Copertina
Autore Brunonia Barry
Titolo Le lettrice bugiarda
EdizioneGarzanti, Milano, 2009, Narratori moderni , pag. 392, cop.ril.sov., dim. 14,5x22,2x4 cm , Isbn 978-88-11-68643-9
OriginaleThe Lace Reader [2006]
TraduttoreStefania Cherchi
LettoreAngela Razzini, 2009
Classe narrativa statunitense
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Pagina 11

1.



Il mio nome è Towner Whitney. No, non è esatto. Il mio vero nome di battesimo è Sophya. Non dovete credermi. Mento continuamente.

Sono pazza... e questo è vero.

Mio fratello minore, Beezer, più gentile di me, dice che la mia è una pazzia genetica. «Siamo pazzi da cinque generazioni», afferma, come se fosse un distintivo da portare con orgoglio, sebbene ammetta che io potrei aver alzato il livello della nostra pazzia.

Prima della mia nascita, la famiglia Whitney era già ciò che a Salem si amava definire un gruppo di persone strambe. I salemiani di vecchio conio, anche se quel conio era da tempo fuori corso, non venivano mai chiamati «pazzi». Magari «strani», o addirittura «stravaganti», ma l'espressione di gran lunga preferita era «strambi».

Nel corso delle generazioni, tutti i maschi Whitney sono stati famosi per le loro stramberie: dai capitani di mare e d'industria fino a mio fratello minore Beezer, rinomato nei circoli scientifici per i suoi articoli sulla fisica delle particelle e sulla teoria delle stringhe.

Il nostro trisavolo, per esempio, mise a profitto la sua fissazione per i piedi delle donne costruendosi una brillante carriera di capitano d'industria nel fiorente ramo delle scarpe Lynn, attività trasmessa poi da una generazione all'altra fino a mio nonno, G.G. Whitney. Il padre del trisavolo, capitano nel senso letterale del termine, amava annusare la cannella con una passione che molti consideravano ossessiva. Finì per costruire una flotta di navi per il commercio delle spezie che solcò tutti i mari, facendo di Salem uno dei porti più ricchi del Nuovo Mondo.

Eppure tutti ritengono che siano le donne della famiglia Whitney ad avere il primato in fatto di stranezza. Mia madre May, per esempio, è una contraddizione ambulante. Pur vivendo come una reclusa (a parte le volte in cui è stata arrestata, non lascia la sua casa sull'isola, Yellow Dog Island, da quasi vent'anni), è riuscita a resuscitare un'industria del pizzo fatto a mano defunta ormai da lungo tempo, conquistando per questo una certa fama. Ha anche ottenuto una considerevole notorietà per avere soccorso donne e bambini vittime di abusi e dato una nuova svolta alla loro vita, assumendo le donne nella manifattura del pizzo e facendo scuola ai loro figli a casa sua. E tutto ciò da parte di una persona che soffriva di una terribile agorafobia, ma che soprattutto, in uno slancio di generosità, aveva regalato una delle sue figlie a una sorellastra sterile, Emma, perché, come disse allora, la poveretta ne aveva bisogno e lei aveva avuto la fortuna di avere due gemelle.

Anche la zia Eva, che mi ha fatto da madre più di quanto abbia mai fatto May, è piuttosto stramba. A ottant'anni passati gestisce ancora una sua attività, ed è nota sia come «bramina» di Boston (cioè discendente diretta dei coloni protestanti) che come strega di Salem, pur non essendo nessuna delle due cose. In realtà Eva è un'unitariana della vecchia scuola, con tendenze trascendentaliste: crede in Dio, ma rifiuta l'idea di Trinità, e cita tanto le Scritture quanto Emerson e Thoreau.

Per trentacinque anni della sua vita ha gestito una sala da tè per signore e dato lezioni di buone maniere ai figli delle famiglie più abbienti di Boston. Ma ciò per cui sarà ricordata è la sua inquietante abilità nel leggere il pizzo. Eva sa dirti con notevole precisione il tuo passato, il tuo presente e il tuo futuro solo sollevando il pizzo davanti agli occhi socchiusi. Viene gente da tutto il mondo per farsi leggere il pizzo da lei.

In un modo o in un altro, tutte le donne Whitney sono lettrici. Mia sorella gemella, Lyndley, affermava di non saperlo fare, ma io non le ho mai creduto. L'ultima volta che ci provammo lei vide nella trama del pizzo le stesse cose che vedevo io, e ciò che vedemmo la portò a fare le scelte che finirono per ucciderla. Quando Lyndley morì, giurai di non guardare mai più un pizzo in vita mia.

È una delle poche cose su cui Eva e io ci siamo trovate in forte disaccordo. «Non è che il pizzo avesse torto», ha sempre insistito lei. «Piuttosto, l'interpretazione della lettrice era sbagliata.» So che in teoria ciò dovrebbe farmi sentire meglio. Eva non dice mai niente per ferire intenzionalmente le persone. Ma quella sera Lyndley e io avevamo interpretato il pizzo nello stesso modo, e anche se le nostre scelte avrebbero potuto essere diverse, niente di ciò che Eva dice potrà restituirmi mia sorella.

Dopo la morte di Lyndley, fuggii da Salem e mi trasferii in California, cioè nel posto più lontano in cui potevo andare senza cadere dal bordo del mondo. So che Eva vorrebbe che tornassi a casa. Per il mio stesso bene, dice. Ma io non riesco a farlo.

Poco tempo fa, quando mi hanno fatto l'isterectomia, Eva mi ha mandato il suo cuscino da pizzo, quello che usa per fare i merletti. Mi è stato recapitato in ospedale.

«Che cos'è?» mi ha chiesto l'infermiera, osservando i fuselli ancora attaccati e la striscia di pizzo lavorata a metà. «Un cuscino?»

«Sì, è un tombolo per fare il pizzo», le ho risposto. «Il pizzo di Ipswich.»

Mi ha guardato senza espressione. Non sapeva cosa dire, perché non somigliava affatto ai cuscini che aveva visto fino a quel momento. E poi cosa diavolo era il pizzo di Ipswich?

«Cerca di premerlo contro la sutura se ti viene da tossire o da starnutire», mi ha detto alla fine. «È per questo che usiamo i cuscini, da queste parti.»

L'ho ispezionato con le dita per trovare la tasca segreta all'interno della fodera e ci ho infilato la mano alla ricerca di un bigliettino. Niente.

So che Eva vorrebbe che ricominciassi a leggere il pizzo. Secondo lei questa abilità è un dono di Dio, e noi siamo tenute a onorare un simile regalo.

Immagino il biglietto che avrebbe potuto scrivermi: «A chi molto è stato dato, molto sarà richiesto», Luca, 12:48. Citava sempre questa frase a riprova della sua teoria.

Io so leggere il pizzo e anche il pensiero,,ma non mi sforzo di farlo, semplicemente mi capita, a volte. Anche mia madre sa fare entrambe le cose, ma con gli anni è diventata una donna pratica e ha capito che conoscere quello che c'è nella mente di una persona o il suo futuro non è sempre nell'interesse di qualcuno. E probabilmente questo è l'unico punto su cui May e io siamo mai state d'accordo.

Quando ho lasciato l'ospedale ho rubato una federa. Il nome dell'Hollywood Presbyterian era stampato su entrambi i lati. Ci ho infilato dentro il cuscino di Eva nascondendo i fili, il pizzo e i fuselli d'osso che dondolavano come pendoli di Poe in miniatura.

Se c'era un futuro per me, e in quel momento non ne ero affatto sicura, non volevo correre il rischio di leggerlo nel pizzo.

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Quando ero all'ospedale psichiatrico, dopo il suicidio di Lyndley, firmai un'autorizzazione per essere sottoposta a elettroshock. Quel trattamento andava contro i consigli di Eva e di sicuro anche contro quelli di May (il che fu uno dei motivi per cui decisi di farlo), ma i dottori lo raccomandavano caldamente. Ormai ero in ospedale da sei mesi. I medici avevano provato tutte le solite medicine contro la depressione, però non c'era ancora il Prozac e i farmaci che avevano a disposizione non erano del tutto efficaci. Inoltre mi avevano messo sotto antipsicotici per le allucinazioni. Prendevo così tanta stelazina da non riuscire più a deglutire né a parlare, eppure non serviva granché. Da sveglia vedevo sempre Lyndley in piedi sulla scogliera, protesa verso il vento come la polena di un antico vascello, pronta a saltare. Nei miei terrori notturni rivedevo il padre adottivo di Lyndley, Cal Boynton, sbranato dai cani. A un certo punto cominciai a capire che quest'ultima immagine era un'allucinazione, anche se quando ero stata ricoverata credevo davvero che i cani avessero sbranato Cal e che lui fosse morto. I dottori la chiamavano «fantasia che realizza un desiderio», o qualcosa del genere.

Be', Cal non era morto, ma mia sorella Lyndley sì. E per quanto mi sforzassi non riuscivo a togliermi quelle due immagini dalla mente. Pensavo, o almeno così i dottori mi avevano detto, che l'elettroshock avrebbe potuto liberarmene, e fu per questo che firmai. Non vedevo l'ora. La reazione di May a questo nuovo sviluppo fu di mandarmi una copia della Campana di vetro di Sylvia Plath. Non me lo portò, notate bene: May non venne a trovarmi in ospedale nemmeno una volta. Me lo mandò tramite Eva, alla quale aveva ingiunto di leggermelo personalmente ad alta voce se necessario.

«Farò l'elettroshock», fu tutto ciò che dissi a Eva.

Non fu tanto orribile, o perlomeno l'esperienza che ne feci io non lo fu. E funzionò. Ci vollero varie applicazioni, ma alla fine le immagini cominciarono ad allontanarsi. Quella relativa a Cal tornò a essere un incubo, un brutto sogno dal quale spesso riuscivo a svegliarmi prima che le cose si mettessero davvero male. E anche se quella di Lyndley non se ne andò mai del tutto, si ridusse a una piccola scatola nera che prese posto fisso nell'angolo sinistro del mio campo visivo. Non era sparita, ma non ero più costretta a guardarla direttamente. Potevo guardare anche altre cose, se volevo, e io lo volevo.

Per la prima volta da che mi ricordavo, avevo un progetto. Mi sarei trasferita in California. Dato che avevo già fatto domanda all'Università della California ed ero stata ammessa, dissi ai dottori dell'ospedale che sarei andata al college come nei piani originari. Ne furono felicissimi. Lo presero come un segno del fatto che ero guarita, che la loro nuova e avanzata apparecchiatura aveva funzionato.

Prima che mi sottoponessi all'elettroshock, in un ultimo tentativo di farmi uscire dalla mia situazione con le parole, Eva mi aveva detto una cosa strana. Non era sconvolta dalle mie visioni. Nella sua professione di lettrice di pizzo, le visioni erano proprio ciò che ricercava. «A volte», disse, «non sono le visioni a essere sbagliate, ma la loro interpretazione. A volte è impossibile capire le immagini se non ci si mette nella giusta prospettiva.» Stava difendendo la psicoterapia nei confronti dell'elettroshock; o almeno questo è ciò che pensai allora. Ciò che invece intendeva dire, e che mi spiegò solo molti anni dopo, è che anche lei aveva visto quelle immagini. Le aveva viste nel pizzo, sia quella di Lyndley sia quella dei cani. Ma le aveva viste come simboli, mentre io avevo creduto che fossero reali.

«La colpa è soltanto mia», disse, ricominciando subito a parlare per luoghi comuni. «Avrei dovuto saperlo.»

Ciascuno ha i suoi metodi per anestetizzarsi.

«Del senno di poi son piene le fosse», disse ancora con un triste sorriso.


L'elettroshock mi cancellò buona parte della memoria recente. Che non mi è più tornata. Ricordo pochissimo di ciò che avvenne quell'estate. Il che probabilmente è positivo, ed è il motivo per cui avevo messo quella firma. Ma quel che è più strano, e che statisticamente capita una volta su mille, è che mi ha cancellato anche una parte della memoria a lungo termine. I medici mi hanno assicurato che sarebbe tornata, ed effettivamente l'ho recuperata quasi tutta. A differenza della maggior parte della gente, che con il tempo perde la memoria, io ricordo ogni giorno di più. Di solito sono frammenti, ma a volte anche storie intere. Ne scrissi alcune quando ero in ospedale, ma quando entrai all'università le avevo esaurite. Resistetti solo un semestre. A Eva dissi che mi ritiravo per via della stelazina, il farmaco che dovevo continuare a prendere, per colpa del quale ci vedevo doppio e non riuscivo a leggere. Era vero, anche se solo in parte. Poi accettai il mio primo impiego come custode di case per un regista che in seguito mi trovò un lavoro come lettrice di sceneggiature, dapprima per lui e poi per una casa cinematografica.

Per un po' Eva cercò di convincermi a tornare all'università. O a tornare a casa per iscrivermi a una scuola di Boston.

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Quando legge il pizzo, la lettrice deve cercare principalmente due elementi: uno che metta in evidenza il disegno o, al contrario, uno che lo interrompa. dalla «Guida della lettrice di pizzo»


16.


Rafferty tolse i fogli dalla fotocopiatrice man mano che uscivano. Una striscia d'inchiostro nero concludeva l'ultima pagina del rapporto, nascondendo la firma dei tre agenti.

Aveva letto tutto ciò che era riuscito a trovare su Angela, ma non era un gran che.

Da ultimo aveva cominciato a esaminare vecchi rapporti, tirando fuori tutte le informazioni riguardanti la famiglia Whitney e in particolare Eva e i problemi che aveva avuto con il suo ex genero, Cal Boynton.

Aveva già controllato ogni ospedale e ogni obitorio lungo la costa. Aveva richiamato anche i genitori di Angela, i quali avevano ripetuto di non averla nemmeno sentita al telefono. Poi aveva chiesto a cinque case di accoglienza dei dintorni e aveva telefonato al gruppo locale che aiutava donne e bambini vittime di abusi. Nessuno aveva visto una persona che corrispondesse alla descrizione di Angela.

Era scomparsa. Di nuovo.

Rafferty andò nel suo ufficio e chiuse la porta. Si versò dell'altro caffè e si sedette a rileggere ancora una volta i rapporti cercando qualcosa che potesse essergli sfuggito. Aveva la mente confusa. La notte prima non era nemmeno andato a letto. E a quanto pareva non ci sarebbe andato molto presto.

Rilesse il fascicolo su Towner e tutti gli altri documenti che aveva trovato sulla sua famiglia. Nei confronti di Cal erano state emesse due ordinanze restrittive: la prima gli proibiva di metter piede su Yellow Dog Island e la seconda, più recente, gli ingiungeva di tenersi alla larga da Eva. Poi c'erano due denunce per percosse, una presentata da Eva e l'altra da May ed Eva insieme la notte in cui Cal aveva rotto la mandibola a Emma. C'era un altro episodio di percosse, ovviamente, quello che aveva accecato Emma, avvenuto a San Diego la notte in cui Cal era scomparso in mare.


Eva gli aveva raccontato il resto della storia. Alcuni pescatori messicani avevano ritrovato Cal al largo di Rosarito Beach. Notando il salvagente arancione che andava su e giù all'orizzonte e la fila di gabbiani che lo seguiva, lo avevano raggiunto con la loro barca. Cal era in fin di vita quando l'avevano ripescato, gli aveva detto Eva.

Quando si era ripreso abbastanza da poter lasciare l'ospedale, Cal era stato portato alla prigione di San Diego, accusato del furto della barca e delle percosse che avevano accecato Emma Boynton.

Secondo la storia di Eva, qualche giorno prima del naufragio Cal era stato espulso dal team dello yacht club di San Diego, perdendo così ogni speranza di vincere un giorno la Coppa America. Si era infilato in un bar sul mare a bere per tutto il pomeriggio. Poi, com'era sua abitudine, era andato a casa ubriaco e si era sfogato su Emma.

Ma le solite botte non erano più sufficienti a calmarlo, ora che il sogno di tutta una vita era sfumato. Così l'aveva picchiata ancora più forte. Le aveva spaccato la faccia contro uno specchio. Lei non la smetteva di fissarlo, avrebbe detto più tardi al giudice. E dicono piangesse mentre raccontava tutta la storia in tribunale. Poi, vedendo in che condizioni l'aveva ridotta, Cal era scappato. Si era nascosto da qualche parte finché non aveva fatto buio, poi si era intrufolato nello yacht club e aveva rubato la barca che era stata costruita per lui. La sua barca. Si era incagliato in un punto imprecisato a sud della città, e la barca era affondata. Mentre Emma lottava fra la vita e la morte con accanto la madre Eva, anche Cal faceva altrettanto. Non riuscendo a calare la scialuppa di salvataggio, aveva afferrato un giubbotto salvagente. Ma era stato trovato solo quarantott'ore dopo.

Quando si era ripreso, Cal era sembrato un uomo diverso. Diceva di aver visto Dio. Là fuori nel mare aperto, senza alcuna speranza di sopravvivere, Cal aveva visto il volto di Gesù. Ed era stato redento.

E così, dopo essere stato tratto in salvo, aveva deciso di dedicare la sua vita a diffondere la Parola.

Aveva raccontato la sua storia a chiunque avesse voglia di ascoltarlo. Aveva visto la sua stessa morte. Giurava che il suo corpo fosse stato smembrato. Aveva sentito le fiamme dell'inferno.

Grazie all'intervento miracoloso del Signore non aveva avuto difficoltà a smettere di bere. Chiunque lo vedesse doveva ammettere che era diventato un altro.

In seguito, il lavoro da lui svolto per il recupero degli alcolizzati gli era valso una riduzione della pena nel processo per le violenze contro Emma Boynton. La quale, per la gravità delle ferite, era ancora in ospedale, ma nel New England, e non poteva testimoniare. La condanna di Cal era stata ridotta a quanto aveva già scontato più sei mesi di lavoro socialmente utile e due anni di libertà vigilata.

A San Diego, Cal aveva fondato la sua setta. Fra i membri, noti con il nome di Calvinisti, si potevano contare persone private dei diritti civili e uomini che avevano commesso violenze in famiglia. Alcuni «convertiti» erano vagabondi, schizofrenici e senzatetto alcolizzati che si erano dimostrati sensibili al messaggio religioso predicato da Cal e si fidavano di lui perché lo consideravano uno di loro. A un certo punto la municipalità di San Diego aveva cominciato a parlare di Cal Boynton come di un esempio di riabilitazione perfettamente riuscita, in cui «un ex delinquente utilizza la propria esperienza per migliorare la vita del prossimo». Durante la campagna per la rielezione, il sindaco di San Diego aveva citato il gruppo di Cal come uno dei successi della sua amministrazione.

Cal però aveva trovato i suoi discepoli in tunica nera solo una volta che si era trasferito nel New England.

Era tornato per fare la pace con Emma, o perlomeno così diceva. Quando Eva aveva ottenuto l'ordinanza restrittiva contro di lui, la rabbia del genero era esplosa. Come osavano tenerlo lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia? Cal aveva speso tutti i soldi su cui era riuscito a mettere le mani per assumere una squadra di avvocati al fine di ottenere la sua metà di Yellow Dog Island. Voleva costruire una chiesa su quella che considerava ancora una sua proprietà coniugale. Ma Eva e May erano un passo più avanti di lui. L'isola era stata messa sotto amministrazione fiduciaria molto tempo prima, la prima volta che Cal aveva alzato le mani su Emma.

«Come hai osato!» aveva gridato Cal a Eva dal vialetto davanti a casa sua, in una sera nevosa di metà dicembre. Poi aveva preso un sasso e l'aveva tirato contro una finestra del primo piano, ma nel farlo aveva perso l'equilibrio ed era scivolato sul terreno ghiacciato rompendosi una gamba in due punti.

Quando i giornalisti locali le avevano chiesto di commentare l'incidente, Eva si era stretta nelle spalle e aveva detto: «Immagino che il Signore misericordioso preferisca le mie preghiere a quelle di Cal Boynton».

Era stata la prima volta in cui Cal aveva parlato in lingue arcane. Le sue farneticazioni erano andate avanti per ore, finché i medici gli avevano iniettato un forte sedativo. A quanto pare aveva dormito per giorni interi. E al risveglio aveva sporto la sua prima denuncia formale contro Eva.


Rafferty lesse tutti i rapporti di polizia su Eva. Cal aveva presentato molte denunce contro di lei: per magia, stregoneria, rapimento. Quest'ultima era commentata da una scritta a mano: «Ha fatto sparire una ragazza». A leggerlo faceva pensare a uno di quei trucchi degli illusionisti di Las Vegas: numero di sparizione. Lesse ancora una volta la denuncia cercando qualche dettaglio che gli fosse sfuggito la prima volta. Il nesso era lì. Eva/Angela. Angela/Eva. Per un folle momento pensò di setacciare la costa dalle parti di Children's Island, l'isola vicina a Yellow Dog Island, alla ricerca di un altro cadavere. Ma la morte di Eva era stata chiaramente accidentale. Non c'erano indizi che facessero pensare a un delitto. E sì che li aveva cercati. Rafferty sarebbe stato lieto di arrestare Cal per l'assassinio di Eva Whitney. Ma non c'erano prove, a parte il fatto che Eva fosse stata trovata così lontano. Tutti ne erano rimasti stupiti. Eva non aveva mai smesso di nuotare, su questo punto aveva mentito a Beezer. Ma negli ultimi anni aveva limitato le sue nuotate al porto. Era conscia dei propri limiti.

Dio, come gli mancava. A volte si domandava se Eva non mancasse a lui più che ai suoi parenti. Del resto, era stata come una famiglia per lui. Anzi, di più. Era stata sua amica. Ancora non riusciva a credere che se ne fosse andata.

Eva amava citare don Chisciotte: «I fatti sono nemici della verità».

«Se tu avessi vent'anni di meno ti sposerei», le aveva detto Rafferty il giorno in cui lei aveva citato quella frase.

«Se avessi vent'anni di meno non ti guarderei neanche», aveva ribattuto Eva.

Lui aveva riso tutto il pomeriggio per quella risposta.

Era stato grossomodo allora che Eva aveva iniziato a parlargli di Towner. O forse il cervello gli stava giocando un brutto scherzo. Ma a un certo punto della loro amicizia Eva aveva cominciato a parlare di lei e dell'operazione che continuava a rimandare e di come si fosse quasi dissanguata a morte. Aveva dei tumori, gli aveva detto. Benigni, sì, ma comunque pericolosi. Una cosa che una donna non può permettersi di ignorare.

«Ci sono vari modi per uccidersi», aveva commentato.

Rafferty aveva annuito. Da ex alcolista, conosceva perfettamente il problema.

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Pagina 267

Mi portò da uno psicoterapeuta di Boston, che mi diede un blando antidepressivo. Eva aveva sperato che mi aprissi con lui. Ma a quanto pare non ci riuscivo.

«Parlami di tua sorella», mi esortava il medico. Ma io non potevo proprio farlo. Potevo parlarne con Eva, ma non era il genere di cose che si raccontano a un estraneo. Dopo sei sedute mi rifiutai di andarci ancora.


Allora Eva cercò di coinvolgermi di più nelle lezioni di danza, per tenermi occupata. Anche il fatto che si aspettasse di vedermi andare a un ballo e comportarmi come una vera signora faceva parte dello stesso piano. Imparai a ballare guidata dai partner più improbabili. Eva mi comprò un paio di guanti lunghi che arrivavano oltre il gomito e mi insegnò a sfilare e ripiegare le dita quando andavo a tavola, tenendo solo le maniche, e a mangiare il pollo à la king a un affollato banchetto senza alzare i gomiti e senza far cadere i piselli sull'abito da sera. Quando le domandai cosa avrei dovuto fare se avessero servito qualcosa di diverso dal pollo à la king con i piselli, Eva scoppiò a ridere e disse che non sarebbe mai successo, «nemmeno tra un milione di anni».

Qualche settimana prima della serata danzante ricevetti un invito da parte di una ragazza della Pingree per andarci con il pulmino che i suoi genitori avevano noleggiato per l'occasione. La conoscevo appena: di lei ricordavo solo che vestiva sempre griffato e che le piaceva dire «cazzo» ogni due secondi solo per essere trasgressiva. Dissi a Eva che era una cosa ridicola dato che il pulmino sarebbe partito da tutt'altra zona, mentre io potevo benissimo andare alla sala da ballo a piedi da casa nostra. Eva rispose che non era quello il punto e mi fece accettare il «cortese invito».

La festa da ballo non fu tanto terribile, anche se sembrava presa in prestito da un altro secolo. Ogni ragazza aveva due cavalieri ed entrava sottobraccio a loro: uno dei miei era un ragazzo che conoscevo perché frequentava lo yacht club di Marblehead. Ogni volta che l'orchestra faceva una pausa, i musicisti lanciavano tra il pubblico berretti di feltro con il nome del gruppo ricamato sulla visiera e ogni ragazzo cercava di afferrarne uno per darlo alla ragazza che gli piaceva. E anche se odiavano quella musica, tutti si divertivano a contendersi i berretti, saltando in alto per prenderli come se fossero stati a una partita di baseball.

Durante una pausa qualcuno nascose la bacchetta del direttore d'orchestra e il ballo si fermò mentre gli chaperons la cercavano e interrogavano i partecipanti. I ragazzi, compresi í miei due cavalieri, andarono fuori a fumare e io pensai che fosse una buona idea, vista l'Inquisizione spagnola che si svolgeva là dentro. Ci riunimmo nel parco, dall'altra parte della strada, e un ragazzo con la fascia dello smoking scozzese si accese una Marlboro e cominciò una sua personale inquisizione su Cal e su come se la stava cavando a San Diego.

Fino a quel momento, nessuno aveva pensato al nesso fra me e Cal. Per i ragazzi appassionati di vela che lo conoscevano Cal era un eroe locale, il tipo d'uomo cui avrebbero voluto somigliare se tutto fosse andato come desideravano. «Probabilmente è il miglior velista del mondo», disse il ragazzo a mo' di conclusione. «Ed è ricco. Possiede un'isola intera, santo Dio!»

«L'isola non è sua, appartiene alla mia famiglia», precisai in tono un po' troppo brusco.

«È lo stesso.»

«Ho visto una sua foto sul giornale», intervenne una delle ragazze con espressione sognante.

«Somiglia a quel cazzo di Paul Newman», fece la ragazza del pulmino a noleggio.

Sentivo che i muscoli mi si irrigidivano.

Una delle ragazze stava rabbrividendo. «Per quanto tempo dobbiamo stare qui fuori?»

«Finché non trovano il colpevole», rispose il ragazzo con lo smoking strizzandomi l'occhio.

«Il che ci regala un bel po' di tempo», aggiunse il ragazzo dello yacht club guardando con la coda dell'occhio l'amico, che tirò fuori dalla giacca una fiaschetta d'argento e cominciò a farla passare.

«Io vado a casa», dissi.

«Cosa?»

«Assolutamente no.»

«Non puoi andare a casa, il bus arriverà solo alle undici.»

«Non intendo aspettare il bus fino alle undici: abito a sei isolati da qui.»

«Tutti a festeggiare a casa di Towner!» disse un ragazzo.

«Vivo con mia zia Eva.»

La ragazza del pulmino a noleggio mi scoccò un'occhiata.

«Vuoi dire che la festa si sposterà a casa della zia di Towner», insistette il ragazzo.

«Eva starà già dormendo.»

«Datemi retta, non credo proprio che vi piacerebbe una festa in quella casa», disse una delle ragazze.

«Sì», le fece eco la ragazza del pulmino a noleggio. «Eva Whitney è la regina del galateo del cazzo.»

«Galateo del cazzo?» esclamò il ragazzo con lo smoking. «Forse dovremmo farcelo insegnare!»

La ragazza scoppiò a ridere come se fosse stata la cosa più buffa che aveva mai sentito.

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Pagina 314

A volte la lettrice deve girare il pizzo in molte direzioni diverse e osservarlo sotto varie angolazioni di luce prima che le immagini comincino ad apparire. dalla «Guida della lettrice di pizzo»


24.


Rafferty e io ci fermiamo a Beverly alla bancarella di aragoste di un suo amico. Compriamo da mangiare e lo portiamo sulla barca.

Poi lui dà un frutto di mare a Byzy che lo sputa sul ponte. Il mollusco si infila nella fessura fra due tavole. Rafferty lo recupera carponi, poi lo getta fuoribordo. «Bel ringraziamento», dice ridendo.

«Penso che Byzy preferisca i conigli», rispondo io.

«Ovvio.»

Prima di salpare di nuovo Rafferty scende sul pontile e attraversa la strada fino a un piccolo supermercato, dove compra ancora qualche provvista. Torna con una borsa di plastica piena e la mette sottocoperta. Ma prima ne tira fuori una leccornia per Byzy.

Poi mi lascia stare al timone e governare la barca sin fuori dal porto. Io sono abituata alle barche per la pesca delle aragoste. Questa tende un po' a babordo, ma si guida bene. Ed è veloce. Rafferty l'ha rimessa a nuovo. Non puzza nemmeno di esche.

Puntiamo sulle Miseries poi lui mi guida oltre, verso il mare aperto.

«Dove sarebbe questo posto?» domando.

Rafferty indica l'orizzonte. «Là fuori», risponde.

«Davvero?» Sono incuriosita.

È una magnifica giornata. Byzy siede a prua come una polena, con il pelo agitato dal vento. Ogni volta che rallentiamo viene a poppa per controllare se stiamo mangiando qualcosa. Poi torna a prua e abbaia ai gabbiani.

«È un cane buffo», dice Rafferty.

Gli sorrido.

L'isola di Rafferty è proprio in mare aperto, dopo le Miseries, dopo Baker's Island. Somiglia a un atollo polinesiano, piccole spiagge di sabbia bianca come zucchero circondate dai versanti di una collina. La riconosco subito. Ci sono già stata. Da ragazzi ci venivamo a giocare ai pirati.

«Non è sulle carte», mi informa Rafferty. «Non ha neppure un nome.»

Non so perché non gli dico che ci sono già stata. Ci siamo venuti solo poche volte, Beezer, Lyndley e io, perché è un po' troppo lontana ed è difficile attraccare: le rocce impediscono di arrivare a riva. Nemmeno gettare l'ancora è tanto facile, perché oltre gli scogli il fondale diventa liscio e scivoloso come il ghiaccio. Un'ancora gettata lì verrebbe trascinata via dalla corrente senza niente su cui far presa. E al ritorno non si troverebbe più la barca. Il mare la porterebbe con sé, facendola scomparire. Una volta accadde a Beezer e a me. In un primo momento non riuscii a crederci. Pensai che Lyndley ci stesse giocando uno scherzo da pirata, e lo dissi anche a Beezer, ottenendo solo di farlo piangere e di spaventarlo ancora di più invece di rassicurarlo. «Vorrei che non dicessi cose del genere», rispose. Non ero sicura di aver capito cosa l'avesse turbato tanto, comunque ritrovammo la barca dietro l'isola e siccome quel giorno non c'era molto vento riuscii a raggiungerla a nuoto e a riportarla indietro. Non so perché Beezer l'avesse presa tanto male: fatto sta che dopo quella volta non volle più andare all'Isola senza nome. Lo chiamavamo così, quel posto. L'Isola senza nome.

È evidente che Rafferty ci è stato moltissime volte. Ha un suo sistema di attracco. Ha portato una cima lunghissima che ora sta fissando a prua. Poi scende in acqua, si arrampica sul promontorio e lega l'altra estremità al tronco di uno dei pochissimi alberi dell'isola.

Quando torna alla barca per aiutarmi a scendere, io sono già in acqua e gli passo i sacchetti della spesa. Appena arrivo sulla spiaggia lui lascia andare la barca alla deriva finché la fune non si tende. Poi mi dà la mano e ci arrampichiamo insieme sul promontorio eroso dai venti.

Dall'altro lato dell'isola non si vede più niente se non il mare aperto. E uno dei pochi posti della zona da cui è davvero possibile guardare l'oceano e non la baia che arriva fino a Cape Ann. È selvaggio e battuto dai venti: sembra di stare sulla luna o sull'Isola del Tesoro.

Byzy e io nuotiamo, Rafferty raccoglie legnetti per accendere il fuoco.


Più tardi siamo seduti sulla spiaggia, davanti al tramonto. Le fiamme del falò si sono abbassate abbastanza da permetterci di cucinare; osservo Rafferty mentre ci ammucchia sopra le alghe per produrre vapore e mette a cuocere le pannocchie di mais. Poi tira fuori formaggio, cracker e una grossa bistecca. Si vede che adora questo posto. Mi racconta di non averci mai incontrato nessuno. «Nemmeno un'anima», dice, passandomi la limonata.

Mangiamo bistecca e mais. Su tre piatti, uno per ciascuno. Byzy è accucciato accanto al suo e trangugia avidamente.

Dopo cena guardiamo il cielo striarsi e poi diventare nero. La luna sorge dall'acqua. Vedendomi rabbrividire, Rafferty mi appoggia sulle spalle la sua giacca. Vecchia e odorosa di oceano.

Byzy si scava un buco nella sabbia e comincia a russare.

«Quest'isola non ha nome», ripete Rafferty come se la prima volta non lo avessi sentito, o forse perché non ho avuto nessuna reazione. «La secca sabbiosa là in fondo ha un nome, hanno battezzato perfino quella, ma a questo posto nessuno ha mai dato un nome. Dev'essere in una falla spaziotemporale», dice, contento.

«Allora ci siamo caduti anche noi», replico io.

In un primo momento sembra sbalordito. Poi ride. Un riso sommesso, ma genuino. «Sei una donna interessante», dice, «cammini sempre al confine.»

«Quale confine?» domando io, pur sapendo molto bene di cosa sta parlando. A voler essere precisi, non è proprio un confine quanto la falla nella quale io stessa sono scivolata, molto tempo fa.

Ci pensa bene prima di parlare. «Quello fra il mondo reale e il mondo del possibile.»

«Per dirla in modo poetico», faccio io.

«A volte il mondo reale è molto più folle», dice lui.

Sento che lo pensa davvero. È successo qualcosa, oggi, tra noi. «Come procede il caso?» gli chiedo. La domanda suona come un tentativo di conversazione leggera, ma percepisco che lui non vuole parlarne, quindi non insisterò per avere una risposta.

«Preferisco non parlarne, stasera», risponde lui.

La luna è quasi piena. Traccia un sentiero attraverso l'acqua sempre più scura, e per un istante penso a Lyndley. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Non voglio che lui mi veda, così mi volto dall'altra parte finché non riesco a ricacciarle indietro.

Rafferty si alza. Si avvicina al mare. Si china, prende un po' d'acqua tra le mani, la osserva, poi la lascia scivolare via tra le dita. Si porta la mano alle labbra e assaggia il sale. Poi sembra prendere una decisione.

«Facciamo una nuotata», dice.

Ne sono stupita.

Nuotiamo a lungo. È un buon nuotatore, non di quelli che si lasciano portare dall'acqua, è abbastanza forte da aprirsi un varco con energia. Nuota con la testa fuori dall'acqua: nelle estati a Long Island deve aver lavorato come bagnino. I bagnini nuotano sempre con la testa fuori dall'acqua, all'erta, gli occhi fissi sulla persona da salvare. È diverso quando guida la barca. Andare a vela è per lui quello che per me è nuotare.

C'è qualcosa di magico nell'acqua, stanotte, una fosforescenza. Ogni nostra bracciata si lascia dietro una scia luminosa.

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