Autore Alessandro Barbero
CoautoreAlessandro Portelli, Alberto Mario Banti, Lucy Riall, Andrea Graziosi, Emilio Gentile, Alessandra Tarquini, Anna Foa, Salvatore Lupo
Titolo Romanzi nel tempo
SottotitoloCome la letteratura racconta la storia
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2017, i Robinson Letture , pag. 210, ill., cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-581-2916-6
PrefazionePaolo Di Paolo
LettoreGiovanna Bacci, 2018
Classe critica letteraria , storia , storia letteraria , storia sociale












 

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Indice



Per cominciare
    di Paolo Di Paolo                                           VII


Napoleone e l'arte della guerra.
A partire da Guerra e pace di Lev Tolstoj
    di Alessandro Barbero                                         3

Schiavitù e razzismo.
A partire da La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe
    di Alessandro Portelli                                       33

Interni borghesi.
A partire da Madame Bovary di Gustave Flaubert
    di Alberto Mario Banti                                       59

Garibaldi in Sicilia.
A partire da Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
    di Lucy Riall                                                79

La macchina del terrore.
A partire da Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn
    di Andrea Graziosi                                           93

Il disfacimento dell'Occidente.
A partire da Tropico del Cancro di Henry Miller
    di Emilio Gentile                                           127

La Resistenza tra mito e realtà.
A partire da Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio
    di Alessandra Tarquini                                      157

Ebrei sionisti e partigiani.
A partire da Se non ora, quando? di Primo Levi
    di Anna Foa                                                 175

La mafia americana.
A partire da Il padrino di Mario Puzo
    di Salvatore Lupo                                           193


Gli autori                                                      209


 

 

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Alessandro Portelli



Schiavitù e razzismo.
A partire da La capanna dello zio Tom
di Harriet Beecher Stowe



Un magazzino di schiavi. Forse per alcuni dei miei lettori queste parole evocheranno visioni di un luogo orribile. Immaginano un covo sudicio, buio, un orribile tartarus informis ingens cui lumen ademptum [«immenso abisso senza forma e senza luce»: Eneide, 3, 658]. Ma no, ingenuo amico: al giorno d'oggi gli uomini hanno appreso l'arte di peccare con finezza ed eleganza, in modo da non offendere gli occhi e i sensi delle persone perbene. La proprietà umana tira sul mercato; e perciò è ben nutrita, pulita, curata e ben tenuta, in modo che arriva al mercato lucida, forte e scintillante. Un magazzino di schiavi a New Orleans è una casa che da di fuori non è diversa da tante altre. Tenuta in ordine, e dove ogni giorno si possono vedere, allineati sotto una specie di tettoia all'esterno, file di uomini e donne che sono lì come insegna della proprietà venduta all'interno.

Sarete cortesemente pregati di entrare e vedere, e troverete una quantità di mariti, mogli, fratelli, sorelle, padri, madri e bambini piccoli, in vendita «separatamente o a lotti secondo la convenienza dell'acquirente». L'anima immortale, un tempo riscattata col sangue e il dolore dal Figlio di Dio, quando la terra tremò e le rocce si aprirono e le tombe si spalancarono, può essere venduta, affittata, ipotecata, data via in cambio di droghe o tessuti, secondo le fasi del mercato o il capriccio del compratore. [...]

I venditori di merce umana si impegnano in modo scrupoloso e sistematico ad incoraggiare rumorosa allegria fra di loro, in modo che anneghi il pensiero e li renda insensibili al loro stato. L'addestramento a cui è sottoposto il negro, dal momento in cui è venduto nei mercati del Nord fino a quando arriva al Sud è sistematicamente inteso a renderli induriti, istupiditi e bestiali. Il mercante di schiavi li raduna in Virginia o in Kentucky, e li porta in qualche posto adatto e sano – spesso una stazione climatica – per ingrassarli. Qui vengono nutriti adeguatamente ogni giorno, e siccome alcuni tendono alla malinconia c'è sempre un violino che suona fra loro e sono costretti a danzare tutti i giorni; e chi rifiuta di mostrarsi allegro – chi ha nell'animo il pensiero della moglie, dei figli, della casa, troppo pressanti per essere lieto – è segnato come riottoso e pericoloso, e assoggettato a tutti i mali che gli può infliggere un uomo del tutto irresponsabile e indurito. Gli viene imposta un'aria vivace, sveglia e di buon umore, specialmente davanti ai compratori, sia per la speranza di trovare così un padrone migliore, sia per la paura di tutto quello che il mercante gli può fare se risultano invendibili (pp. 282-283).


«Così questa è la piccola signora che ha causato questa grande guerra»: così pare abbia detto Abraham Lincoln incontrando Harriet Beecher Stowe , l'autrice della Capanna dello zio Tom. Un libro strano, un libro proverbiale – l'espressione zio Tom è diventata un luogo comune – e contemporaneamente sconosciuto; un libro che è stato forse il romanzo più letto nella storia della letteratura mondiale (era fra l'altro il romanzo preferito da bambino di Lenín e ha inciso un po' sul suo senso di giustizia); ma anche un libro praticamente diventato quasi illeggibile, perché il suo problema è anche il fatto che si fonda su un'idea della letteratura che è diventata obsoleta, e cioè che la letteratura non è un universo a sé, un'icona di parole che risponde solo a dinamiche interne, ma è qualcosa che agisce sul mondo, è una parte del mondo che ha come obiettivo quello di cambiarlo. E questa è una idea che – partita dal New Criticism e arrivata ai decostruzionisti – risulta oggi veramente insopportabile. Invece noi sappiamo benissimo che la Guerra civile americana non si è fatta per abolire la schiavitù, ma che la schiavitù è stata la causa della Guerra civile e che il romanzo di Harriet Beecher Stowe ha costituito le basi morali di questa guerra che di morale aveva ben poco.

Ora, il brano citato ci dice qual è la definizione di schiavitù: schiavitù vuol dire proprietà, non lo sfruttamento, ma il possesso dell'uomo sull'uomo. C'è un episodio in La capanna dello zio Tom in cui un gruppo di schiavi, più o meno ben nutriti per essere immessi sul mercato, viaggia su un battello che naviga sul Mississippi: un signore di buon cuore è un po' turbato dal fatto che sono tenuti in catene e dice al mercante: ma perché li trattate così? E il mercante gli risponde: questo è un paese libero, quest'uomo è mio e ci faccio quello che mi pare.

Basterebbe questo scambio di battute per metterci in guardia su come trattiamo questo romanzo. Perché quello che si dice qui è che la grande rivendicazione americana – «questo è un paese libero» – si regge sulla schiavitù, dal momento che la schiavitù è un'applicazione del principio fondante delle società mercantili, cioè la proprietà privata. Anche negli anni di Lincoln, perché la schiavitù andava benissimo economicamente, la produttività degli schiavi si era moltiplicata grazie a strumenti sempre crescenti di violenza, di oppressione, sfruttamento, quindi il cotone era il prodotto fondamentale dell'economia degli Stati Uniti. Perciò la Guerra civile non ebbe origine dall'abolizione della schiavitù, ma s'innescò inizialmente sull'opportunità o meno di espanderla. Il governo federale infatti deliberava leggi che vietavano di portare schiavi nei nuovi territori del West; sicché il grande teorico della schiavitù, uno dei maestri del pensiero politico moderno, John Calhoun, rispondeva: ma è contro la Costituzione impedire a un cittadino di viaggiare portandosi dietro la sua proprietà, anche se questa consiste in esseri umani.

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Pagina 42

Quindi La capanna dello zio Tom è un romanzo più serio di quello che siamo stati abituati ad aspettarci. E tuttavia rimane oggi quasi illeggibile per il lettore moderno, perché la serietà di fondo del tema, dei personaggi, sembra letteralmente annegata dentro quella che ci appare oggi come una insopportabile melassa sentimentale. Beecher Stowe scrive senza esclusione di colpi, il senso della misura è proprio un ospite occasionale, il linguaggio è grondante, didascalico, con spargimenti di lacrime, prediche religiose, ammonimenti politici, amore materno, amore filiale, amore universale, visioni, inginocchiamenti, mani giunte, e con il topos patetico di assoluta ingiustizia che è la morte degli innocenti e dei bambini. Tutto questo rende alquanto faticosa la lettura.

Però non possiamo dimenticarci che La capanna dello zio Tom parla di una componente di umanità privata di diritti, politici ed economici, ma che pure è l'espressione di un altro gruppo umano, parimenti in quello stesso tempo privato di diritti politici ed economici, e privato addirittura del diritto di proprietà: le donne bianche. Harriet Beecher Stowe è attiva nel movimento antischiavista, ma anche negli esordi di un movimento che reclama i diritti delle donne e che in quegli stessi anni sta prendendo forma. Escluse come i neri dalla sfera dell'economia e della politica, che potere hanno le donne di metà Ottocento? L'unico potere che gli viene riconosciuto è quello sui sentimenti; non per nulla esse scrivono romanzi sentimentali, un'ondata di romanzi languidi a cavallo tra anni Quaranta e anni Sessanta dell'Ottocento, che culmina con un libro letto ancora oggi, Piccole donne di Louísa May Alcott. La critica femminista degli anni Settanta del Novecento ha parlato, proprio a partire da La capanna dello zio Tom e da Piccole donne, di sentimental power, cioè di una forza esercitata attraverso í sentimenti: se è vero che gli uomini monopolizzano la sfera dell'azione (il mercato, la frontiera, la politica...), le donne possono usare armi che chiamano sympathy o influence per indirizzare attraverso í sentimenti l'azione degli uomini.

Facciamo un esempio.

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Pagina 47

Ora, in La capanna dello zio Tom, da una parte c'è il grande romanzo sentimentale, dall'altra c'è un altro genere narrativo allora assai diffuso e relativamente popolare: le autobiografie degli schiavi. Beecher Stowe per scrivere il suo libro prende spunti e idee dalla autobiografia di Josiah Henson e da altre. Le biografie degli schiavi sono popolari, da una parte perché va crescendo un sentimento antischiavista, dall'altra perché sono esse stesse straordinari romanzi di peripezie, fughe, violenze, omicidi, stupri, fantasmi: costituiscono il genere del romanzo avventuroso del tempo; e La capanna dello zio Tom ne è consapevole – tanto che a un certo punto l'autrice afferma che a Simon Legree, il cattivo padrone schiavista, piaceva leggere storie di avventure, di omicidi e di fantasmi; e peraltro lei, dopo aver scritto una storia di avventure e di violenze, fa entrare in scena all'ultimo capitolo anche il fantasma.

Proprio queste spericolate fughe, queste avventurose evasioni, sono uno dei pilastri di tale genere narrativo nonché della Capanna dello zio Tom, tanto è vero che un'altra scena indimenticabile del libro è quella famosa della fuga di Eliza che attraversa il fiume Ohio, che segna il confine tra il Kentucky e l'Illinois, quindi il confine fra dove vige la schiavitù e dove teoricamente non vige, e lo attraversa in modo abbastanza fantastico, saltando sui blocchi di ghiaccio mentre è inseguita dai cani.

Questa scena viene ripresa da Toni Morrison in Amatissima, in cui appare un altro attraversamento avventuroso dello stesso fiume: anche la sua protagonista, Sethe, è fuggiasca ed è inseguita, passa il fiume Ohio su una barca sfondata che rischia di andare a fondo, e non lo fa con il bambino in braccio come Eliza, ma partorisce proprio durante la traversata. Sono ambedue storie di femminilità minacciata, in fuga, di damsel in distress: la fanciulla in pericolo capace di imprese impossibili come questa, oppure di sacrificare la vita.

Invece il personaggio di George, il marito di Eliza, è più complesso ancora, perché costituisce precisamente la controparte di Tom: è colui che lucidamente rifiuta di riconoscere la benché minima forma di legittimità al sistema, perché ne capisce e ne decostruisce le fondazioni morali e giuridiche. Pochi anni prima che il romanzo uscisse, Frederick Douglass, considerato il più grande dei rappresentanti della cultura afroamericana dell'Ottocento, ex schiavo, scrittore, politico, era stato invitato a tenere il discorso del 4 luglio, la commemorazione della Indipendenza degli Stati Uniti. Ma rifiutò: a me chiedete di celebrare la vostra indipendenza? Che c'entriamo noi schiavi con il 4 luglio? Bene: Harriet Beecher Stowe riprende precisamente le parole dello schiavo ribelle Frederick Douglass e le mette in bocca a George. Sono due frammenti di conversazione: in uno lui sta spiegando a sua moglie Eliza perché vuole fuggire, e in un altro risponde a un gentile signore bianco, buon padrone, che gli dice: ma che fai?, violi le leggi del tuo paese?

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Pagina 50

Il personaggio di George però funziona anche in un altro modo; un po' come ha funzionato Barack Obama: vale a dire, la discendenza mista ne fa non tanto una figura di mulatto tragico intrappolato fra una doppia discendenza in cui non riesce a riconoscersi e a trovare posto (come in tantissimo teatro americano), ma si rappresenta piuttosto come un ponte, una mediazione tra queste due entità dichiarate non mediabili, che sono il bianco e il nero. Il problema è che, nell'America prima della Guerra civile (e anche dopo), questa mediazione è impossibile. Da cui la scelta di far emigrare Eliza e George prima in Canada e poi in Africa. Il dilemma di Harriet Beecher Stowe è lo stesso che sorge – e ne complica il finale – nelle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain: che ne facciamo – si domanda la scrittrice – di uno schiavo fuggiasco? Lo facciamo ricatturare? Non si può; dobbiamo mantenere un minimo di possibilità di speranza. Lo facciamo vivere tranquillamente da libero? Non si può; non c'è posto nell'America della Fugitive Slave Law per un nero libero. E allora che facciamo? E lei trova la via d'uscita per farli partire come missionari per la Liberia, il luogo dell'utopia molto criticata dai neri più radicali e più militanti come Douglass, per la quale si immaginava di creare un libero Stato nero in Africa, riportandovi gli schiavi liberati (e «civilizzati»). Questo era il modello che aveva in mente anche Lincoln, perché anche per lui non c'era posto in America per i neri liberi, sicché aveva pensato di mandarli tutti in Nicaragua.

Molte interpretazioni contemporanee attaccano questo romanzo perché il suo finale – la morte di Tom, l'emigrazione di Eliza e George – sembra non comprendere la possibilità per un nero libero di trovare posto in America. Ma non è il romanzo che non l'accetta; è che non c'era. Lo stesso Frederick Douglass, per poter continuare a svolgere la sua attività, dovette prima andare in Inghilterra e poi comprare la propria libertà pagandone al padrone il proprio prezzo di mercato.

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Pagina 57

Tuttavia il senso dell'ingiustizia resta: non ci si commuove per le vittime se non si è consapevoli del fatto che vittime sono. Se a noi pare che gli strumenti che Stowe propone per combatterla siano inadeguati, perfino controproducenti, non è del tutto detto che lei stessa non fosse d'accordo. Questa idea della sympathy e della influence presuppone un minimo di ricettività. Riguardiamo la scena che abbiamo letto: il più bel discorso di sympathy e di influence è quello di Tom a Simon Legree, e per un attimo Simon Legree esita; ma ci sono dei cuori, delle anime, dei portafogli che sono impermeabili alla influence, ai sentimenti. Così nel 1859, sette anni dopo l'uscita del romanzo, prende avvio un progetto di rivolta armata: John Brown, un abolizionista forse un po' folle ma indomabile, prevede di andare in Virginia, un po' come Pisacane a Sapri, con un gruppo di ribelli armati per scatenare la rivolta degli schiavi. Tra quelli che raccolgono i soldi per comprargli le armi c'è Harriet Beecher Stowe.

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Anna Foa



Ebrei sionisti e partigiani.
A partire da Se non ora, quando?
di Primo Levi



Il fronte si era fermato e l'estate volgeva alla fine. La terra polacca, estenuata da cinque anni di guerra e di occupazione spietata, sembrava ritornata al caos primigenio. Varsavia era stata distrutta. Non più il ghetto soltanto questa volta, ma l'intera città, e con essa il seme di una Polonia indipendente e concorde. Come i polacchi avevano lasciato spegnere l'insurrezione del ghetto nella primavera del '43, così adesso i russi avevano lasciato spegnere la rivolta di Varsavia, preparata e diretta dal governo polacco profugo a Londra. A castigare le teste calde provvedessero pure i tedeschi, allora come adesso. E i tedeschi provvedevano. In rotta ormai su tutti i fronti di guerra erano invece vittoriosi sui fronti interni, nella loro guerra quotidiana contro i partigiani e la popolazione inerme. Dalla capitale si irradiavano per tutto il paese torme di profughi senza pane e senza tetto, terrificati dalle rappresaglie tedesche e dalle loro razzie. I tedeschi erano affamati non solo di vendetta, ma anche di manodopera: contadini e cittadini, uomini, donne, vecchi e bambini rastrellati alla spiccia dappertutto, erano stati messi frettolosamente al lavoro con pala e piccone a scavare fosse anticarro nella terra che aspettava di essere arata. Fedeli al genio nazista della distruzione, squadre di guastatori tedeschi smontavano ed esportavano tutto quanto avrebbe potuto essere utile all'Armata Rossa in avanzata: binari, cavi elettrici, materiale ferroviario e tramviario, legname, ferro, intere fabbriche. I partigiani polacchi dell'Armata interna, le vecchie leve che avevano lottato contro i tedeschi fin dalla loro avanzata fulminea del 1939, gli altri che avevano scelto la via delle foreste per amore del proprio paese dilaniato o per sfuggire alla deportazione, fino agli ultimi, sfuggiti da Varsavia in agonia, continuavano a combattere con tenacia disperata (Opere, vol. 2, pp. 409-410).


Θ, nelle parole di Se non ora, quando?, la descrizione della Polonia nell'autunno del 1944. L'Armata Rossa sta avanzando, ancora poco e Himmler fermerà i trasporti per Auschwitz, per il nazismo la guerra è ormai persa ma non la volontà di distruggere più vite e cose possibili: le vite degli ebrei, ma anche quelle del resto della popolazione. Lo sterminio degli ebrei europei è ormai quasi totalmente compiuto. Nell'estate sono stati assassinati ad Auschwitz anche gli ultimi ebrei, mezzo milione di ungheresi. Ora è il caos, mentre l'Armata Rossa avanza, i partigiani incalzano, gli ultimi ebrei sopravvissuti combattono armati la loro guerra partigiana, da soli o insieme ai partigiani polacchi e russi. E anche il periodo delle marce della morte – dai campi di sterminio sul suolo polacco verso i lager in Germania – quello che viene ormai definito come un periodo a sé, con caratteristiche sue proprie, nella Shoah: il periodo delle marce assassine ma anche quello della popolazione, in particolare in Germania, che massacra senza ordini, selvaggiamente, i deportati. Un periodo di cui non sono ancora state fino in fondo vagliate le responsabilità, se non penali almeno storiche.

Ma Primo Levi non vuole qui parlare della morte, bensì della vita. C'è in Se non ora, quando? una frase molto significativa detta a proposito di uno dei tanti massacri da parte dei «cacciatori di uomini»: «Quanto avvenne nel cortile del monastero di Novoselski non verrà narrato. Non è per descrivere stragi che questa storia sta raccontando se stessa» (Opere, vol. 2, p. 283). Levi, colui che ha saputo trasmetterci magistralmente la morte, nel suo romanzo ci vuole parlare soprattutto della vita.

Il romanzo inizia il suo racconto dal luglio 1943, mentre in Italia cadeva il fascismo, prima dell'armistizio e dell'occupazione nazista. Protagonista ne è Mendel, un orologiaio, meccanico nell'Armata Rossa, ebreo, disperso come altre decine di migliaia di soldati. Ma Mendel, che non è un disertore, ha sentito parlare dei partigiani e vorrebbe unirsi a loro. Non è facilissimo, bisogna trovarli. Il romanzo si dipana attraverso incontri con altri dispersi o con gruppi partigiani (alcuni composti di soli ebrei), azioni armate contro i nazisti, riflessioni e discussioni, nel grande spazio delle foreste e delle pianure tra Russia e Polonia. Alla fine, con l'avanzare dell'Armata Rossa, i gruppi partigiani si sciolgono. I partigiani russi rientrano nell'Armata Rossa o tornano a casa. Non lo sanno, ma chi è stato disperso o prigioniero dei nazisti ad aspettarlo in patria troverà sospetti e gulag. A stento e non sempre sopportati dentro le bande partigiane, gli ebrei, che non hanno più una casa dove tornare, errano incerti sul futuro, e finiscono a Milano, dopo un lungo viaggio che ricorda quello fatto da Primo Levi nel suo ritorno a casa. Qui nasce un bambino, figlio di due partigiani. Θ il 7 agosto 1945 e i giornali riportano a lettere cubitali il lancio delle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki. Anche in questo romanzo, che è fra i testi più gioiosi di Levi, la narrazione si chiude con una parola di orrore e il preludio ad un altro orrore.


Se non ora, quando?, uscito nel 1982, è l'unico romanzo scritto da Primo Levi. Non che Levi non avesse fino ad allora scritto opere di fiction, racconti, ma non aveva ancora intrapreso, e non lo farà più dopo questo libro, la strada del romanzo. Il titolo, così intrigante, è ripreso da un brano del Pirqé Avoth (le massime dei Padri), una raccolta redatta nel II secolo d.C. che fa parte del Talmud: «Diceva Hillel: 'Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand'anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?'».

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Pagina 179

Ma allora, che cosa ne è dell'immagine degli ebrei mandati come pecore al macello tanto comune nella letteratura e nella percezione diffusa? Pecore al macello... L'espressione circolava già nel 1942, quando la ritroviamo in un documento del Bund polacco. Era stata usata il 1° gennaio di quell'anno da un giovane sionista, Abba Kovner, chiuso nel ghetto di Vilnius, per esortare alla resistenza contro i nazisti: «Giovani ebrei! Non credete a coloro che cercano di ingannarvi. Hitler vuole annientare tutti gli ebrei d'Europa! Non ci faremo portare come pecore al macello. Θ vero che siamo deboli e senza difesa, ma agli assassini si può rispondere solo ribellandosi! Fratelli! Meglio cadere liberi da combattenti che vivere sotto il potere degli assassini. Sollevatevi! Sollevatevi con tutte le vostre forze!».

Resistenza che egli diresse prima dal ghetto di Vilnius, dove fu tra i capi di un'organizzazione clandestina di resistenza l'Organizzazione unita dei partigiani, che riuniva tutte le forze politiche, dai sionisti al Bund (i socialisti ebrei russi e polacchi), poi, dopo la fallita insurrezione di questo ghetto e il massacro dei suoi ebrei, nei boschi dove diresse una milizia partigiana esclusivamente ebraica.

L'accusa rivolta agli ebrei di essersi lasciati massacrare senza resistere non venne quindi dagli antisemiti, ma giunse dagli ebrei stessi, dall'interno del mondo ebraico, ed era íl frutto della lotta dentro ai ghetti fra quanti preferivano cercare di sopravvivere obbedendo ai nazisti e i giovani che cercavano invece di resistere. Questo avvenne in moltissimi ghetti, non ultimo quello di Varsavia. Tale linea di resistenza, su cui si erano uniti sionisti e bundisti (cioè le due maggiori aree politiche ebraiche fino ad allora in conflitto fra loro), si prolungò nel periodo del dopoguerra in Palestina. Fra l'altro, Abba Kovner creò dopo la fine della guerra un gruppo clandestino intitolato Nakam (vendetta) volto a punire i nazisti e responsabile di un tentativo di avvelenamento di prigionieri nazisti in un campo presso Norimberga. Kovner divenne in Israele il poeta cantore della resistenza dei ghetti ebraici e vinse nel 1970 il prestigioso Israel Prize.

La sottovalutazione della resistenza ebraica, la domanda sul perché gli ebrei si siano lasciati massacrare senza reagire, non è però solo il frutto dei conflitti interni ai ghetti. Essa torna costantemente. Fino ad oggi, chiunque vada a parlare di questo tema, in particolare nelle scuole e con i ragazzi, si trova prima o poi obbligato a confrontarvisi. Θ un luogo comune della prima memoria sulla Shoah, quella durata fino agli anni Settanta, che contrapponeva i prigionieri politici, partigiani e oppositori, mandati nei lager per quello che avevano fatto, a quelli razziali, mandati nei lager per quello che erano. Ci vorrà il rovesciamento determinato dal crescere della memoria sulla Shoah e dall'affermarsi crescente del paradigma della vittima a cambiare questo luogo comune. In una edizione del 1976 di Se questo è un uomo, Primo Levi l'affronta in appendice, ricordando la domanda che gli viene frequentemente posta: c'erano prigionieri che fuggivano dai lager? Come mai non sono avvenute ribellioni di massa? La risposta di Levi si riferisce esclusivamente al lager, alle immani difficoltà di fuggire o di ribellarvisi. Egli ricorda le condizioni dei campi a prevalenza di ebrei, con prigionieri privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare, spesso vecchi, donne e bambini, che non parlavano la stessa lingua, e che non sapevano che cosa sarebbe loro accaduto: «Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l'affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono» (Opere, vol. 1, p. 183).

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Pagina 186

L'immagine che Levi ci dà della guerra dei partigiani ebrei in Europa orientale è assai vicina a quella che ricaviamo dalle memorie e dai libri di storia. Era però una guerra che non conosceva direttamente se non per le voci che ne erano echeggiate nei campi, nella frequentazione dei compagni di prigionia, in quel buco nero in cui sprofondarono insieme ebrei delle capitali europee, benestanti ed integrati, e poveri abitanti dello shtetl, ebrei senza Dio e hassidim.

Ed era soprattutto una guerra partigiana radicalmente diversa da quella che lui aveva, per breve tempo, visto e vissuto in Italia. Innanzi tutto perché in Italia – e credo che sia bene chiarire questo punto – non ci sono mai stati gruppi partigiani composti solo di ebrei (altra cosa fu la Brigata Ebraica, composta di ebrei palestinesi inquadrati nell'esercito inglese). Gli ebrei italiani che parteciparono alla lotta partigiana vi entrarono in quanto italiani, per combattere l'occupazione nazista; lo fecero da antifascisti, non da ebrei. E furono accolti dagli altri partigiani come italiani, senza le diffidenze e l'antisemitismo che caratterizzò l'esperienza dei partigiani ebrei in Polonia e in Russia. Certo, c'era nel loro impegno un surplus che veniva dalla consapevolezza che erano prede dei nazisti e dei fascisti di Salò, che lo sarebbero stati anche se non fossero stati partigiani, anche se avessero avuto cento anni o un mese. Ma questo non cambiava la natura universale e non particolaristica del loro impegno. Anche volendo, sarebbero mancati d'altronde i numeri perché ci potessero essere delle brigate partigiane ebraiche (i partigiani ebrei furono in Italia circa duemila, il 4% della popolazione ebraica: una percentuale della popolazione comunque molto più alta di quella tra i non ebrei, che fu poco più dell'uno su mille), e comunque il grado di integrazione e di accettazione degli ebrei italiani nella società di cui erano stati cittadini fino a cinque anni prima e di cui parlavano la lingua faceva sì che la sola idea di una lotta separata fosse impensabile.

Primo Levi fu, com'è noto, arrestato come partigiano. Era sceso in campo per misurarsi. «Eravamo i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti», scrive in Il sistema periodico (Opere, vol. 1, p. 852) con un understatement che ricorda quello delle memorie di Luciana Nissim, arrestata e deportata con lui e altri compagni. Un'avventura di sprovveduti, presto terminata grazie a una spiata. E poi, l'ammissione di essere ebreo, fatta da Levi di fronte alle insistenze dei suoi carcerieri: «O ero ebreo o ero partigiano; se partigiano, mi metteva al muro; se ebreo, bene, c'era un campo di raccolta a Carpi, loro non erano dei sanguinari, ci sarei rimasto fino alla vittoria finale. Ammisi di essere ebreo: in parte per stanchezza, in parte anche per una irrazionale impuntatura d'orgoglio» (Opere, vol. 1, p. 855). O l'uno o l'altro, o ebreo o partigiano. Nella storia raccontata in Se non ora, quando? i partigiani, invece, erano anche ebrei. Θ una storia assai diversa dalla sua, che ha potuto raccontare perché aveva dietro di sé il lager, l'incontro con il mondo dell'Europa orientale, la percezione di quanto poco importanti fossero, nell'insieme del mondo ebraico, gli ebrei italiani: «Chissà se c'erano ebrei in Italia. Se sì, dovevano essere ebrei strani, come puoi figurarti un ebreo in gondola o in cima al Vesuvio?» (Opere, vol. 2, p. 254).

E, poi, c'era anche l'incontro con il sionismo, che Levi in Italia non aveva frequentato, sia perché all'epoca la maggior parte degli ebrei italiani non erano sionisti, sia perché il mondo a cui Levi apparteneva era caratterizzato da una visione del proprio ebraismo molto diversa da quella sionista. Levi viene da un mondo laico e integrato, in cui l'identità ebraica è accarezzata e protetta nel cuore, ma è data dalle memorie famigliari, dalla propria storia in quanto ebrei, non dalla terra. Un universo in cui l'identità precipua dell'ebreo, quella che lo rende particolare e prezioso, deriva dall'esser minoranza, dal vivere nella diaspora, dall'essere tra i mondi. Di famiglia laica e «assimilata», Levi aveva fatto parte dopo il 1938 del gruppo di giovani ebrei che si radunava nella Biblioteca della Scuola ebraica di Torino, presso il Tempio. Un'esperienza fortemente ebraica, ma in nessun modo religiosa o tantomeno sionista. Faceva parte del loro gruppo anche Emanuele Artom , un altro partigiano ebreo, un giovanissimo intellettuale attivo nella Resistenza per il Partito d'Azione in Val Pellice, morto sotto le torture naziste nel marzo 1944. A differenza di quanto era accaduto a Primo Levi, che era sfuggito alla fucilazione ed era stato mandato a Fossoli e poi ad Auschwitz in quanto ebreo, per Artom il destino di ebreo e quello di partigiano si sommarono a segnarne la sorte.

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