatiche.

E, tuttavia, la memoria è indispensabile, anche nella sua fragilità; è materia di prova, non esclusiva, neppure decisiva, ma necessaria. Nel caso della Shoah imprescindibile e terribile, fondamentalmente utile e al tempo stesso instabile.

Fare storia, in questo caso, cioè capire cosa sia successo e come e perché, è stato ed è talmente difficile che persino i modi con cui è stata riattivata la memoria hanno avuto una loro storia, dei momenti diversi e successivi, con i loro relativi perché.


È noto che alla fine della guerra, per quasi un decennio, a prevalere fu il silenzio.

Per molte ragioni.

[...]

La memoria fu da subito quella della Guerra di liberazione. Quella di coloro che potevano riprendere voce in un contesto che rapidamente era diventato repubblicano e regolato da una lungimirante Costituzione democratica. La letteratura ne era buona testimone. Con rarissime eccezioni, i racconti dei sopravvissuti dai Lager furono considerati un grumo memoriale informe, un doloroso rendiconto di un danno collaterale della guerra; esperienze tutte uguali, tremende, ma senza venature epiche capaci di contendere l'attenzione del pubblico alle prove letterarie dei resistenti. Si pensi a Levi, per l'appunto, trascurato da Pavese, da Vittorini, da Natalia Ginzburg, e da Giulio Einaudi naturalmente. Frainteso e respinto, ricondotto a un suo angolo, mentre il grande spazio e le luci di scena esaltavano il giovane Calvino, e a seguire Cassola, Pratolini, Viganò, Meneghello, fino a Fenoglio e oltre. Anche chi aveva indossato la camicia nera riceveva l'onore delle armi e il riconoscimento di una ragione, da Giuseppe Berto a Giose Rimanelli. In fondo, quella generazione aveva vissuto la difficile esperienza della scelta, e il minimo scarto delle storie familiari o locali aveva determinato l'appartenenza alla parte buona o lo scivolamento in quella cattiva. Vincitori e vinti riportavano comunque l'aria di momenti esaltanti, crudeli, fratricidi; ma emozionanti e gonfi di significati. Il vento che soffiava era quello. Persino fra i reduci dai Lager, quelli riconosciuti come politici, quelli di Mauthausen, mettevano in ombra i salvati per caso, gli ebrei e basta, quelli di Auschwitz.

Come collocare il lamento dei pochi superstiti di uno sterminio epocale, senza eroi riconoscibili e con una massa imprecisabile di vittime? Come fare a dare senso all'aria stagnante che spirava dai campi dove avevano trovato la tortura e la morte buona parte degli ebrei d'Europa? I nazisti e i fascisti avevano perso. Era un'ottima premessa per guardare avanti e non soffermarsi sulle piú varie e opposte recriminazioni.

In fondo, anche il nemico aveva cambiato volto e simboli; e quello era adesso il terreno su cui contendere le sorti del mondo. Che avessero preso Berlino e lasciato sui campi di battaglia venti milioni di morti aveva ormai poca importanza; i sovietici erano i nuovi, vecchi nemici della democrazia occidentale, e la loro storia evocava sí la suggestione della rivoluzione proletaria, ma anche e soprattutto agli occhi dei piú, una povertà diffusa e l'aria gelida e sinistra dei gulag siberiani. Da subito, o comunque ben presto, l'ombra dell'orso russo poteva ben dirsi analoga, nella categoria generalizzante e relativista del totalitarismo, a quella dell'aquila nazista. Vi era del male non solo nelle file dei vinti; anche i vincitori avevano storie da non raccontare, capi e comprimari da dimenticare.

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[...] Neppure gli storici in quegli anni Sessanta avevano ben messo a fuoco la complessità della trama che aveva costituito il terreno del complotto antisemita, della adesione pressoché di massa al razzismo antisemita, alle politiche tedesche e non tedesche che avevano tollerato o incoraggiato la vulgata antisemita, alle teorie pseudoscientifiche che avevano corroborato l'eutanasia come principio igienico necessario. Perché tutto questo coacervo di questioni aveva portato senza ostacoli gli ebrei ad Auschwitz e a Treblinka? Perché vi erano stati tanti Stangl e Höss? Perché tante persone comuni avevano potuto trasformarsi in bestie sanguinarie in Germania e altrove nel cuore dell'Europa, presunta madre della piú alta fra le civiltà? Perché le Chiese, con rare eccezioni, non avevano alzato una mano e forse neanche un dito? Perché la resistenza a quel disastro aveva visto solo individui, coraggiosi e destinati alla sconfitta? Quei perché e altri non meno importanti per la salute delle società che avevano ritrovato un cammino di pace stentavano ad avere risposte. Né si poteva chiedere alla vittima portatrice della sua sventura anche una spiegazione che andasse troppo oltre l'altezza del suo sguardo, già sottoposto a immagini di rara forza distruttrice.

L'autorità del testimone, la sua verità, erano indiscusse e ormai indiscutibili. Ma cominciava ad avvertirsi, anche se non era ancora cosí chiaro, che la memoria non poteva surrogare la storia. Anche una memoria che prendeva ad allenarsi, alle prese con un uditorio comprensivo e amichevole, e finalmente solidale. Anche una memoria curata, presa dal verso giusto, incoraggiata e protetta.


Il fatto è che allora si stentava a capire che la memoria, insieme alla sua necessaria utilità, non poteva andare oltre la dimensione individuale. Si credeva e si voleva credere che fosse di per sé sufficiente a dare conto delle cose avvenute; anzi, che non vi fosse uno strumento migliore per descrivere la storia, che poi veniva rarefatta e anestetizzata nei libri, ridotta a piccola didascalia scolastica.

Eppure, la stessa memoria di altri fatti meno complessi della Shoah, la storia della Resistenza ad esempio - pur prescindendo dalle angolazioni politiche e ideologiche che chiamava in causa -, non poteva essere resa con efficacia se affidata alla sola memoria. Il contadino siciliano che aveva visto gli americani giungere nell'isola nel '43 aveva immagini immagazzinate nella sua memoria ben diverse da quelle di un impiegato romano, di un operaio torinese o di un portuale genovese. Nelle stesse settimane, quei tanti soggetti avevano visto cose assai diverse, provato paure e momenti di sollievo del tutto differenti. Nell'autunno del '43, nel corso del '44, nella primavera e nell'estate del '45. Mentre Sant'Anna di Stazzema bruciava e a Boves si moriva, altrove in Italia si godeva di una libertà restituita dagli alleati; una libertà che nelle grandi città del Nord si sarebbe conquistata con le armi impugnate da gente comune. Quali memorie allora e per quale storia? Era chiaro che la storia dell'Italia liberata dal fascismo e dai nazisti avrebbe dovuto avvalersi di tante memorie per articolare una spiegazione fatta di tessere diverse, soprattutto molto numerose e difficili da ricomporre in un quadro d'insieme significativo per tutti.

Figurarsi la Shoah, un flagello europeo piú pericoloso e mortale della peste, piú sottile e insinuante di qualunque morbo epidemico e più complicato da capire di qualunque storia precedente. Senza la memoria di chi aveva visto e patito - aveva ragione Wiesel - non si sarebbe arrivati da nessuna parte; ma forse anche, con quella sola memoria, non si sarebbe riusciti a far combaciare le tessere del mosaico. Il male ha sempre cause molteplici, persino remote in questo caso, anche se si manifesta con la rapidità e la micidialità di un colpo di fucile. L'occhio non riesce neppure a vedere la traiettoria della pallottola; lo sguardo può fermarsi soltanto sulle conseguenze, sui cadaveri, sulle carni ferite, sulle menti sconvolte di coloro che sono stati colpiti.


È la storia, dovrebbe essere la storia, una inchiesta con l'onere della prova, una spiegazione inconfutabile e comunemente accettata da una comunità scientifica e da ogni persona raziocinante, che deve sapersi avvalere delle testimonianze, renderle necessarie, fra loro complementari e dunque significative.

[...]

Il fatto è che memoria e storia non sono la stessa cosa, anche se l'una viene spesso intesa come sinonimo dell'altra. Poiché la memoria, quand'anche riesca a trasformarsi in una sensibilità collettiva e a delineare il tratto identitario di una comunità, rimane un frammento inesorabilmente individuale e instabile, bisognoso di mani capaci di liberarlo dalla sua angustia essenziale e di ripulirlo da tante inevitabili scorie. La memoria fornisce delle tracce, indica delle piste investigative; la storia si propone - e dovrebbe - risolvere il caso, identificare i colpevoli, svelarne i moventi, spiegare ciò che è avvenuto, come e perché.

Infatti, il problema di una corretta interpretazione della Shoah, cioè anche di un efficace antidoto contro l'affiorare del negazionismo, si sarebbe posto proprio negli anni a venire, quando una abbondanza di testimonianze, di scritture, di trattamenti letterari, teatrali e cinematografici avrebbe dato luogo a una comunicazione del tema tanto utile e benemerita quanto, non di rado, superficiale e fuorviante. È un dato di fatto che la sovraesposizione non è una buona esposizione.

Primo Levi ne era talmente consapevole che avvertiva i suoi lettori del rischio di rimanere impigliati nelle memorie, quelle ormai di tanti e anche le sue. Introducendo I sommersi e i salvati, sul ciglio della sua ultima riflessione sul Lager, avrebbe scritto: «Questo libro è intriso di memoria: per di più di una memoria lontana. Attinge dunque ad una fonte sospetta, e deve essere difeso contro se stesso». Ma la sua, non a caso, era una voce rara, che rivelava una onestà intellettuale e una intelligenza anche piú rare.

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In una prima direzione, storiografica, occorre dire che la testimonianza di un criminale, di un traditore, di un delatore è quasi sempre altrettanto utile e importante di quella di una vittima o di un osservatore partecipe della sorte della vittima. Illustra meccanismi abietti e disgustosi, ma spiega come sia stato possibile che tante persone si siano adoperate per collaborare con i nazisti e i fascisti; senza di loro, i loro infimi gesti, il loro opportunismo malato, difficilmente si spiegherebbe l'efficacia dell'organizzazione nazista e l'efficienza della deportazione e dello sterminio. Sono loro, gli antisemiti naturali, i razzisti per convinzione o per ignoranza, gli agenti delle retrovie che hanno oliato la macchina della Shoah. Le loro dichiarazioni sono rare. Per ovvi motivi, per timore di incappare in una improbabile giustizia o comunque in una sanzione pubblica, o piú semplicemente per darsi una giustificazione consolatoria, costoro tacciono. Ma se parlano, restituiscono visuali preziose. Non meno di quelle dei nazisti sul campo, anch'essi piú o meno neri, feroci per sadismo o per ottusità; ubbidienti per tradizione, per conformismo o per paura; tutti, a distanza di tempo, convinti della liceità dei loro gesti in quei contesti e in quei tempi trascorsi: dunque, in pace con la loro coscienza e intimamente assolti prima di ogni giudizio, sia di un tribunale sia della pubblica opinione. Queste voci disturbanti, odiose, raccontano storie che, al di là della malafede, rimangono indubbiamente utili. Si impara comunque, non solo dalle vittime, ma anche dai loro persecutori. In questi casi, spesso la sincerità è involontaria; anche la memoria oscurata e amputata dalla menzogna, nella dichiarazione lascia trasparire particolari illuminanti. Senza un avvocato, il reo dice quasi sempre cose sconvenienti per lui, anche quando voglia assumere una linea difensiva che crede efficace. Eichmann voleva riscattare la sua frustrazione di fallito, socialmente e culturalmente, dandosi la patente di «specialista» di trasporti. Voleva affermare la sua capacità di dialogo con le comunità ebraiche, il suo desiderio di dare soluzione «politica» alla questione ebraica. Ma le sue parole, lasciate a se stesse dal suo difensore, aprivano uno squarcio nella tela nerissima sulla quale si stagliavano le figure dei nazisti di prima grandezza, i geni del male. Che lui rappresentasse e rivelasse la «banalità del male» - di là dalla discutibilità della formula - aveva un'importanza fondamentale: le sue parole, intonate a uno scarno gergo burocratico, illustravano quanta povertà di pensiero, di moralità e di umanità avesse agito nel passaggio da un delirio ideologico a uno sterminio pianificato. Erano parole che facevano capire come e perché tanta gente comune avesse complottato, collaborato, o anche solo consentito, che si procedesse allo sterminio degli ebrei.


Ma vi è un'altra questione, non storiografica. Come spesso accade, sono proprio queste persone che a distanza di tempo invocano la chiusura non soltanto dei procedimenti giudiziari, ma anche dei tribunali della coscienza collettiva, ovvero un oblio confortante per tutti, lenitivo per chi ha patito e per chi ha agito. Quasi sempre, le loro voci stonate sono accompagnate dal coro dei tanti che non vogliono essere disturbati da questi discorsi, dalle elaborazioni dei lutti che non sentono propri, i tanti che desiderano rimanere indifferenti e intatti da immagini e parole inquietanti. Occhio non vede, cuore non duole. È un principio di assoluta bassezza morale, ma è tipico di platee enormi di persone che pretendono di non essere chiamate ad alcuna responsabilità. Come sempre, lo sguardo retrospettivo induce i criminali a chiedere la conciliazione con le vittime. E anche nobili principi religiosi vengono chiamati in causa per sostanziare nuove forme di oblio. I tempi esigono talvolta che si proceda al «perdono». Per quale ragione una vittima dovrebbe concedere un «dono» al suo assassino rimane misterioso. Certo, non possiamo ignorare che il perdono sia un elemento altissimo, moralmente assai degno, di chi voglia approcciarsi con tutto il suo bagaglio di fede trascendentale e provvidenziale nei confronti del suo prossimo peccatore e cattivo. Ma solo il Dio della Bibbia perdona, può perdonare. Chi altri ha diritto di farlo, con quale autorità? Scendendo in un contesto umano, dove la provvidenza non parrebbe aver agito con misericordia, per quale motivo una vittima scampata alla Shoah, o i pochi parenti dei molti sterminati, dovrebbero concedere un «per-dono» ai loro assassini? Il perdono è la piú alta forma di amnistia; e la amnesia è la sua diretta conseguenza. Infatti, chi ha chiesto perdono, in genere, ha soprattutto desiderato la cancellazione della sua colpa, o quanto meno il suo oscuramento. Cosa può guadagnare la società dall'occultamento pacificatore del suo torbido passato? Il batterio portatore di peste è sempre vivo e ogni azione di bonifica non è solo opportuna, è necessaria. L'igiene è la condizione per non ammalarsi. I vaccini sono indispensabili. La vita deve difendersi dalla morte.

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In Francia, il villaggio di Oradour, raso al suolo e incendiato dai nazisti insieme con i suoi 642 abitanti, non è mai stato ricostruito. È luogo di visita, è momento di riflessione, di rivisitazione di un passato che si allontana giorno dopo giorno; è un museo a cielo aperto che ha lo scopo evidente di sollecitare una memoria collettiva, fatta anche di reperti materiali, di segni concreti, oltre la voce e la scrittura. Ma senza una guida opportuna, un quadro narrativo ausiliario, nuovamente il richiamo a un'emozione lascerà in ombra i kepí di quei gendarmi francesi che collaborarono con i nazisti; e anche la resistenza armata di coloro contro i quali scattò la rappresaglia. E noi sappiamo che questi sono ancora problemi aperti: se cioè le rappresaglie fasciste e naziste non fossero anche da imputare alla temerarietà dei resistenti, responsabili della reazione. Sappiamo quanto siano ancora vivi il desiderio e la volontà di relativizzare i ruoli delle parti in campo, e come in fondo continui a essere confortevole il pensiero che un opportuno compromesso poteva costare la vita di pochi per salvare quella di molti. C'è ancora la sensazione che «un buon uso del tradimento» potesse essere il minore dei mali; e che resistere sia stato un pericolo non solo per chi resisteva, ma anche per chi gli stava attorno. Tradotto in termini meno evasivi: si sarebbe potuto lasciare che gli ebrei venissero deportati verso lo sterminio senza mettere a rischio la pelle e i beni di tanti bravi francesi, o italiani o di altri di qualche altro Paese. Ma questa è proprio una lezione che non possiamo accettare né affidare passivamente ai luoghi. A nessun luogo; neppure ad Auschwitz, che da un lato è diventato negli anni meta di un pellegrinaggio significativo di una «religione civile» universale; dall'altro, con i suoi milioni di visitatori, ormai a rischio di diventare uno dei tanti luoghi «obbligati» del turismo di massa: quello che oggi include, nel pacchetto del viaggio a Cracovia, gli esili resti del campo di sterminio, la miniera di sale di Wieliczka e la Dama con l'ermellino al Castello di Wawel.

L'abuso della memoria non è meno dannoso di un cattivo uso della storia. E la banalità degli insegnamenti non è meno pericolosa di quella del male da cui dovrebbe mettere in guardia. Sarebbe bene non dimenticare che il negazionismo ha alzato la voce proprio dopo che la serie televisiva Olocausto aveva ottenuto una grande platea di spettatori, «cioè dopo che la spettacolarizzazione del genocidio e la sua trasformazione in puro linguaggio e puro oggetto di consumo di massa» aveva già incanalato immagini orribili in un processo di comunicazione industriale. Con effetti al tempo stesso emozionanti, quindi repulsivi, e infine anestetici. Come sempre, l'eccesso di luce abbaglia e riduce gli occhi a una fessura.

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