Autore Eugenio Baroncelli
Titolo Gli incantevoli scarti
SottotitoloCento romanzi di cento parole
EdizioneSellerio, Palermo, 2014, La memoria 979 , pag. 122, cop.fle., dim. 12x16,8x1 cm , Isbn 978-88-389-3259-5
LettoreFlo Bertelli, 2015
Classe narrativa italiana












 

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Indice


Gli incantevoli scarti


Prologo                                         11

L'altro ieri. Epopee pre-elettroniche
Chi cerca trova                                 15
Fesso chi legge                                 15
Ieri, più indietro, molto indietro              16
Rinaldo Decibel                                 16

Carta incanta. Romanzi epistolari
Clara                                           21
Fois                                            21
Regali                                          22
Mandalay                                        23
Pioverà                                         23

Ci vuole. Racconti sensuali
Ci vuole gusto                                  27
Ci vuole occhio                                 27
Ci vuole orecchio 1                             28
Ci vuole orecchio 2                             29
Ci vuole tatto                                  29


[...]


 

 

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Pagina 11

Prologo



C'è una sola specie di scrittori: quella che sfida la promettente tentazione di scrivere e, quasi sempre, sarà la vanità, sarà perché resistere a una tentazione non fa che alimentarla, perde. Restano dunque due sottospecie di scrittori: i magri e i grassi.

Uno, Chrétien de Troyes, francese della Champagne, legislatore o araldo, è obeso. Vegliò mille e una notte e sciorinò novemila versi regolati per raccontare la storia di un solo uomo. Uno, l'argentino Enrique Banchs, è un fil di fumo. Nel giorno di Natale del 1911, poeta di sonetti meticolosi, all'improvviso si azzittì. Sarebbero seguiti cinquantasette anni di meticoloso silenzio. Un altro, siciliano di Alì Terme, non la finiva più. Covò quel suo romanzo per diciotto anni, come fosse una vita, finché il suo editore, esasperato, per pubblicarlo dovette letteralmente strapparglielo di mano: 1257 pagine, due labirintiche impaginazioni, mesi febbrili di correzione delle bozze. Altri, gli anonimi estensori del Talmud babilonese, seguirono una fulminea ma venerabile dieta: tagliavano la prima pagina di ogni capitolo, costringendo il lettore a cominciare dalla seconda, perché nessuna pagina potesse essere tacciata di imporre una spiegazione forzata della Parola di Dio. Gustave Flaubert, francese dell'Alta Normandia, e Quim Monzó, catalano di Barcellona, stanno nella famiglia dei pentiti, tutti e due grassi ma non ignari delle virtù della magrezza. Uno ammise: «Le pagine centrali dei libri lunghi sono pessime». L'altro, che ancora adesso scrive pagine e pagine, di rubriche giornalistiche, di racconti e perfino di romanzi, in una si è tradito: «Le cose debbono cominciare sempre e non continuare mai».

Ci sarebbe anche il perfetto silenzio, ma non fidatevi. Se non è quello dell'irlandese Beckett, che tuttavia per conquistarlo dovette scrivere molte pagine balbettanti, è la croce di chi lettori non ha.

In breve: uno è breve e uno è lungo, uno è magro e l'altro grasso, ma fatuo è il metraggio di tutti.

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Pagina 15

Chi cerca trova

Veramente si trova sempre quel che non si cerca, e mai quel che si cerca. Per esempio l'appunto con l'orario del sospirato arrivo di Zoe a Fiumicino. Ulpiano frugò senza successo tutta la casa. Pregava ancora il dio che ci nasconde le cose, quando, fra due camicie che non indossava più ma che non osava buttare, trovò la lettera di Adua. Sapeva che rileggere è sguazzare nell'irrevocabile passato, ma la rilesse. A noi, suoi contemporanei, potrebbe riassumerla così: «Arrivo a Rimini con l'accelerato delle otto e ventidue». Che ora è? Le otto. Se corre, se ha fortuna, può farcela.

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Pagina 33

Amalia

Amalia aveva la fobia del fuoco. Bastava che vedesse un incendio, anche alla TV, e correva via per lo spavento. Amalia aveva la mania delle pulizie. Teneva più scope in casa lei che un grossista di scope in magazzino. Amalia aveva il tormento dell'età. Ogni due anni, manomettendo pendole, rughe e passaporto, se ne toglieva uno. Alfonso la capiva. Pagò il suo calendario più venale perché, offeso, si decidesse a ristabilire la verità. Convinse una tempesta di sabbia del deserto di Mojave a seppellirle la casa. Affittò un tramonto rosso come il sangue perché con quella sera incendiasse lei.

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Pagina 57

Aurora

La casa di Aurora è in arenaria, dipinta coi colori del tramonto. Dal portaombrelli sporge il pomo del suo bastone da passeggio: il muso di un lupo celibe del Gran Sasso. A una gruccia del guardaroba è appesa la sua pelliccia: mangiata da tarme che non si sentono rodere. Il suo parquet è un deserto: polvere buona per il vento. Il suo letto è rifatto, ma non così bene da nascondere certe recenti imperfezioni. Vi giuro: il mio racconto è spassionato. Andai avanti a scrivere finché la casa, col favore della notte, non diventò la tenebra in cui si brancola.

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Pagina 66

Vita di Samuel Beckett in quattro daccapo

Nato a Foxrock, nella ventosa contea di Dublino, non fu mai un buon irlandese, salvo quando si trattava di disprezzare l'Inghilterra.

Si esiliò in Germania, dove, assorto davanti a quadri fiamminghi, imparò a tacere in un'altra lingua.

Stette nell'inconsolabile (e lui, di consolante, ha questo: che non consola).

Sta, magro come gli anoressici, magro come il minimo nel tenue tenuissimo, magro come i suoi ultimi romanzi, nella stanza di Tiers Temps, quell'ospedale geriatrico di Parigi. Fra le labbra, fosse bianche dalla cucitura invisibile finita, stringe la milionesima sigaretta. Nella tasca tiene scorte di biscotti per i colombi.




Enrichetta Blondel, la vita in emme

Madre: Maria Mariton. Milano, 1807: mira Manzoni. Milano Municipio, mese minore 1808: Messa mancata. 1810: mentore Marescalchi, muta morale. Morone 1171: moglie minata. Maiuscola Mano misteriosa, magari minuscole manovre mortali, matriarcali maneggi Madame Manzoni, maschie molestie maritali marchiarono minuta minorenne multilingue. Mitigherà minchia mannara. Monaca monca, mette mutande melanconiche. Madre molteplice, misurerà mesi maestosi. Maturerà magri miracoli: Matilde, mettiamo. Marezzati monili mascherano membrana macerata. Madonna menomata, meriterà mestrui mitologici. Mangerà meno, molto morirà. Magicamente manovrò miti martirii. Mondò menti maligne. Mai manomise misere misericordie. 1833, mese materno: muta, miope, migrante, mancò. Meno male. Monotona morale micidiale: matrimonio maternità malattia morte.




Giustiniano II, re prezioso

Eppure c'è chi alle protuberanze tiene. Deposto dalla solita congiura di palazzo nel 695, mutilato di naso e orecchie, confinato in un buio angolo dell'attuale Crimea, dieci anni dopo rientra trionfalmente a Costantinopoli, per farsi riacclamare imperatore, con la faccia ricostruita da un orafo chirurgo in puro oro zecchino. Più bella e preziosa di prima, così preziosa che, detronizzato un'altra volta nel 711, sperduto in qualche grotta dell'Asia infinita, qualcuno gliela spiccò dal busto, la ripulì, la lucidò, segretamente la vezzeggiò e gelosamente la custodì nella bisaccia, come si fa con un tesoro da mettere in banca.

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Pagina 75

Piove

Ci sono fattucchiere inclini al malaugurio? Ascanio se lo chiede perché a Celeste, che invece di leggere i libri si fa leggere la mano, la zingara ha fatto la fattura dell'eterna felicità. Se la mano è un cielo, nella sinistra di Celeste non pioveva mai.

«Debbo parlarti», le diceva.

«Non c'è tempo. Ho appuntamento con la zingara».

«Mi ami?», le chiedeva.

«Vedremo. Lascia che lo chieda alla zingara».

«Ti lascio», le gridò.

«Macché. La mano non lo dice».

Così, un giorno, visitò lui la zingara, perché le leggesse lei, su quel palmo asciutto come un deserto, questo romanzo nuvoloso.

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Pagina 91

Héctor

Va al cinema, e a metà strada si ricorda che è rimasto a casa. Qual era il titolo? Mentre ci pensa, pensa: «Qual era la domanda?». Héctor ha perso la memoria. Non si ricorda più cos'ha dimenticato. Un giorno, mentre il sole fa il suo giro noiosamente immortale, incontrò Gilda, occhi mai visti, bocca unica, e perdutamente se ne invaghì. La corteggiò, la invitò a pranzo e a cena. Le disse: «Ma come ho fatto a non vederti prima?». Le giurò amore eterno, come un ragazzino. Gilda si meraviglia, perché è stata il più sfortunato dei suoi vecchi amori.

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Pagina 101

Viola

Ecco qua: una piovosa cartolina da Vancouver e una assolata da Veligandu, due righe umide da Vientiane e due sapienti da Varanasi, un biglietto goloso da Vienna e uno, timorato, dalle Isole Vergini, saluti e baci pallidi da Wellington, che sta nell'altro mondo (alla zeta di Zanzibar non è arrivata). Con Viola si faceva il giro del mondo restando a casa. Beata lei, che a casa ritornava soltanto per rifare la valigia. Povera Viola. Chi ha fatto caso all'imperfetto ha già capito: l'abbiamo seppellita l'altro ieri. Partire è un po' morire, ma morire è partire un po' troppo.

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Pagina 107

Legal Eagle

Siete avvertiti: dell'aquila Giampiero, il mio avvocato, non aveva niente, fuorché gli artigli per derubarmi.

Diamante e io ci litigavamo le matite. Quella che a me serviva per barrare le frasi infelici di questo romanzo lei la rubava per infilarsela nello chignon, come le geishe. Quella che a lei serviva per colorare gli occhi, gliela rubavo io, per ravvivare le frasi più scialbe. Chi era il più dispettoso? Siccome non riuscivamo a stabilire la verità, chiedemmo a Giampiero: è a questo, dopotutto, che servono gli avvocati. O no? Lo chiedo perché lui mi ha rubato lei e lei l'avvocato.

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