Copertina
Autore Pietro Barcellona
Titolo La parola perduta
SottotitoloTra polis greca e cyberspazio
EdizioneDedalo, Bari, 2007, Strumenti/Scenari 67 , pag. 226, cop.fle., dim. 14x21x1,3 cm , Isbn 978-88-220-5367-1
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe filosofia , comunicazione
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Indice

Presentazione                                            5

Introduzione                                             7
La parola perduta

La parola perduta                                        7
Il fallimento della parola                              10
Dissoluzione dei luoghi e crisi della simbolizzazione   15
La parola e la «cosa»                                   21
La parola e la memoria                                  27
L'ambivalenza e il simbolo                              30

Capitolo primo
La città e i luoghi dell'individuo                      35

I luoghi dell'individuo                                 35
Valore d'uso dei luoghi e spazio simbolico              37
La città e la costituzione sociale dell'individuo       39
Crisi della città e del legame sociale                  42
La città nella globalizzazione                          45
La città senza luoghi della cittadinanza                48

Capitolo seconde
Il colpo negato                                         53

Il corpo violato                                        53
La dissoluzione del confine                             56
Un corpo senza profondità                               61
L'illusoria riscoperta del corpo                        63
Fisicità e simbolizzazione                              65

Capitolo terzo
La desostanzializzazione del mondo
e la frantumazione atomistica                           71

Modernità e tempo: la fine della storia                 71
Dalla libertà al bisogno di sicurezza                   73
La frantumazione del reale                              75
Il trionfo della tecnica                                76
Il lessico del mondo fra ottimismo e pessimismo         79
La crisi del legame sociale                             81
L'offensiva dello scientismo                            83
La desacralizzazione della vita                         86
La mitologia del singolare assoluto                     91
L'individuo astratto                                    93

Capitolo quarto
L'astrazione del diritto e l'autarchia del logos        99

La modernità, trionfo dell'autarchia del logos          99
Il soggetto moderno tra natura e ordine artificiale    100
L'autarchia del logos e la crisi del fondamento        102
Il funzionalismo e la morte del soggetto               108

Capitolo quinto
Il monoteismo della ragione e la lotta dei sensi       113

Il monoteismo della ragione                            113
Il simbolo e la rappresentazione originaria            121
Il logos, pensiero maschile                            126
Logos e dominio                                        128
La negazione della differenza irriducibile             131
L'esperienza della mancanza e la ricerca di identità   134
L'originario esistenziale                              135

Capitolo sesto
La tragedia                                            139

La messa in scena del tragico                          139
La perdita del tragico                                 141
L'epoca delle grandi madri e le lotte fra i sessi      142
Il mito dell'autogenerazione                           145

Capitolo settimo
Siamo tutti in pericolo                                151

Lo scandalo della contraddizione                       151
La centralità della madre e il destino di morte        156
La società dei fratelli                                160
Sdoppiamento e unità                                   163

Capitolo ottavo
Maria Zambrano e la «parola perduta»                   167

Un pensiero differente                                 167
La scrittura di trasformazione                         169
Disfare                                                172
La mediazione dell'amore                               173
Linguaggio e amore                                     179


Appendice
Continuità, discontinuità e differenza

di Tommaso Garufi                                      183
Una breve riflessione sul senso del presente           185
I giovani e la filosofia                               187
Continuità e discontinuità: una riflessione
  sulle categorie filosofiche d'analisi del presente   192
Barcellona e Sini: due paradigmi filosofici
  della continuità e della discontinuità               195
Continuità e discontinuità nella «storia»
  della filosofia                                      196
Identità e differenza                                  203
Una proposta per ri-strutturare un senso dell'identità 212

Bibliografia                                           217

 

 

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Pagina 5

Presentazione


Talvolta accade di capire «dopo» quello di cui scrivi. Accade se ti lasci andare al flusso dei pensieri e delle immagini, dei ricordi e degli struggimenti, senza preoccuparti di avere prima pensato a un qualche schema concettuale. Accade quando sei disponibile ad accogliere quella parte di te che non sta dentro l'abito che ti sei costruito o che ti hanno cucito addosso.

L'occasione di questa improvvisa apertura verso pensieri nascosti è stata la preparazione dell'intervento su Pasolini ad un convegno, promosso dai miei amici spagnoli, il 2 e 3 ottobre del 2005, a Madrid. Ho riprovato lo spasimo della vita che si contorce nel gorgo delle ambivalenze e trova forma negli ossimori della parola poetica: la gioia dolorosa.

Riuscire a parlare delle «cose ultime», non astrattamente, ma partendo dalla mia vita, è diventata la mia ossessione.

La verità siamo noi, la nostra vita, la nostra solitudine.

Ho cominciato a riflettere sulla parola, su ciò che oggi la rende povera e inerte. Su questo mondo globalizzato e informatizzato che non corrisponde più ad alcuna esperienza reale. Dove sono scomparsi i luoghi della fisicità e delle relazioni emotive; dove il logos si è reso indipendente dalla vita stessa.

È così cresciuta un'associazione di pensieri che chiede soltanto di essere ascoltata. Un esercizio di nostalgia? Non credo, se la cifra non è un ritorno alle origini, ma la speranza di recuperare il senso dell'avventura umana nel suo tendere a oltrepassare la soglia dell'indicibile.

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Pagina 7

Introduzione

La parola perduta


La parola perduta

Mi chiedo sempre più spesso che rapporto c'è fra me stesso e le parole che pronuncio o scrivo. Da quale urgenza nascono, a cosa tendono. La questione delle parole e del linguaggio mi prende come un nodo alla gola. Ho letto per caso un libro di Detienne, I greci e noi. Nella Grecia arcaica solo tre personaggi, divino/profeta, poeta e roi de justice, portano lo stesso tipo di «parola». Solo la loro parola ha la potenza per accedere direttamente all'invisibile, per enunciare «ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà». La parola coincide con la pienezza dell'essere e realizza la giustizia. La parola canta e contrasta con la sua luce l'oscurità del silenzio. Ma luce e ombra non si contraddicono: l'ombra è inseparabile dalla luce. E grazie a questa potenza ambigua che le Muse figlie della Memoria «sanno dire» la verità e anche le cose ingannevoli simili alla verità.

Ma, nello stesso contesto, comincia anche ad apparire la «parola autonoma» che agisce il logos e il linguaggio, che diventa un oggetto specifico di un sapere proprio con le proprie leggi. Con la sofistica comincia l'epoca della laicizzazione della parola, che inaugura un nuovo regime intellettuale, quello dell'argomentazione del principio di non contraddizione, del dialogo permanente con l'oggetto di un enunciato e la sua referenza.

Questo cambiamento, continua Detienne, coincide con la riforma politico-militare che fa emergere la figura del cittadino-soldato, l'assemblea dei militari che discutono degli affari comuni (Agamennone si giustifica con Ecuba per il sacrificio di Polissena con la necessità di soddisfare il desiderio dei soldati di vendicare la morte di Achille) e la prima strutturazione dell'agorà e delle città. Un passaggio di epoca nella nostra civilizzazione che, non a caso, trova nella tragedia attica la massima rappresentazione. La tragedia, come cercherò di illustrare dopo, è la messa in scena del conflitto fra la parola mitica e la parola-mezzo dell'argomentazione logica, fra due modi diversi di costruire i rapporti fra gli uomini e il mondo, e fra loro stessi.

Può apparire singolare, e persino ingenuo, che nell'epoca della globalizzazione, di Internet, della realtà virtuale, dell'esplorazione planetaria e delle nanotecnologie si rimetta in campo la tragedia greca. Eppure sono convinto che, mai come oggi, è necessario ricostruire i «fattori» che hanno determinato la nostra forma di civiltà, la genealogia del pensiero astratto, la matematizzazione del mondo, come sognavano i Pitagorici.

Mai come oggi la parola ha perso ogni connotazione sostanziale, ogni originalità specifica, ed è divenuta sempre più uno strumento (tecnico) per organizzare i comportamenti umani e la realtà; sempre più un mondo di «segni» che strutturano impersonalmente l'interazione fra attese e risposte come i linguaggi del mondo animale. È paradossale che il tentativo, iniziato tanti secoli fa, di affrancare le parole dai vincoli mitici si risolva in una riduzione naturalistica delle parole a facoltà funzionali all'esigenza del mero sopravvivere.

La moda diffusa di ricondurre ogni dimensione dell'esperienza alla biopolitica, e cioè al rapporto fra potere e vita, fra governo dei corpi e pura fisicità, sta consumando, sotto questo profilo, ogni possibilità di interrogare l'ambiguità del linguaggio umano.

La profetica ironia di Adorno sulla chiacchiera filosofica sembra confermata dall'assoluta vacuità del linguaggio filosofico contemporaneo, che sembra totalmente indifferente all'evaporazione del mondo nel bombardamento mediatico che annulla tutti i criteri di distinzione e tensione fra rappresentazione/pensiero e realtà.

Il Verbo che prometteva di incarnarsi e di ricongiungere la parola al mondo, si è invece del tutto sciolto da ogni responsabilità verso il corpo, il sangue e la materialità della vita.

Il trionfo della comunicazione informatica coincide con la massima indifferenza verso la concretezza dell'esperienza – al punto da rendere antiquata, e comunque discutibile, la distinzione fra astrazione e concretezza, fra parola e realtà – realizzando un grande processo di astrazione della parola dalla realtà che ci rende tutti comunicanti e afasici allo stesso tempo, solitari e connessi nello spazio virtuale, uno spazio indistinto come quello di Internet.

La parola da «simbolo» della relazione emotiva fra la parola e la «cosa» si è via via trasformata in uno strumento di «costruzione» e «ordinamento» del «reale», fino ad assorbirne l'energia nella potenza normativa dei concetti. La trama dei concetti ha chiuso nella «gabbia di acciaio» il mondo dell'accadere, dell'esperire e del sentire. Il dire si è trasformato da creazione/scoperta di «figure» e «forme» in un pre-dire ciò che appartiene alla sfera del fare e del creare.

Il mondo diventa la trama dei concetti, che si rimandano reciprocamente, senza alcun problema di riferimento, a ciò che potrebbe restare nell'ombra e comunque non essere afferrabile dalla logica lineare. Il nesso strutturale fra detto e non detto, aperto all'interpretazione e all'interrogazione, è annullato dalla mera funzionalità del detto all'istanza di poter disporre del mondo e dell'esperienza. La civitas maxima sognata da Kelsen e realizzata nella globalizzazione è un sistema senza uomini e senza mondo, dove non c'è spazio per nessun rappresentare/comprendere, per nessuna «messa in scena» appassionata.

Si è dissolto il rapporto fra la città e il teatro, fra il trovarsi di fronte all'altro e il mettere in scena la grammatica delle passioni. Si è reso insignificante il contesto psicosomatico che ha dato senso alla dialettica fra ordine e caos, luci e ombre, e ha reso possibile la rappresentazione della condizione umana rispetto alle pressioni reali della vita.

La polis greca era l'agorà e il teatro, dove la tragedia ha messo in scena il conflitto irresolubile fra le potenze della vita, fra il maschile e il femminile, fra l'eroe omerico e la grande, terribile, madre, fra Zeus e Prometeo, e ha segnato la strada di una possibile fecondazione dei rapporti fra generi in vista di una nuova forma di convivenza e del futuro della specie.

Nella globalizzazione non esiste più né città, né spazio pubblico, né campagna, né selva oscura, ma continuità metropolitana di non-luoghi da attraversare. In questo continuum non incontriamo mai l'altro, non si forma il campo della relazione emotiva e resta senza voce quella parte opaca della persona che non coincide con l'astrazione dei nomi imposti alle cose. La potenza del «sistema» sembra aver assorbito dentro la propria funzione le pulsioni vitali e l' eros del mondo. La strategia dell'anima è ripiegata su se stessa, chiudendosi nel solipsismo della funzionalità senza scopo, dei mezzi senza fine.

Sembra avverarsi la «profezia» di Lacan che non esista Io parlante, ma trasmettitori parlati dalla potenza anonima del linguaggio.

Si capisce l'estremo tentativo di Levinas di cercare in uno spazio pre-filosofico e pre-linguistico la possibilità di incontrare un volto umano e istituire una relazione. Altrimenti sembra impossibile affermare: sono un uomo nato da donna che cerca un'immagine paterna per separarsi dalla madre e poter incontrare un'altra donna.

Perché questa semplice verità esistenziale non ha più senso, perché non è possibile riprovare le stesse emozioni e le stesse passioni che ci hanno permesso di arrivare fin qui?


Il fallimento della parola

Il fallimento della parola è alla base dello scatenarsi della violenza. Così scrive Hillman e così affermano tutti gli studiosi del rapporto tra linguaggio e violenza. In psicoanalisi, è decisiva la distinzione fra parola e passaggio all'azione. Nell'esperienza analitica la parola «trattiene, trasforma, contiene» la scarica delle pulsioni. Chi non riesce più a esprimere le proprie angosce, è inevitabile che scarichi nel comportamento la propria carica di aggressività distruttiva. Chiedersi perché e come la parola riesca nel miracolo di una trasformazione radicale dell'istintività e della violenza significa interrogarsi sullo specifico umano, su ciò che sottrae l'esperienza umana al gioco meccanico dell'azione e della reazione, alle pure combinatorie biochimiche e neuroelettriche che si verificano nell'impatto fra sé e il mondo.

In realtà, la parola istituisce uno spazio nuovo fra la contiguità fisica immediata e la distanza assoluta: lo spazio specificamente umano del mondo simbolico e delle rappresentazioni affettive.

Nella contemporaneità, la parola perde questa attitudine a dare forma all'invisibile e all'ultrasensibile e decade a livello di mera informazione. Tra parola e informazione, infatti, non c'è coincidenza: la parola collega e distanzia, non può prescindere dalla distanza fra lo spazio fisico delle azioni e lo spazio simbolico degli oggetti che non esistono prima in natura; l'informazione, invece, non è dissimile da un impulso elettrico che attiva automaticamente un dispositivo di risposta e può descriversi come una catena necessitata di stimoli e risposte.

Essere in rete, in connessione con il flusso delle informazioni, non significa parlare con gli altri e forse neppure comunicare, ma piuttosto essere inseriti nella catena di stimoli e reazioni che strutturano il processo della vita a ogni livello. Come scrive Valère Novarina:

Un giorno finiremo muti a forza di comunicare: alla fine diventeremo uguali agli animali, che non hanno mai parlato ma hanno sempre comunicato benissimo. Solo il mistero del parlare ci separa da loro. Alla fine diventeremo animali: ammaestrati dalle immagini, inebetiti dallo scambio di ogni cosa, tornati a essere divoratori del mondo e materia destinata alla morte. La fine della storia è senza parola.

I «comunicanti», aggiunge, dicono solo ciò che sanno, mentre la parola è dotata di altri poteri:

Ogni termine, molto precisamente, designa l'ignoto. Quello che non sai, dillo. Quello che non hai, dallo. Quello di cui non si può parlare è ciò che bisogna dire.

In verità, come osserva giustamente Fabio Merlini, può esserci scambio di informazione senza comunicazione e si può comunicare senza informazione: nel mondo dell'interconnessione la comunicazione è continuamente interrotta.

Cooperare senza parlare è, infatti, la rappresentazione del mercato che Friedman propone per descrivere l'attuale modo di produrre e distribuire la ricchezza. La persona, il parlante, non hanno alcun ruolo nell'attuale organizzazione dell'economia.

La mano invisibile regola meccanicamente la nostra vita fisica secondo la selezione dell'impulso che presiede alla conservazione e riproduzione della specie.

Il matrimonio fra economia e tecnica sta completando l'opera di «animalizzazione» della specie umana, iniziato con il primato dell'economia. Come scrive Boncinelli:

Stimolatori, inibitori, regolatori del ritmo, micropompette che rilasciano medicinali in loco con una cadenza prestabilita, microchip impiantati negli arti o nella testa per sentire, vedere o agire e domani, chissà, micromonitor endocranici: il nostro corpo sembra sempre più vicino a essere popolato da congegni elettromeccanici mirati, magari piccoli o piccolissimi, senza contare che può spesso fungere esso stesso da buon conduttore di impulsi elettrici. Qualche anno fa si parlò con una certa insistenza di cyborg, un termine nato dalla contrazione della locuzione «organismo cibernetico», per designare appunto un corpo che porta in sé o su di sé un certo numero di congegni cibernetici. Si trattava di prospettive remote o di pura fantasia. Oggi sembra che qualcosa del genere si possa veramente fare, almeno in caso di bisogno. In un prossimo futuro dobbiamo attenderci grossi sviluppi in questo campo, sia che si tratti di correggere errori ereditati o acquisiti presenti in determinati individui sia che si tratti di estendere oltre l'immaginabile le facoltà di ciascuno di noi. Poiché però tale prospettiva non è delle più allettanti dal punto di vista psicologico, è lecito prevedere che in un secondo momento molti di questi congegni avventizi verranno resi organici o quasi organici in un processo di naturalizzazione degli artefatti e di concomitante modificazione strisciante dell'organico, che non sappiamo proprio dove ci porterà.

Dove ci porterà, lo scrive lo stesso Boncinelli:

Nella diffusione di Internet si può vedere l'inizio di un processo di grande respiro e di imprevedibile portata. L'invenzione della stampa ha messo a suo tempo tutti gli uomini potenzialmente in grado di possedere la totalità delle cognizioni esplicitabili – sottolineo esplicitabili – esistenti al mondo. Internet promette, o minaccia, di rendere attuale tale potenzialità. Se questo si realizzerà, la mente di ciascuno di noi entrerà, se vorrà, sempre più spesso in un giro di menti, come dire a far parte di una collettività di cervelli pensanti, aggregati in tempo quasi reale. La cultura e la tecnica cospirano, con la complicità dei computer e delle telecomunicazioni, a creare una maximente collettiva artificiale, sovrapposta ai singoli cervelli naturali anche se fondata ovviamente su di essi. Restano esclusi, per ora, gli apprendimenti procedurali, compresi i comportamenti e le disposizioni d'animo.

Il tentativo di «adattare», fino alla coincidenza, «macchina» e «corpo umano», ridotto sempre più a ricettore e trasmettitore di impulsi elettrici e chimici non ha impedito, come si diceva, l'incremento della «violenza» e anzi l'ha resa più feroce e diffusa.

Non è certo una pura coincidenza il fatto che più si è impoverito il ruolo della parola e più si è ampliato lo spazio della violenza. Violenza è la guerra infinita che, sotto l'etichetta mistificante dello scontro di civiltà e della lotta al terrorismo, ha reso possibile la globalizzazione del terrore e della paura e ha seminato l'inimicizia più spietata fra uomo e uomo. Violenza è lo scatenarsi dell'aggressività nella vita quotidiana e persino nei rapporti intrafamiliari.

Violenza è anche la manipolazione, sempre più penetrante, della vita individuale, attraverso l'eliminazione di ogni spazio sociale dove si è fin qui realizzata la mediazione fra la psiche e il mondo storico. L'immagine della violenza, dei corpi dilaniati, delle esplosioni nei luoghi centrali delle città e nei luoghi di culto, la visione di bambini trasformati in proiettili viventi, ha invaso i nostri spazi mentali fino alla saturazione di ogni fantasia di reciprocità amorevole. A questa rottura del nesso fra parola e governo della violenza corrisponde il mutamento lessicale del linguaggio filosofico-politico.

Il lessico della biopolitica, che imperversa nei giornali e nella pubblicistica è, infatti, perfettamente corrispondente a questo fallimento della parola: potere di dominio e manipolazione su corpi inermi e nudi che possono essere dilaniati in vista di qualsiasi scopo. La politica ridotta a puro dominio e a pura manipolazione e la vita ridotta a mera fisicità organica, disponibile a recepire qualsiasi intervento. Se la vita è pura reazione chimica ed elettrica al flusso delle informazioni, è inevitabile che il governo delle informazioni divenga il dispositivo immanente di ogni processo umano, niente di più e niente di diverso di quanto accade nel mondo animale.

Quanto questa rappresentazione sia «realistica», e quanto allo stesso tempo totalmente «ideologica», è il paradosso che caratterizza questa forma di teoria, nella quale sembrano convergere i risultati e gli obiettivi del neo-scientismo e della neuroscienza e l'antica volontà di potenza della metafisica.

Se si considera, infatti, la «storia» che abbiamo alle spalle, non si è mai dato un potere totale capace di assoggettare interamente una persona umana, né è possibile rintracciare, neanche nel nostro passato più remoto, un'epoca nella quale la vita coincidesse con la pura fisicità: dalla ricerca storica, antropologica, archeologica si evince che da sempre gli nomini si sono incontrati nella parola, che non è assimilabile allo scambio di informazioni del mondo animale, e che ha, da sempre, mediato il rapporto fra lo psichismo individuale e collettivo e il mondo esterno delle «cose» e degli «altri». Persino l'orgasmo, che sembra il punto più specificamente fisico dell'incontro fra uomini, è un'esperienza che non si lascia assimilare a quanto accade nel mondo animale.

Quanto al potere, è sempre stato il risultato di un conflitto fra uomini in carne e ossa; è sempre stato l'effetto di una vittoria di una parte sull'altra e non esiste nessuna esperienza di totale annichilimento dell'alterità se non mediante la soppressione fisica dei vinti.

Se poi si vuole porre la questione sul terreno filosofico, non si capisce quali siano gli elementi primi che danno origine alla coppia oppositiva, a meno che non si assuma una nozione di «essere» che si trasformi differenziandosi, ma in questo caso saremmo in piena metafisica che, come ormai dovrebbe essere chiaro — e come cercherò di argomentare nel corso di questo scritto — è una manifestazione della volontà di potenza di una parte soltanto della specie umana che «gode» della sottomissione degli altri (una specie di connubio fra neo-spinozismo e neo-darwinismo, benedetto dalla teoria dei sistemi di Luhmann ).

La teoria della biopolitica è, in realtà, la forma che assume oggi la sovrastruttura del potere intellettuale sul resto della società, manifestando lo stesso obiettivo manipolativo che vorrebbe criticare.

Sul piano fenomenologico, vige ancora nell'esperienza umana un bisogno di comunicare — oltre l'informazione — qualcosa che non si lascia ridurre a un puro dato di fatto e, ancora, ciascuno di noi avverte lo scarto fra la parola a cui si consegna come persona e l'omologazione discorsiva dei linguaggi stereotipi dei nuovi media.

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Capitolo quinto

Il monoteismo della ragione e la lotta dei sensi


Il monoteismo della ragione

Tutto ciò che abbiamo vissuto come una produzione psicoculturale specifica della condizione umana e delle sua attitudine a creare spazi simbolici non puramente funzionali, viene ripresentato oggi, in termini assolutamente scientifici, come catene di reazioni chimiche, elettriche, di neuroni e sinapsi, prive di ogni possibile intenzionalità e decisione.

Poiché questo è l'esito paradossale che abbiamo visto nella prima parte di questa riflessione: il logos, «inventato» come strumento per rendere lo spirito autonomo dalla materia, la mente dal corpo, il trascendentale dall'empirico, si è risolto nel suo contrario, nella biologizzazione della vita. L'imitazione della natura e la scoperta delle sue leggi si è capovolta nella naturalizzazione dello spirito e la coscienza è divenuta una funzione della biologia.

La biologizzazione della vita segna, perciò, anche la fine del carattere simbolico del linguaggio. Il valore simbolico del linguaggio è legato, infatti, alla capacità della parola di sostituire la cosa e la realtà dell'esperienza; capacità dovuta sia allo sviluppo della metafora come istituzione di rapporti di somiglianza fra le parole, sia al sostegno della metonimia che segnala la prossimità della cosa alla parola. Grazie alla metafora il linguaggio può trascendere la propria fisicità, grazie alla metonimia si garantisce la solidarietà fra la parola e la cosa. Stando così le cose, il valore simbolico del linguaggio, legato al rapporto bipolare di metafore e metonimia, dipende sempre dallo scarto fra parola e realtà, nel senso che la parola non è in grado di esprimere la totalità delle determinazioni concrete. Come dice Jaynes, ci imbattiamo così in un interessante paradosso:

Se infatti riusciremo mai a pervenire a una lingua che abbia il potere di esprimere qualsiasi cosa, la metafora non sarà più possibile. In tal caso io non potrò dire che il mio amore è come una rosa rossa, poiché la parola amore si sarà frantumata in migliaia di termini esprimenti le sue mille sfumature, e l'applicazione ogni volta del termine corretto lascerà la rosa metaforicamente morta.

La coincidenza di parola e cosa, che consegue alla biologizzazione della coscienza, tende a realizzare praticamente questo paradosso: niente può essere simbolizzato perché tutto coincide in processi naturali, compresa la coscienza che è una funzione del meccanismo neuronale del cervello.

Non solo la filosofia coincide con la scienza, ma anche quest'ultima coincide con la descrizione delle neuro-scienze e non lascia alcuno spazio all'accadere di un evento simbolico. Paradossalmente, il codice simbolico della metaforizzazione del mondo produce l'esaurimento della simbolizzazione:

In una società in cui la materializzazione va distruggendo i contenuti dello scambio sociale, la polemica tra i due princìpi della produzione simbolica sembra destinata a risolversi con la prevalenza del principio metaforico e la conseguente chiusura del linguaggio in una totalità fondamentalmente senza storia, così come si presenta in Lacan.

Se non si vuole registrare puramente e semplicemente questo enorme mutamento di visione come un'evoluzione necessaria dell'autocoscienza umana che si nega nella sua meccanicità materialistica, dobbiamo provare a ricostruire la genealogia dell'attuale stato di cose. Da dove nasce questo meccanicismo razionalista che riduce la stessa ragione a una funzione biologica del processo di selezione della specie?

Nel corso di questi anni, ho cercato di reagire a questo declino della creatività individuale, a questa deresponsabilizzazione generale, mettendo in campo tutto ciò che mi è parso resistere alla razionalizzazione totale della vita, alla sua calcolabilità programmata. Ho cercato di far leva sulla rimozione delle passioni, sull'occultamento del ruolo dei codici simbolici e dell'immaginario, ma mi sono spesso imbrigliato nel paradosso che non si può fare la critica della ragione in nome della ragione, e nella trappola dell'imprescindibilità del linguaggio.

Ho provato, allora, a muovermi sul terreno della genealogia del processo attuale e, in particolare, delle discontinuità che si possono riscontrare in questi trionfali percorsi del logos occidentale.

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L'esperienza della mancanza e la ricerca di identità

Da dove partire per incontrare il mondo? Dall'altro, dalla realtà, da noi stessi. Se non incontriamo l'altro, qualcosa che ci resiste, non assimilabile, non riusciamo neanche a nominare il «proprio» che ci costituisce. L'interfaccia del nulla è il nulla e nessuno è in grado di autocertificarsi.

Dobbiamo dare per assunto il fallimento della comunicazione, il rapporto tra l'esplosione della comunicazione e la solitudine angosciata. Osservando una comunicazione stereotipa, nella contrapposizione tra pretesa e aspettativa non c'è rappresentazione del «senso». Vi è una rottura del rapporto tra parola, rappresentazione, e affetti. Un blocco del pensiero, una deriva delle emozioni. La violenza è il fallimento delle parole; l'identità dei parlanti è stata travolta dalla crisi del soggetto moderno, dalla desostanzializzazione del soggetto. Il soggetto moderno è nessuno o «chiunque», e al di là delle vicende teoriche, il suo destino è segnato nella sua costituzione. Il soggetto è una forma vuota, un universale senza contenuto, incapace di trattenere la «contingenza» dell'individuo concreto, è un contenitore assoluto, che non contiene nulla, in quanto è indifferente a ciò che contiene, è privo di «natali» e quindi non riceve «un'impronta». Il soggetto moderno non può rispondere alla domanda «chi parla e cosa dice» perché è tautologico, è ridotto al logos, quindi la differenza è priva di dignità ontologica e così pure di identità individuale, e l'individuo moderno non è «reale».

L'identità è declinata nella forma del logos universale, del soggetto generale e astratto, del neutro, e perciò è priva di consistenza, è empirica, contingente, transeunte. La soggettività moderna distrugge l'identità, impedisce di «parlarne». Intendiamo per identità il proprio nel suo originario costituirsi come insorgenza dell'autoriferimento, del riferirsi a sé, e per soggettività l'autorappresentazione, l'appropriazione del proprio, il «presentare» a sé e agli altri il proprio, ciò che ci costituisce. È evidente lo svuotamento dell'identità che si compie nella modernità, giacché il proprio del soggetto moderno è tautologicamente risolto nel suo essere soggetto. L'identità è l'universale capacità di autorappresentarsi di fronte all'altro, ma l'altro è un mero alter ego.

Il pensiero delle donne si inserisce in questa crisi della soggettività moderna e fa una critica della scissione tra ragione e passione attraverso le pratiche e l'esperienza per sottrarsi alla parabola del soggetto moderno. Nel costruire un pensiero critico, bisogna evitare ogni chiusura autoreferenziale, poiché un'identità radicata nella differenza ma scissa dalla relazione nega coappartenenza del sé e del non sé; è l'area della coabitazione degli aspetti temporali e del conflitto, dell'ambivalenza. In definitiva, è necessaria l'assunzione dell'esperienza della mancanza.

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Capitolo ottavo

Maria Zambrano e la «parola perduta»


Un pensiero differente

            L'uomo ha vissuto in preda alla forza terribile delle
            sue passioni, ha conosciuto il regno dell'indistinto,
            la «forza del sangue» e ha accettato, per uscirne,
            prima la filosofia in Grecia, poi il Cristianesimo
            [...]. Entrambe [...I hanno coinciso in una verità
            suprema, in un principio. «Al principio era il
            verbo»: il verbo, la parola, la ragione creatrice e
            ordinatrice, la misura, la liberazione e l'uscita
            dalla forza tragica delle passioni.



Ho trovato una profonda affinità tra il pensiero che cerco di esprimere da diversi anni e le riflessioni di Annarosa Buttarelli nel suo libro su Maria Zambrano, in particolare un comune senso di rivolta verso una forma di dominio astratto del pensiero filosofico sistematico, della razionalità calcolante, di tutto ciò che, in qualche misura, produce questo modo di essere del mondo sempre più derealizzante e desostanzializzante.

Gli estremi risultati della logica razionale formale, del pensiero sistematico, della logica calcolante, con la sua implicita facoltà di dominio, oggi sono l'esplosione della questione della tecnica e del suo dominio sulla vita. Questo mi fa trovare nelle riflessioni di Annarosa Buttarelli più che una stimolazione a rivedere posizioni per lungo tempo sostenute: credo che si debba rimettere in campo tutto ciò che appartiene a una sfera che la tradizione maschile ha cancellato.

Un'altra ragione per cui sento un'affinità di fondo riguarda il rapporto tra mito e ragione, che è uno dei temi più intensi e attuale. Oggi andrebbe affrontato per capire come, nonostante l'apparente demitizzazione e desacralizzazione della vita, siamo reimmersi in queste dimensioni, senza tuttavia saperle individuare e articolare rispetto al mondo quotidiano.

Mi affascina il modo di porre la questione del pensare, non nei termini in cui solitamente nella mia esperienza, anche politica, mi sono dovuto confrontare – ovvero con una richiesta di una parità di potere e con una richiesta di eguaglianza formale nei termini tradizionali dell'eguaglianza giuridica, di cui in passato ho cercato di fare una critica, non solo in nome delle donne ma anche in nome degli uomini – ma con un'idea diversa dell'emancipazione, che può, invece, aprire una fase produttiva di scambio nuovo tra ciò che rappresenta l'essere donna e ciò che rappresenta l'essere uomo.

Questa è una riflessione necessaria oggi, in un momento in cui il pensiero maschile si è praticamente esaurito, in un momento in cui la modernità e l'Occidente sono arrivati al capolinea, nel senso che hanno reso tutto astratto, precludendo ogni possibilità di vera trasformazione. Il logos maschile è un pensiero tautologico che ripete ciò che è detto nel soggetto; bisognerebbe quindi rimettere in discussione una serie di postulati del pensiero, come il principio di non contraddizione.

Ho più volte sottolineato come ci sia una logica dell'inconscio assolutamente disfunzionale rispetto alla logica formale, e che incorpora sia il principio di non contraddizione che il principio di contraddizione con il principio di una logica diversa. Queste cose hanno un valore particolare se sono sostenute e argomentate da una donna, ma se le dice un uomo viene considerato poco rigoroso nel parlare. Dire, come talvolta mi capita, che «vergine - madre - figlia del tuo figlio» è una delle formule più intense con la quale si possono descrivere rapporti che non sono riducibili alla semplicità lineare del soggetto e del predicato, è ritenuta una narrazione filosofica che manca di rigore. Per una donna invece questa affermazione è consentita, perché conferma e autorizza la perpetuazione del principio per cui quello che dicono le donne è libero ma è assolutamente irrilevante.

Silvia Vegetti Finzi, in un saggio sull'immaginario condiviso, ha affermato che il problema della differenza sessuale è il più grande problema filosofico, esistenziale e vitale, di cui gli uomini e le donne dovrebbero farsi carico, mentre invece è relegato nella contingenza e non rientra nella discussione dei princìpi fondamentali del nostro vivere in comune.

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