Copertina
Autore Muriel Barbery
Titolo L'eleganza del riccio
Edizioneedizioni eo, Roma, 2007 , pag. 326, cop.fle., dim. 13,5x21x2,1 cm , Isbn 978-88-7641-796-2
OriginaleL'élégance du hérisson
EdizioneGallimard, Paris, 2006
TraduttoreEmanuelle Caillat, Cinzia Poli
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa francese
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Pagina 9

Capitolo primo

Chi semina desiderio


«Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola.

Antoine Pallières, prospero erede di un'antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari – la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi –, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualcosa. Che cosa possono mai comprendere le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.

A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente.

«Dovrebbe leggere L'ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia.

Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai propri bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un'organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.

"Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto.

Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di felino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.

«Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari.

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Capitolo secondo

I miracoli dell'Arte


Mi chiamo Renée. Ho cinquantaquattro anni. Da ventisette sono la portinaia al numero 7 di rue de Grenelle, un bel palazzo privato con cortile e giardino interni, suddiviso in otto appartamenti di gran lusso, tutti abitati, tutti enormi. Sono vedova, bassa, brutta, grassottella, ho i calli ai piedi e, se penso a certe mattine autolesionistíche, l'alito di un mammut. Non ho studiato, sono sempre stata povera, discreta e insignificante. Vivo sola con il mio gatto, un micione pigro che, come unica particolarità degna di nota, quando si indispettisce ha le zampe puzzolenti. Né lui né io facciamo molti sforzi per integrarci nella cerchia dei nostri simili. Siccome, pur essendo sempre educata, raramente sono gentile, non mi amano; tuttavia mi tollerano perché corrispondo fedelmente al paradigma della portinaia forgiato dal comune sentire. Di conseguenza, rappresento uno dei molteplici ingranaggi che permettono il funzionamento di quella grande illusione universale secondo cui la vita ha un senso facile da decifrare. E se da qualche parte sta scritto che le portinaie sono vecchie, brutte e bisbetiche, così, sullo stesso firmamento imbecille, è solennemente inciso a lettere di fuoco che le suddette portinaie hanno gattoni accidiosi che sonnecchiano tutto il giorno su cuscini rivestiti di federe fatte all'uncinetto.

In proposito si aggiunga che le portinaie guardano ininterrotamente la televisione mentre i loro gatti grassi sonnecchiano, e che l'atrio del palazzo deve olezzare di bollito, di zuppa di cavolo o di cassoulet fatto in casa. Io ho l'inaudita fortuna di fare la portinaia in una residenza di gran classe. Dover cucinare quei piatti ignobili mi sembrava così umiliante che l'intervento di monsieur de Broglie, il consigliere di Stato del primo piano, intervento che lui deve aver descritto alla moglie come cortese ma fermo, fatto allo scopo di eliminare dalla convivenza quotidiana quei miasmi plebei, fu per me un immenso sollievo che tuttavia dissimulai come meglio potei, fingendo doverosa obbedienza.

Sono passati ventisette anni. Da allora, ogni giorno, vado dal macellaio a comprare una fetta di prosciutto o di fegato di vitello, che infilo nella mia sporta a rete tra il pacchetto di pasta e il mazzo di carote. Esibisco compiacente queste vettovaglie da povera, impreziosite dalla pregevole caratteristica di non emettere cattivi odori, perché io sono povera in una casa di ricchi. In questo modo alimento congiuntamente lo stereotipo comune e anche il mio gatto, Lev, che ingrassa solo grazie ai pasti in teoria a me destinati e si rimpinza di insaccati e maccheroni al burro, mentre io posso appagare le mie inclinazioni culinarie senza perturbazioni olfattive e senza che nessuno sospetti niente.

Più ardua fu la faccenda della televisione. Eppure quando mio marito era ancora in vita, mi ci ero abituata, perché la costanza con cui lui la guardava me ne risparmiava l'incombenza. Nell'atrio del palazzo giungevano i rumori dell'aggeggio, e questo bastava a rendere eterno il gioco delle gerarchie sociali, per mantenere le cui apparenze, in seguito alla morte di Lucien, dovetti scervellarmi ben bene. Se da vivo, infatti, mi sollevava dall'iniquo obbligo, da morto mi privava della sua incultura, baluardo indispensabile contro il sospetto altrui.

Trovai la soluzione grazie a un non-pulsante.

Un campanello collegato a un meccanismo a infrarossi ormai mi avverte dell'andirivieni nell'atrio, sollevando tutti quelli che passano dall'obbligo di suonare un qualche pulsante affinché io, anche da lontano, possa sapere della loro presenza. In queste occasioni, difatti, me ne sto nella stanza in fondo, quella in cui trascorro i momenti più sereni del tempo libero e in cui, protetta dai rumori e dagli odori che la mia condizione mi impone, posso vivere a mio piacimento senza essere privata delle informazioni vitali per ogni sentinella che si rispetti: chi entra, chi esce, con chi e a che ora.

Così, mentre attraversano l'atrio, i condomini sentono quei suoni soffusi che segnalano la presenza di una televisione accesa e, non brillando certo per fantasia, si figurano la portinaia stravaccata davanti all'apparecchio. Io, rintanata nel mio antro, non sento niente, ma so quando passa qualcuno. Quindi, nella stanza accanto, nascosta dietro la mussola bianca, attraverso un occhio di bue situato di fronte alle scale, mi informo con discrezione dell'identità di chi passa.

La comparsa delle videocassette e poi, più tardi, del dio DVD ha cambiato le cose ancora più radicalmente a favore della mia felicità. Siccome non è molto frequente che una portinaia vada in estasi davanti a Morte a Venezia e che dalla sua guardiola escano le note di Mahler, ho attinto dai risparmi coniugali, così faticosamente messi da parte, e ho acquistato un altro apparecchio, che ho sistemato nel mio nascondiglio. Mentre la televisione della guardiola, garante della mia clandestinità, bercia sciocchezze per teste di rapa senza che sia costretta a sentirla, con le lacrime agli occhi, gioisco dei miracoli dell'Arte.

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Pagina 29

Diario del movimento del mondo n° 1


Restare raccolti ín sé
senza perdere i pantaloncini



Un pensiero profondo ogni tanto è un'ottima cosa, ma non credo che basti. Insomma, voglio dire: ho intenzione di suicidarmi e di dare fuoco alla casa tra qualche mese, quindi ovviamente non posso fingere di avere molto tempo, e devo fare qualcosa di rilevante in quel poco che mi rimane. E poi, soprattutto, mi sono lanciata una piccola sfida: per suicidarsi bisogna essere convinti di quello che si fa, e non si può bruciare un appartamento per sport. Quindi, se in questo mondo c'è qualcosa per cui vale la pena vivere, non me la devo perdere: una volta morti è troppo tardi per i rimpianti, e morire per uno sbaglio è davvero troppo stupido.

Certo, ci sono i pensieri profondi, è vero. Ma nei pensieri profondi tutto sommato recito la parte di me stessa, quella dell'intellettuale (che prende in giro gli altri intellettuali), o sbaglio? Non è sempre edificante, ma di grande svago. Allora mi sono detta che dovevo compensare il lato "gloria della mente" con un altro diario che parlasse del corpo o delle cose. Non più i pensieri profondi dello spirito, ma i capolavori della materia. Qualcosa di incarnato, di tangibile. Ma anche di bello ed estetico. Tolti l'amore, l'amicizia e la bellezza dell'Arte, non c'è molto altro di cui la vita umana si possa nutrire. Sono ancora troppo giovane per ambire veramente all'amore e all'amicizia. Ma l'Arte... se avessi dovuto vivere, per me sarebbe stata tutto. Insomma, quando dico Arte bisogna intenderci: non parlo dei capolavori dei maestri. Nemmeno Vermeer mi fa amare la vita. È sublime, ma è morto. No, io penso alla bellezza nel mondo, a ciò che può elevarci nel flusso della vita. Quindi Il diario del movimento del mondo sarà dedicato al moto delle persone, dei corpi, oppure, se proprio non c'è niente d'interessante, a quello degli oggetti, per trovare qualcosa che sia abbastanza estetico da dare valore all'esistenza. Grazia, bellezza, armonia, intensità. Se le scopro, allora forse dovrò riconsiderare le varie opzioni: se, in mancanza di una bella idea per la mente, trovo un bel movimento di corpi, allora forse penserò che la vita vale la pena di essere vissuta.

Di fatto, l'idea di questo doppio diario (uno per la mente e uno per il corpo) mi è venuta ieri, mentre papà guardava una partita di rugby in televisione. Finora, in questi casi, osservavo soprattutto papà. Mi piace guardarlo quando si tira su le maniche della camicia, si toglie le scarpe, si accomoda per bene sul divano davanti alla partita con birra e salame e dichiara: «Scoprite l'altro uomo che è in me». A quanto pare non gli viene in mente che uno stereotipo (il serissimo signor ministro della Repubblica) sommato a un altro stereotipo (nonostante tutto, il bravo ragazzo che apprezza la birra fresca) possano dare uno stereotipo al quadrato. In sostanza, sabato papà è tornato prima del solito, ha scaraventato via la borsa, si è tolto le scarpe, si è rimboccato le maniche, ha preso una birra in cucina e si è abbandonato davanti alla tivù dicendomi: «Tesoro, portami del salame, per favore, non mi voglio perdere l'haka». Quanto a perdersi l'haka, ho avuto tranquillamente il tempo di affettare il salame e di portarglielo, e c'era ancora la pubblicità. La mamma era seduta in equilibrio precario sul bracciolo del divano, per manifestare chiaramente la sua disapprovazione (nella famiglia stereotipo aggiungerei l'oca-intellettuale-di-sinistra), e tormentava papà con la complicata storia di una cena a cui dovevano invitare due coppie in crisi perché facessero pace. Conoscendo la finezza psicologica della mamma, la cosa faceva proprio ridere. Insomma, ho dato il salame a papà, e siccome sapevo che Colombe era in camera sua ad ascoltare musica, presumibilmente avanguardia illuminata del quartiere latino, ho pensato: in fondo, perché no, facciamoci questo haka. Nei miei ricordi, l'haka era una specie di danza un po' grottesca che i giocatori della squadra neozelandese fanno prima della partita. Tipo un'intimidazione da scimmioni. E nei miei ricordi, poi, il rugby era un gioco pesante, con dei tizi che si buttano di continuo nell'erba e si rialzano per cadere di nuovo e ributtarsi nella mischia tre passi più in là.

Finalmente è finita la pubblicità, e dopo una sigla piena di ragazzoni stravaccati sull'erba si è visto lo stadio con le voci fuoricampo dei commentatori, poi un primo piano sui giornalisti (schiavi del cassoulet), poi di nuovo lo stadio. I giocatori sono entrati in campo e da lì la cosa ha cominciato a catturarmi. All'inizio non mi era chiaro, erano le solite immagini di sempre, però mi facevano un effetto nuovo, tipo un pizzicorino, un'attesa, un "trattengo il respiro". Vicino a me, papà si era già scolato la sua prima birretta e si apprestava a proseguire sulla scia alcolica chiedendo alla mamma, che si era appena staccata dal bracciolo del divano, di portargliene un'altra. Io trattenevo il respiro. «Che succede?» mi chiedevo guardando lo schermo, e non riuscivo a capire cosa ci vedessi di tanto stuzzicante.

Quando i giocatori neozelandesi hanno cominciato il loro haka, ho capito. Tra loro c'era un maori, alto e giovanissimo. Era stato lui ad attirare il mio sguardo fin da subito, all'inizio senz'altro per la sua altezza, ma poi per il suo modo di muoversi. Un movimento stranissimo, molto fluido, ma soprattutto molto concentrato, intendo concentrato su sé stesso. La maggior parte della gente, quando si muove, beh, si muove in funzione di ciò che ha intorno. Proprio in questo momento, mentre sto scrivendo, c'è Constitution che passa strusciando la pancia per terra. Questa gatta non ha nessun progetto di vita concreto, eppure si dirige verso qualcosa, una poltrona probabilmente. E lo si vede dal modo in cui si muove: lei va verso.

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Pagina 62

Capitolo ottavo

Profeta delle moderne élite


Questa mattina, ascoltando France Inter, con mia grande sorpresa ho scoperto che non ero quello che pensavo di essere. Finora avevo attribuito il mio eclettismo culturale alla mia condizione di autodidatta proletaria. Come ho già ricordato, ho trascorso ogni istante della mia vita che potevo sottrarre al lavoro a leggere, guardare film e ascoltare musica. Ma questa frenesia nel divorare prodotti culturali mi sembrava patisse di una suprema mancanza di gusto, una mescolanza brutale di opere rispettabili e altre che lo erano molto meno.

Sebbene quello della lettura sia l'ambito in cui il mio eclettismo è meno esteso, anche lì la mia varietà di interessi è decisamente notevole. Ho letto opere di storia, di filosofia, di economia politica, di sociologia, di psicologia, di pedagogia, di psicanalisi e, ovviamente e innanzitutto, di letteratura. Se le prime mi hanno interessato, quest'ultima è tutta la mia vita. Il mio gatto, Lev, porta questo nome per via di Tolstoj. Il precedente si chiamava Dongo come Fabrice del. Il primo aveva nome Karenina come Anna, ma lo chiamavo solo Kare, per timore di essere smascherata. A parte l'infedeltà stendhaliana, i miei gusti si collocano senza ombra di dubbio nella Russia ante 1910, ma vado fiera di aver divorato una parte tutto sommato apprezzabile della letteratura mondiale, se si pensa che sono una ragazza di campagna le cui prospettive di carriera hanno superato ogni speranza fino a condurmi al portierato del 7 di rue de Grenelle, e che normalmente una tale sorte avrebbe dovuto consacrarmi al culto eterno di Barbara Cartland. Confesso di avere una predilezione colpevole per i romanzi polizieschi — ma quelli che leggo li considero alta letteratura. Certi giorni mi risulta particolarmente difficile dovermi strappare alla lettura di un Connelly o di un Mankell per andare a rispondere alla scampanellata di Bernard Grelier o di Sabine Pallières, le cui ansie non si accordano affatto con le meditazioni di Harry Bosch, lo sbirro appassionato di jazz del Los Angeles Police Departement, soprattutto quando mi dicono:

«È intollerabile che la puzza di spazzatura si sente fino in cortile».

Che Bernard Grelier e l'erede di un'antica famiglia di banchieri possano preoccuparsi per le stesse cose triviali, e al contempo ignorare entrambi che le espressioni impersonali reggono il congiuntivo, getta nuova luce sul genere umano.

In campo cinematografico, invece, il mio eclettismo è illimitato. Mi piacciono i blockbuster americani e i film d'autore. In effetti per molto tempo ho consumato preferibilmente cinema d'intrattenimento americano o inglese, se si esclude qualche opera seria che giudicavo solo con il mio occhio estetico, mentre l'occhio passionale ed empatico aveva frequentazioni unicamente con lo svago. Greenaway mi suscita ammirazione, interesse e sbadigli, mentre piango come una fontana ogni volta che Melly e Mama salgono le scale dei Butler dopo la morte di Bonnie Blue, e considero Blade Runner un capolavoro del divertimento di alto livello. Per molto tempo ho ritenuto una fatalità che la settima arte fosse bella, potente e soporifera e che il cinema d'intrattenimento fosse frivolo, piacevole e sconvolgente.

Guardate, oggi per esempio fremo d'impazienza pensando al regalo che mi sono fatta. È il frutto di un'attesa esemplare, l'appagamento a lungo rimandato del desiderio di rivedere un film che ho visto per la prima volta nel Natale del 1989.

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Pagina 136

Insomma, monsieur Ozu manda tutti su di giri. Olympe Saint-Nice ha detto a Colombe (che la odia e la chiama "la verginella dei maiali") che lui ha due gatti e lei non vede l'ora di vederli. Jacinthe Rosen non la smette di commentare il viavai del quarto piano e ogni volta va fuori di testa. E anch'io sono entusiasta, ma non per le stesse ragioni. Ecco che cosa è successo.

Sono salita in ascensore con monsieur Ozu e siamo rimasti bloccati dieci minuti tra il secondo e il terzo piano, perché un beota aveva richiuso male il cancello dell'ascensore prima di cambiare idea e scendere giù per le scale. In questi casi bisogna aspettare che qualcuno se ne accorga oppure, se le cose vanno per le lunghe, occorre allertare il vicinato urlando e tentando comunque di mantenere un certo stile, cosa non facile. Noi non abbiamo urlato. E così abbiamo avuto il tempo di presentarci e di conoscerci un po'. Tutte le signore avrebbero fatto carte false per essere al mio posto. Io ero molto felice, perché naturalmente il mio lato giapponese è contento di parlare con un signore giapponese doc. Ma quello che mi è piaciuto tanto è stato il contenuto della conversazione. Lui ha esordito così: «Tua mamma mi ha detto che a scuola fai giapponese. Come te la cavi?». Ho notato, en passant, che ancora una volta la mamma aveva spettegolato per farsi notare, poi ho risposto in giapponese: «Sì signore, parlo un po' giapponese, ma non molto bene». Mi ha detto in giapponese: «Vuoi che ti corregga la pronuncia?» e subito ha tradotto in francese. Intanto ho apprezzato molto questa cosa. Altri avrebbero detto: «Oh, come parli bene, ottimo, sei bravissima!», quando invece devo avere un terribile accento da maiale scannato. Ho risposto in giapponese: «Sì, la prego», quindi lui ha corretto un'inflessione e mi ha detto, sempre in giapponese: «Chiamami Kakuro». Ho ribattuto «Sì, Kakuro-san» in giapponese, e siamo scoppiati a ridere. Poi la conversazione (in francese) si è fatta molto interessante. Lui è andato subito al dunque dicendo: «Madame Michel, la portinaia, mi incuriosisce molto. Vorrei conoscere la tua opinione». Un sacco di altra gente, lo so, ci avrebbe girato attorno tentando di spillarmi informazioni. Ma lui ha parlato fuori dai denti. «Io credo che lei non sia come crediamo» ha aggiunto.

È da un pezzo che anch'io nutro dei sospetti su di lei. Da lontano è proprio una portinaia. Da vicino... beh, da vicino... c'è qualcosa di strano. Colombe la odia e pensa che sia un rifiuto dell'umanità. Per Colombe, a ogni modo, chiunque non corrisponda ai suoi modelli culturali è un rifiuto dell'umanità, e i modelli culturali di Colombe sono il potere sociale sommato alle camicette firmate agnès b. Madame Michel... Come dire? Trasuda intelligenza. Eppure si sforza, già, si vede che fa tutto il possibile per entrare nel ruolo della portinaia e sembrare stupida. Ma io l'ho osservata quando parlava con Jean Arthens, quando parla a Neptune alle spalle di Diane, quando guarda le signore del palazzo che le passano davanti senza salutare. Madame Michel ha l'eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.

Vabbè, detto questo, lo ammetto, non sono una veggente. Se non fosse successo niente anch'io, come tutti, avrei visto una portinaia, il più delle volte con la luna storta. Ma non molto tempo fa è successa una cosa, ed è strano che la domanda di monsieur Ozu sia capitata proprio ora. Quindici giorni fa Antoine Pallières ha rovesciato la borsa della spesa di madame Michel mentre lei stava aprendo la porta. Antoine Pallières è il figlio di monsieur Pallières, l'industriale del sesto piano, un tizio che dà lezioni di morale a papà sul modo di gestire la Francia e vende armi a dei criminali internazionali. Suo figlio è meno pericoloso perché è proprio un cretino, ma non si sa mai: spesso la nocività è un dono di famiglia. Per farla breve, Antoine Pallières ha rovesciato la sporta di madame Michel. Le rape, la pasta, i dadi e il sapone di Marsiglia sono caduti fuori, e nella borsa per terra ho intravisto che sbucava un libro. Dico intravisto perché madame Michel si è precipitata per raccogliere il tutto, guardando Antoine (che di certo non aveva nessuna intenzione di alzare un dito) con astio ma anche con una punta di preoccupazione. Lui non ha visto nulla, ma a me è bastato quell'attimo per capire quale libro c'era nella sporta di madame Michel, o perlomeno che genere di libro: infatti sulla scrivania di Colombe ce ne sono un sacco dello stesso tipo, da quando fa filosofia. Era un libro delle edizioni Vrin, editore superspecializzato in filosofia universitaria. "Cosa ci fa una portinaia con un libro della Vrin nella borsa della spesa?" è la domanda che ovviamente mi sono posta, a differenza di Antoine Pallières.

«Lo penso anch'io» ho risposto a monsieur Ozu, e da vicini di casa siamo subito passati a una relazione più intima, quella tra cospiratori. Ci siamo scambiati le nostre impressioni su madame Michel, monsieur Ozu scommette che sia un'erudita principessa clandestina, e ci siamo lasciati con la promessa di indagare.

Ecco quindi il mio pensiero del giorno: per la prima volta ho incontrato qualcuno che cerca le persone e che vede oltre. Può sembrare banale, eppure credo che sia profondo. Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all'incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell'altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. Quando mia madre offre degli amaretti di Ladurée a madame de Broglie, non fa che raccontare a sé stessa la storia della sua vita, sgranocchiando il proprio sapore; quando papà beve il caffè leggendo il giornale, si contempla in uno specchio tipo auto-suggestione cosciente del metodo Coué; quando Colombe parla delle conferenze di Marian, blatera davanti al riflesso di sé stessa, e quando le persone passano davanti alla portinaia, non vedono nulla perché lì non si vedono riflesse.

Io invece supplico il destino di darmi la possibilità di vedere al di là di me stessa e di incontrare qualcuno.

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