Copertina
Autore Giovanna Barzanò
Titolo Imparare e insegnare
SottotitoloTeorie, strumenti, esempi
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, Campus , pag. 222, cop.fle., dim. 14,5x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6159-298-8
CuratoreGiovanna Barzanò
PrefazioneGaetano Domenici
LettoreGiorgia Pezzali, 2010
Classe scuola
PrimaPagina


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Indice

 XI Prefazione
    di Gaetano Domenici

  1 Presentazione
    di Giovanna Barzanò

    1.  Imparare, insegnare, riflettere, raccontare...
        di Giovanna Barzanò

  6 1.  Professione docente
    1.1 Immagini della professione
  9 1.2 Docenti e società della conoscenza

 12 2.  Per definire la professione docente
    2.1 Professionalismo e professionalizzazione
 13 2.2 Prospettive di professionalismo
 16 3.  Conoscenze e competenze professionali
    3.1 Imparare lavorando
 17 3.2 A partire dal professionista riflessivo
 20 4.  Rappresentare l'esperienza
    4.1 Raccontare e raccontarsi
 22 4.2 Un curriculum narrativo?
 24 5.  Osservazioni conclusive
 27 Riferimenti bibliografici

        ESPERIENZE E STRUMENTI DI RIFLESSIONE

 29 1.  Imparare e insegnare recitando: una rappresentazione
        teatrale di docenti per genitori e alunni
    1.1 Note di scena
        di Elisabetta Ferrari
 33 1.2 Teatro e scuola
        di Daniela Tamburini
 36 2.  Narrazioni... fiabe... tracce di sé e degli altri
        nella formazione di docenti e alunni
        di Elisabetta Ferrari
 43 3.  Storie di accoglienza: note da una ricerca
        di Paola Gelormini

    2.  Leadership per l'apprendimento e autovalutazione:
        contesti e prospettive internazionali
        di John MacBeath

 50 1.  Leggere i contesti dell'apprendere
    1.1 Contesti locali: l'effetto quartiere
 53 1.2 Il contesto globale: le tendenze dell'educazione
 57 1.3 Il contesto culturale: i "prestiti" di politiche tra paesi
 59 2.  Leadership per l'apprendimento e autovalutazione
    2.1 Che cosa significa la leadership per l'apprendimento,
        in questo scenario?
 63 2.2 Conversazioni di apprendimento e autovalutazione
 65 2.3 Comprendere l'autovalutazione tra assessment ed evaluation
 68 3.  Per concludere: la metafora di Wikipedia
 71 Riferimenti bibliografici

        ESPERIENZE E STRUMENTI DI RIFLESSIONE

 73 1.  Riflettere sull'apprendimento degli alunni in storia:
        i test "Alice 11" e "Alice 14"
        di Francesco Tadini
 89 2.  Imparare e valutare il metodo di lavoro degli alunni:
        il questionario "Come studio, come faccio i compiti"
        di Lino Ruggeri

    3.  L'idea di "sviluppo professionale" e il miglioramento
        delle competenze dei docenti
        di Sara Bubb e Peter Earley

106 1.  Comprendere la prospettiva dello sviluppo professionale
    1.1 Che cos'è lo sviluppo professionale permanente?
109 1.2 Come apprendono gli adulti?
113 1.3 I contesti dell'apprendimento
114 2.  Per favorire la riflessione
    2.1 Una cultura di apprendimento ricca di opportunità diverse
115 2.2 Coaching e mentoring
117 2.3 Sviluppo delle competenze dei docenti attraverso
        l'osservare e l'essere osservati
120 2.4 Per osservare un collega...
121 3.  Conclusione
123 Riferimenti bibliografici

        ESPERIENZE E STRUMENTI DI RIFLESSIONE

124 1.  Ospiti nelle lingue per vivere le culture:
        un corso di lingua residenziale a Londra
        di Noemi Ciceroni e Titti Romano
130 2.  Per visitare una scuola: cogliere la "cultura"
        di Francesca Brotto
135 3.  Imparare osservandosi e raccontandosi tra colleghi:
        percorsi con docenti e dirigenti
        di Giovanna Barzanò e Lucina Trapletti
141 4.  La lavagna interattiva multimediale:
        alunni, docenti, innovazione
        di Rosa Pacchi

    4.  Il valore della rete per imparare
        di Giovanna Barzanò, Emiliano Grimaldi e Titti Romano

147 1.  Declinare l'idea di rete
    1.1 Sistemi viventi, comunità di pratica e reti
150 1.2 Alcuni principi operativi
151 2.  La rete come figura "in tensione" nel sistema
        scolastico italiano
    2.1 Lo sfondo istituzionale
153 2.2 Pratiche di rete
156 3.  Il ritratto di una rete di scuole
157 3.1 Un'analisi interpretativa
159 3.2 Re-interpretare la professione docente
161 3.3 Partecipare alla rete
163 3.4 Onorare la rete e celebrare il gruppo
165 3.5 Ritratto di rete
166 4.  Disegni ed ecologie di rete: alcuni interrogativi
168 5.  Conclusioni
171 Riferimenti bibliografici

        ESPERIENZE E STRUMENTI DI RIFLESSIONE

173 1.  Promuovere la leadership per l'apprendimento
        degli insegnanti: voci dalla scuola estiva di Rete STRESA
        di Giovanna Barzanò
181 2.  Progettualità di rete: un corso europeo
        di Rosangela Baggio

    5.  Reti di scuole, reti di conoscenze, reti interistituzionali
        di Giovanni Moretti

188 1.  I racconti delle reti che narrano
    1.1 La narrazione negli ambienti di apprendimento
189 1.2 Interpretare le reti
191 2.  La scuola come comunità
    2.1 Comunità riflessive e inclusive
193 2.2 Il valore aggiunto delle reti
194 3.  L'autonomia in tensione: tra competizione e dialogo
    3.1 Le autonomie e le qualità
197 3.2 La qualità come evento
198 4.  Tempo e riflessione per una leadership diffusa
    4.1 Concedersi il tempo
201 4.2 Leadership diffusa
202 5.  Reti di scuole e reti miste interistituzionali
    5.1 Gli spazi intermedi
203 5.2 Costruire la cultura di rete
206 6.  Reti territoriali e autovalutazione multiattore
    6.1 Le tensioni tra macro e microsistema
207 6.2 Autovalutazione come pratica riflessiva
208 6.3 Il modello di autovalutazione multiattore
211 Riferimenti bibliografici

213 Gli autori
217 Le scuole di Rete STRESA
219 Indice dei nomi

 

 

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Pagina XI

Prefazione

di Gaetano Domenici


Come l'esperienza di moltissimi paesi ha ormai mostrato in modo incontrovertibile, non solo risultano scarsamente efficaci le riforme scolastiche che nel loro formarsi non prendono in seria considerazione le caratteristiche e/o il punto di vista della componente docente, ma ogni vera innovazione formativa può aversi solo attraverso l'opera degli insegnanti. Ciò che ovunque emerge infatti – talvolta in modo diretto e prorompente, più spesso, soprattutto in questi ultimissimi anni, in forma tanto mediata quanto poco "visibile" ai più – è che nonostante tutto sono soprattutto i docenti, nel bene e nel male, a "fare scuola" in senso forte, cioè a creare o meno nelle nuove generazioni quelle condizioni cognitive e affettivo-motivazionali necessarie, ancorché non sufficienti, per l'apprendimento critico per tutta la vita e per l'esercizio attivo della cittadinanza.

Si potrebbe anzi affermare che nella società della conoscenza, satura com'è di merci, linguaggi e interscambi simbolici, l'uomo diventi umano se acquisisce quella dotazione culturale e critico-conoscitiva che gli permette un adattamento dinamico e una capacità modificativa del mondo in cui gli è dato di vivere. Sembrerebbe, in estrema sintesi, che le più nobili finalità sociali assegnate con tanta enfasi alla formazione e all'istruzione in molti paesi, compreso il nostro, possano o non possano raggiungersi a seconda delle capacità e delle condotte culturali e professionali dei docenti.

D'altro canto, dalla quasi totalità delle indagini svolte in tutto il mondo a partire dagli inizi degli anni settanta per conoscere il prodotto culturale scolastico, la variabile relativa alla didattica e all'organizzazione dei processi formativi si pone come uno dei fattori decisivi nella codeterminazione degli esiti di istruzione e formazione.

Una variabile, questa, che rinvia direttamente alla cultura e alla professionalità docente, anche se immediatamente prossima (quasi sempre in seconda posizione) alle variabili sociali – che si attestavano al primo posto negli anni ottanta – e a quelle relative all'ambiente culturale degli allievi (rappresentate principalmente dal titolo di studio della madre), il cui primato è venuto affermandosi negli ultimi tre lustri.

Altre ricerche conoscitive, per esempio sulle "migliori" università del nostro pianeta, considerate tali sulla base di know how, brevetti, citazioni index, premi Nobel e via dicendo, hanno posto in evidenza il ruolo decisivo della cultura e degli atteggiamenti della componente docente, della loro autonomia oltre che dell'organizzazione degli atenei: ai primi venti posti si sono collocate università non coinvolte negli ultimi venti-trenta anni da alcuna riforma! Atenei nei quali, appunto, la risposta all'evolversi dei quadri di conoscenza a livello mondiale, alle esigenze sociali, culturali e organizzative del lavoro di formazione e ricerca, e quindi alle tante e differenti emergenze poco prevedibili, viene data autonomamente dai docenti, i quali anzi orientano il cambiamento, non solo "locale", con gli esiti stessi della loro ricerca e del loro lavoro formativo!


Pur con le necessarie distinzioni, si ha facile gioco dunque nell'affermare che anche in un mondo globalizzato che sembra travolgere molte delle istituzioni che storicamente l'uomo si è date per meglio qualificare la propria esistenza – tra queste quelle educative formali – anche chi è chiamato a insegnare nella scuola contribuisce non poco nella co-determinazione, seppur a medio e lungo termine, del futuro del proprio paese, e non solo di esso.

Certo, negli ultimi anni, nell'era cosiddetta postmoderna o postindustriale, l'effetto della rivoluzione delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione ha fatto pensare, a molti, all'inevitabile, se non salutare, descolarizzazione della società a favore di un processo di autonoma o prevalente formazione nella realtà virtuale, digitale, perché caratterizzata da maggiore immersività, interattività, connettività, plurisensorialità e simultaneità di quella classica o tradizionale propria dell'era moderna.

È probabile, però, che l'interruzione del valore egemonico delle "grandi narrazioni" della modernità, che in qualche modo ha segnato la nascita della "postmodernità", non sia avvenuta una volta per tutte. Ormai da circa un decennio vi sono segni e non solo indizi di una ripresa del fascino pericoloso delle ideologie totalizzanti. Il misconoscimento della validità di asserzioni scientifiche a favore di precetti dottrinari ideologico-religiosi – dalle questioni relative al darwinismo fino a quelle sulle cellule staminali; dalla definizione della vita e della morte ad alcune forme di prevenzione della diffusione dell'HIV – diventati leggi in alcuni stati, ben mette in evidenza questa ripresa, e con essa, quasi per contrappasso, il rilievo delle funzioni educativo-emancipatorie di istituzioni pubbliche come la scuola.

Ma anche se così non fosse, se quindi ci trovassimo a dover perpetuare la contraddittorietà, la frammentarietà, la superficialità, l'euforia informativa rispetto a quella conoscitiva e la presentificazione del tempo propri della postmodernità, occorre resistere alla smobilitazione totalizzante delle funzioni formative della scuola e dell'università.

Bisogna infatti considerare che la postmodernità è solo una accentuazione di una visione egemonica che non pare abbia però soddisfatto l'esigenza di coniugare lo sviluppo economico e tecnologico – ormai fine a se stesso – con lo sviluppo di una civiltà che contempli una nuova centralità dell'uomo inteso – ancora kantianamente! – come fine e misura di ogni cosa e di ogni azione umana.


Investire sugli insegnanti non significa solamente o principalmente promuovere e favorire ìl cambiamento senza dover sempre riformare strutture e ordinamenti, evitando così di mettere a soqquadro il sistema, spesso su basi astratte o su modelli solo in sé funzionali, i cui effetti sono perdita di tempo e decremento dell'efficacia dell'azione anche a causa del disorientamento che i frequenti cambiamenti producono. Questi aspetti pur rilevanti, se solo si pensa alla mortificazione della scuola causata dallo spaesamento prodotto dai tanti cambiamenti legislativi avviati, bloccati, riavviati o solo annunciati in un arco di tempo troppo limitato (il crollo verticale degli apprendimenti dei nostri quindicenni registrato da PISA, Program for International Student Assessment, 2006 rispetto al 2003 e al 2000 è quasi totalmente spiegato da tale fenomeno!), sono poca cosa.

Se l'investimento non concerne solo o prevalentemente la prima formazione e lo sviluppo in lavoro dei repertori professionali dei docenti, questione che quasi tutti a torto pensano sia ancora oggi prioritaria, ma anche se non soprattutto l'assetto culturale della loro formazione generale e specialistica, così da considerarli finalmente, ora e qui, nell'attuale società postindustriale, intellettuali e professionisti della comunicazione educativa, allora ci si rende conto del loro peso specifico nella determinazione del destino di ciascuno e dell'intero paese.

In quanto intellettuale, il docente dovrebbe possedere, come mi è capitato di asserire in un passato quasi remoto,

quelle competenze culturali generali oltre che quelle specifiche del proprio ambito disciplinare d'insegnamento, che gli consentano di cogliere tempestivamente, se non in anticipo, le direzioni del cambiamento non solo delle materie in cui è specialista, della loro evoluzione epistemologica, ecc., ma anche dell'assetto organizzativo, culturale, produttivo e sociale in senso lato, della società nella quale opera. [...1 La complessità e le vertiginose trasformazioni della società nella quale viviamo, l'incertezza che ne deriva, non hanno ripercussioni dirette solo sul quadro tecnologico, economico e sociale, ma anche su quello formativo e politico.

Tali caratteristiche richiedono una flessibilità cognitiva di ogni "produttore", quindi di ogni allievo in uscita dalla scuola, che in gran parte può essere garantita dai processi di istruzione fondati sulle basi prima indicate (saperi di base, generali e preprofessionali fortemente strutturati, saperi sistematici, stabili e spendibili, cioè capaci di permanere in forma reticolare e di consentire ulteriori e anche autonomi apprendimenti, oltre che significativi per gli stessi studenti), e anche una disposizione a comprendere il nuovo, una partecipazione attiva di ogni soggetto alla vita non solo produttiva e sociale ma anche politica in senso lato, in modo che il cambiamento anziché essere subito solamente dai più, come purtroppo avviene, venga non solo compreso, ma anche promosso e governato.

La scuola, senza per questo entrare nella delicata questione dei rapporti tra istruzione ed educazione, deve dunque formare, ma anche educare, non certo ideologicamente — come spesso fa seppur in modo surrettizio, senza rendere esplicite le opzioni di parte — ai valori della tolleranza (e interculturali), della convivenza pacifica e della democrazia. Ciò impone, di nuovo, la conoscenza da parte dei docenti degli elementi caratteristici della società nella quale operano e del suo mutamento, le direzioni verso cui si sviluppano i rapporti tra paesi e quelli tra Nord e Sud del nostro pianeta, quindi la capacità di cogliere il cambiamento attraverso l'analisi critica della manifestazione dei più disparati fenomeni sociali, culturali, economici e politici [...]. Non basta tuttavia possedere i requisiti culturali e informativi appena indicati per poter trasmettere e far acquisire conoscenze significative agli allievi. Non basta cioè padroneggiare il cosa insegnare perché sia garantita l'attivazione negli allievi dei processi di costruzione della conoscenza e quindi della cultura. Oltre ad essere intellettuali nel senso prima indicato, è anche necessario essere professionisti della comunicazione educativa e della costruzione dei processi di acquisizione della conoscenza.

È in altri termini indispensabile sapere anche come mediare tra i saperi posseduti e le modalità con cui nei soggetti di una determinata età evolutiva in generale, negli allievi che si hanno di fronte in particolare, si attivano e si sviluppano i processi di acquisizione, anche critica, delle conoscenze [...]. Agli insegnanti si richiede perciò una spiccata capacità di pianificazione, organizzazione e gestione delle attività formative, la cui congruenza e progressiva regolazione in rapporto ai criteri-vincoli generali — nazionali e persino internazionali — e ai criteri-vincoli locali e contestuali, derivano primariamente dagli elementi valutativi di cui si dispone prima, durante e dopo gli interventi didattici.

Una analisi critico-valutativa fondamento dell'agire consapevole del docente-ricercatore, il quale nel tentativo di risolvere i problemi formativi strategici e tattici che si connettono al suo operare seleziona teorie, modelli, conoscenze e saperi acquisiti nella sua prima formazione e nell'esperienza di insegnante, li modifica, li emenda o li integra per renderli adatti al contesto, utili allo scopo di formare menti libere dall'ignoranza e perciò vigilmente critiche.

Ebbene, il volume curato da Giovanna Barzanò per alcuni versi porta a compimento una riflessione di respiro internazionale sulle competenze fondamentali che nelle società complesse dovrebbero possedere i docenti e, per converso, sulla questione della formazione delle loro peculiarità professionali, avviata da oltre un decennio e dinamizzata dall'esperienza di Rete STRESA; per altri versi ri-avvia tale dibattito, aprendolo alle dimensioni culturali rimaste quasi sempre, e non solo da noi, su uno sfondo abbastanza grigio. Il recupero di quella cultura professionale nella quale scompare la distinzione dicotomica tra cultura in sé, più o meno disinteressata o più o meno specialistica, da una parte, e professione, dall'altra, intesa come applicazione di precetti o metodi procedurali nei pur diversi contesti operativi, può orientare, ci si augura, le scelte — che stanno compiendosi proprio in questi mesi — sulle modalità e sui curricoli per la prima formazione e per lo sviluppo in lavoro della professione docente.

L'articolazione dei capitoli in sezioni che rinviano a esperienze "verificate" e a strumenti di riflessione risulta di grande efficacia per un approfondimento teorico-pratico di questioni davvero utili per quanti operano nella scuola e hanno a cuore le sue sorti.

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Pagina 1

Presentazione

di Giovanna Barzanò


Il titolo di questo libro è fin troppo semplice: "imparare" e "insegnare" sono i due termini più usati di ogni discorso educativo, compaiono in ogni documento e nel titolo di molti libri.

Parole magiche, ma non troppo, o per lo meno solo a certe condizioni. Si sono scelte qui, e in questo ordine, per indicare la prospettiva che ispira questo libro, anch'essa semplice, nella sua complessità. Vogliono rappresentare innanzitutto una scena educativa dove l'imparare regna come attività fondamentale, ancora più visibile dell'insegnare. Vogliono inoltre lasciar intendere che in questa scena, proprio perché l'imparare viene prima dell'insegnare, ci può essere una comunanza forte tra gli attori, al di là dei loro ruoli e delle loro funzioni. Alunni, docenti, genitori, personale della scuola e comunità sociale si possono vedere innanzitutto come gli interpreti dell'impresa comune dell'imparare.

La partecipazione a quest'impresa non si realizza però con unitarietà e armonia in tutte le scuole. È un'opportunità che si può realizzare, ma non mancano gli ostacoli.

Il libro non vuole infatti celebrare l'apprendimento come una festa fatta di attrazioni e di buoni sentimenti. Dell'imparare – con la sua leggera enfasi sulla pratica, rispetto all'"apprendere" – e del suo intrecciarsi con l'insegnare si ritraggono alcuni tratti appassionanti e altri meno scontati e più rischiosi. Si lasciano intravedere vie di sviluppo e possibilità di atmosfere nuove tra le mura scolastiche, ma si indicano anche le ambiguità, i sottofondi e le condizioni spesso impervie che caratterizzano l'apprendimento.

I contributi che si sono scelti non intendono certo presentare un'immagine complessiva dell'imparare e dell'insegnare: ne vogliono però mostrare alcuni aspetti cruciali e alcune implicazioni alla luce di strumenti di riflessione che fanno parte della letteratura internazionale.

Si riflette sui pensieri e sull'esperienza: così il volume accosta ad alcuni saggi teorici resoconti e strumenti che vengono dalla pratica educativa comunque già sottoposta ad attento vaglio critico.

In entrambi i casi si tratta di contributi che sono stati in qualche modo già vissuti e sperimentati come oggetti di conoscenza e di lavoro. Hanno fatto parte infatti dei percorsi di formazione e ricerca di Rete STRESA (STRumenti per l'Efficacia della Scuola e l'Autovalutazione), un'associazione di scuole primarie e secondarie lombarde, che riunisce trenta istituti cui fanno capo quasi tremila insegnanti e venticinquemila alunni.

L'associazione è stata fondata in Lombardia nel 1998 con lo scopo di progettare e attuare l'autovalutazione per il miglioramento della scuola. Si tratta quindi di una rete con una lunga storia, che testimonia efficacemente, "dal campo", un tratto significativo dello sviluppo dell'autonomia della scuola in Italia. Con il passare degli anni, il gruppo di coordinamento della rete ha sentito sempre più il bisogno di integrare e sostenere l'autovalutazione attraverso una ricerca forte e creativa e attività di sviluppo professionale per docenti, personale e dirigenti. Sono stati così ideati e realizzati molti percorsi, diversi dei quali con partner europei. La rete infatti ha sviluppato molti contatti internazionali e ha guardato spesso all'Inghilterra come a un "laboratorio di politiche", interessante non per "prendere in prestito" idee o soluzioni, ma per osservare (spesso mettendosi in guardia!) gli effetti di alcuni fenomeni che rappresentano tendenze globali e che hanno qui un'enfasi particolare.


I cinque capitoli del volume propongono un itinerario di riflessione su altrettanti temi connessi all'imparare e all'apprendere. Il primo tratta della professione docente, di come questa è vista nello scenario internazionale sullo sfondo della società della conoscenza, dei diversi modi di intendere il professionalismo o professionalità e delle loro implicazioni. Il secondo e il terzo capitolo sviluppano l'idea di leadership per l'apprendimento da due diverse prospettive. Nel secondo John MacBeath si concentra sui presupposti dell'idea di leadership per l'apprendimento e sui contesti e le atmosfere che ne dovrebbero caratterizzare l'affermarsi nelle scuole. Nel terzo Sara Bubb e Peter Earley, fornendo diverse esemplificazioni, declinano l'idea di sviluppo professionale, intesa come prospettiva di evoluzione dell'idea di aggiornamento e come strumento importante per "nutrire" la leadership per l'apprendimento. Gli ultimi due capitoli affrontano il tema dell'imparare e dell'insegnare dal punto di vista delle reti: il quarto, a opera di un gruppo di ricerca, fornisce un ritratto da vicino dell'esperienza di Rete STRESA letta in chiave quasi etnografica; il quinto, di Giovanni Moretti, nel riprendere i concetti fondamentali del libro sviluppa un ulteriore ragionamento a proposito di reti di scuole, di conoscenze e interistituzionali, sulla base di progetti e ricerche condotti.

Ogni capitolo si compone di un saggio e di una parte di "Esperienze e strumenti di riflessione". Così come i saggi sono stati presentati e discussi in occasione di seminari e dibattiti, le esperienze si riferiscono a percorsi realizzati. Sono coloro che li hanno ideati e vissuti che li raccontano cercando di rappresentare qualche tratto significativo di iniziative che hanno impegnato risorse e tempi diversi: a volte lo spazio di qualche giorno, a volte interi mesi o addirittura interi anni, come nel caso delle narrazioni teatrali (cap. 1) o del test di storia "Alice" (cap. 2) per citare solo due esempi.

L'intento è dare il senso di che cosa può significare mettere in atto qualcuna delle idee discusse in modo più teorico in ogni capitolo. Questo è avvenuto spesso rivisitando gli strumenti più classici e noti della tradizione didattica, come nel caso delle favole o del teatro.

Si sono scelte esperienze "positive", che hanno suscitato in genere interesse, coinvolgimento e passione. Il desiderio di trionfalismo o l'amore delle "buone pratiche" non sono i fattori che hanno ispirato le scelte. La filosofia di Rete STRESA è molto scettica sulla retorica delle "buone pratiche" da imitare: si preferisce raccogliere, discutere, raccontare e ri-raccontare semplici e modesti "esempi". Iniziative che hanno funzionato lì e allora, che forse possono trasportare suggestioni, offrire lo spunto a nuovi progetti, che saranno però necessariamente "altri", perché situati in altri contesti, all'interno di altre storie. È la storia delle atmosfere, dei presupposti e dei significati dei percorsi che si è pensato di ritrarre attraverso la voce di alcuni degli attori che li hanno costruiti e vissuti e che amano ritrovarsi nel racconto e condividerlo. Il racconto, i suoi molti modi di costruirsi e ri-creare, è del resto un tema chiave del libro.

In questa prospettiva l'insieme che il volume presenta si può considerare una raccolta di possibili modalità per vivere l' imparare e l' insegnare intrecciando idee e fatti, interrogandosi su ciò che li condiziona e li può influenzare, per continuare a riprogettare.

Anche questo libro, come molti, esiste grazie all'impegno, le idee e la voglia di costruire di molti autori. Se la costruzione si è potuta realizzare è anche perché ci sono stati ricerca, raccolta e scambi di voci diverse durati nel tempo. E all'impresa non hanno partecipato solo gli autori che sono "visibili" in queste pagine. Ce ne sono molti altri che non appaiono oggi e forse appariranno in prossime opere.

Un ringraziamento molto caloroso va soprattutto ai molti partecipanti, esperti e creatori di avventure di conoscenza che lavorano nel "laboratorio" di Rete STRESA, cercando giorno per giorno di capire e di mettere in atto quel professionalismo etico e democratico di cui si parla in questo libro.

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Pagina 5

1. Imparare, insegnare, riflettere, raccontare...

di Giovanna Barzanò


Imparare, insegnare, raccontare, riflettere, ricreare... termini come questi si potrebbero immaginare come incarnati nei personaggi di una danza raffinata e appassionante, che si muovono lungo un cerchio dove continuamente si scambiano, si intrecciano, catturando l'occhio, l'attenzione e il desiderio di coinvolgimento di chi sta in un cerchio più grande intorno a loro.

Tutto questo se si potesse veramente pensare alla "professione docente" come a un tratto fondamentale di una società dove l'imparare e i suoi "artisti" – chi impara, chi insegna – hanno davvero quel ruolo centrale che oggi tutte le teorie e i documenti di politica sociale importanti celebrano con enfasi.

Oggi invece la professione docente è assai lontana dalle immagini armoniose di una danza creativa. Se si associano le parole "danza" e "docenti", semmai è all'ironia che bisogna subito ricorrere. È necessaria per cercare di accogliere senza troppo sconforto le immagini, assai più prosaiche, dei "balletti" che caratterizzano le assegnazioni delle cattedre, o del valzer dei posti che affligge tante scuole all'inizio di ogni nuovo anno.

È piuttosto allo stridore di molte contraddizioni, alla durezza di condizioni insicure e impervie, all'incertezza che si pensa quando si parla di "professione docente". Un'espressione non facile da decifrare e declinare, in cui convivono molte tradizioni di pensiero, molti significati e molte proiezioni.

Questo capitolo intende addentrarsi in alcuni di tali significati per proporre una riflessione sulle potenzialità e i vincoli che caratterizzano lo scenario in cui la professione docente si realizza oggi, sospesa tra l'invito a riscoprire, ricostruire e vivere nuovi valori e nuove competenze e, d'altra parte, i condizionamenti delle istituzioni con le loro storie, del sociale, del politico e delle influenze economiche.

Tenere conto di questa duplice dimensione è importante.

Troppo spesso infatti si pensa che la celebrazione delle nuove prospettive dell'apprendere, e la responsabilità di farle proprie e metterle in scena, sia esclusivamente una questione di competenze e disponibilità dei docenti o delle scuole nei confronti di contenuti e modalità nuove. E troppo spesso si trascura di considerare come in queste competenze professionali debba essere inclusa la consapevolezza – e gli strumenti per svilupparla di continuo – di che cosa significa agire, dover agire, in contesti determinati da condizioni che vanno ben al di là dei poteri individuali di modificare e di incidere.

Si vuole sostenere qui che, quando si discute un pensiero nuovo sulla professione docente, considerare la disponibilità a imparare per insegnare non basta. C'è un delicato equilibrio di prospettive da osservare e coltivare: quello tra l'imparare contenuti, modi e anche tecniche per operare nella pratica e quello dell'imparare a comprendere i sottofondi e i contesti in cui le pratiche vengono messe in atto. È un equilibrio che costa dilemmi oggi sempre più forti, ma può promettere riscoperte e rivalutazioni.

Da un lato si vuole e si deve agire giorno per giorno con il cuore e con la mente, fronteggiando le numerose questioni cruciali dell'educare con adeguatezza: le tecnologie, gli alunni stranieri, i nuovi saperi, per citare solo alcuni dei più comuni ambiti. Dall'altro è indispensabile trovare lo spazio per interrogarsi sul significato del proprio agire, cercare di comprendere come questo viene richiesto dal contesto, quali sono i suoi limiti, che effetti produce, a quali cause fa gioco, spesso al di là delle nostre intenzioni.

In altre parole è importante dedicare attenzione alle "conoscenze per comprendere", oltre che alle "conoscenze per agire" (Barzanò, 2008a).

Il capitolo quindi affronta alcune tematiche chiave legate all'idea di professione. Si approfondiscono le connessioni tra le esigenze della società della conoscenza e i cambiamenti che questa richiede alla professione docente, si delineano i tratti dei concetti di professionalismo o professionalità illustrandone alcune recenti definizioni e implicazioni. Infine si tratta il tema della narrazione come pratica professionale che può aprire nuovi scenari di consapevolezza e di impegno.


1. Professione docente

1.1 Immagini della professione

«Migliorare l'istruzione e la formazione per insegnanti e formatori» è il primo dei tredici obiettivi concreti che il Consiglio europeo dell'istruzione si era posto sin dal 2002 per rendere operativo l'obiettivo, sempre citato, del Consiglio di Lisbona: trasformare l'Unione in una «economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo» entro il 2010.

La centralità della professione docente e il coinvolgimento degli insegnanti nei processi di innovazione sono del resto un leitmotiv di documenti ufficiali internazionali che trova ovunque grandi consensi.

Per esempio nel 2006, nella dichiarazione di San Pietroburgo dei capi di stato e di governo del G8, un documento fra tanti, si legge:

Lavoreremo nei nostri sistemi nazionali per fare dell'insegnamento una scelta professionale affascinante, per sviluppare le conoscenze e le competenze dei docenti e per avere nelle scuole insegnanti efficaci. L'insegnante è al centro dell'educazione. La presenza di insegnanti altamente qualificati in ogni classe è fondamentale per migliorare l'apprendimento e i risultati degli alunni. Gli insegnanti devono avere una buona conoscenza dei contenuti e dei metodi per essere educatori e mentori efficaci. Gli insegnanti efficaci sanno avviare i loro alunni a una conoscenza critica dei contenuti, sanno aiutarli a sviluppare il desiderio e la capacità di eccellere e di perseguire l'apprendimento per tutta la vita (Education for Innovative Societies in the 21" Century, San Pietroburgo 2006, http://en.civilg8.ru/1195.php).

Le politiche educative europee offrono molti esempi di questo orientamento. Come noto, esse non sono vincolanti per i singoli stati. Tuttavia, da quando nel 1992 il trattato di Maastricht ha riconosciuto nell'educazione un'area centrale di responsabilità della UE, si è avviato un processo di armonizzazione e convergenza in cui documenti ufficiali, linee guida, benchmarking e indicatori tendono a favorire lo sviluppo di un modello europeo di educazione, indicando direzioni comuni da seguire e ponendo una forte enfasi sull'idea di apprendimento per tutta la vita.

Una recente comunicazione della Commissione educazione al Parlamento europeo disegna un'immagine nitidamente algida della professione. Si legge:

È una professione altamente qualificata: tutti gli insegnanti hanno un diploma universitario (e chi lavora nella formazione professionale ha qualifiche elevate sia in ambito professionale che pedagogico). Tutti gli insegnanti hanno un'approfondita conoscenza della loro materia, una buona conoscenza pedagogica, hanno le competenze per guidare e sostenere l'apprendimento e una comprensione delle dimensioni culturali e sociali dell'educazione.

È una professione di persone che apprendono per tutta la vita: gli insegnanti sono aiutati a continuare il loro sviluppo professionale per tutta la durata della propria carriera. Loro stessi e i loro datori di lavoro riconoscono l'importanza di acquisire nuove conoscenze, sono capaci di realizzare innovazioni e di dare al proprio lavoro nuove forme sulla base delle prove dei fatti (Communication to the Council and EU Parlament: Improving the Quality of Education, 3 agosto 2007).

Affermazioni come quelle sopra riportate forniscono un'idea di come la professione docente sia vista oggi dalle politiche ufficiali a livello di intenzioni dichiarate e si possono commentare in diverso modo.

La prima osservazione che viene spontanea riguarda il gap tra quanto è dichiarato e ciò che succede nella realtà dei sistemi educativi, di cui gli insegnanti sono in effetti ben lungi dal sentirsi "al centro". La carriera docente ha pochi di quei tratti di appetibilità che le si vorrebbero attribuire e, quando li ha, questi sono più connessi a motivazioni e scelte personali profonde che a caratteristiche istituzionali. Ciò avviene per una pluralità di motivi, su cui non si intende qui soffermarsi, tra cui non sono trascurabili – nel nostro paese in particolare – quelli salariali (Barzanò, 2008b; Ribolzi, 2003). In tutto il mondo e in Italia in particolare la ricerca sottolinea anzi il senso di emarginazione e spesso di solitudine e impotenza che caratterizza la percezione della professione docente (Blandino, 2008; Cavalli, 2000; Colombo, 2005; Florenzan 2006).

La seconda osservazione è forse più sofisticata e profonda e concerne l'immagine di professione che emerge da documenti come quelli sopra citati.

In che cosa consiste per esempio l'"alta qualificazione" degli insegnanti cui ci si riferisce? Si evince dai testi che essa consiste nella conoscenza dei contenuti e dei metodi che favoriscono l'efficacia dell'apprendimento, tutt'al più con una spolverata di comprensione «delle dimensioni sociali e culturali dell'educazione». Se tale conoscenza è certamente necessaria, essa però appare assai limitata quando si considerano la complessità del ruolo del docente e la molteplicità dei suoi compiti nel processo educativo. Se davvero il docente a cui si pensa è "al centro" del processo educativo, come può il suo essere attore nella società dell'apprendimento riguardare solo contenuti e metodi tralasciando il contesto politico, storico e sociale in cui questi vengono messi in atto e i significati che questi assumono?

In altre parole, la filosofia che viene proposta è quella di una professione docente fondata su un sapere tecnico, continuamente rinnovato dalla prospettiva dell'"apprendimento per tutta la vita", dove gli insegnanti sono visti prevalentemente come produttori di risultati che si possono leggere nelle prestazioni quantificabili dei loro alunni. Essi rischiano quindi di essere soprattutto come i «manager di performance istituzionali» (Ball, 2008, p. 140).

Come osservano molti commentatori (per esempio Jervis, 2001; Ball, 2008; Sachs, 2008) questo modello non manca di aspetti ambigui e pericolosi. Secondo Jervis le forze sociali che hanno prodotto la società dell'apprendimento hanno anche prodotto situazioni di esclusione e instabilità su cui è importante riflettere:

È necessario riconoscere che l'apprendimento, che generalmente si considera come un fenomeno positivo in quanto tale, a volte è tutt'altro che positivo [...] l'apprendimento non-riflessivo può rinforzare lo status quo della società [...] la maggior parte della letteratura sull'apprendimento per tutta la vita non pone tanto l'accento su valori di umanità, ma sul fatto che gli individui siano capaci di lavorare in modo da rendere i loro datori di lavoro o i loro paesi competitivi all'interno del mercato globale (Jervis, 2001, p. 202).

Dietro alla celebrazione dell'apprendimento continuo come bene "al di sopra di ogni sospetto" ci sono implicazioni sulle quali la comunità professionale dovrebbe avere il diritto e le opportunità di interrogarsi, acquisendo consapevolezza dei modi in cui l'educazione e l'apprendimento sono parte di una più ampia superstruttura. In questa prospettiva, è necessario aprire gli occhi sul processo strisciante di colonizzazione dell'educazione e delle professioni educative da parte degli imperativi delle politiche economiche.

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In molti paesi invece le riforme tendono a ristrutturare il profilo della professione docente circoscrivendone le competenze all'ambito della pedagogia, dei metodi e dei contenuti disciplinari. Nessuna enfasi su quella competenza del sociale che «può dare accesso alla ricerca indipendente, alla critica, alla comprensione di ciò che fanno altri docenti in altri contesti» (ibid.).

Anche nel nostro paese l'orientamento espresso dai decisori politici segue questa tendenza. Il recente documento stilato dal Gruppo di lavoro per la formazione del personale docente identifica due priorità a fondamento dei percorsi di formazione degli insegnanti: il rafforzamento della competenza disciplinare e lo sviluppo della riflessione pedagogica e delle capacità didattiche, organizzative, relazionali e comunicative. In questo documento, che si propone di indicare le linee guida della formazione universitaria dei docenti, non si nota alcun interesse per la competenza nei metodi della ricerca: quasi come se la riflessione pedagogica e la didattica dovessero avvenire in un territorio neutro, che comunque non riguarda la vita professionale del docente.

Eppure, è interessante osservare che nella tradizione pedagogica del nostro paese il richiamo al coinvolgimento degli insegnanti nella ricerca e l'invito a collocare l'azione didattica nel più ampio contesto culturale del sociale, della storia e delle pressioni che la condizionano è stato forte.

Quarant'anni fa, in La ricerca come antipedagogia, un testo che ha caratterizzato un'epoca e che molti di coloro che oggi ancora insegnano avevano "studiato", De Bartolomeis (1969) presentava analisi e proposte sui significati politici e sociali delle competenze di ricerca dei docenti. Sottolineando l'importanza di ri-concettualizzare la professione docente, De Bartolomeis osservava:

Ridefinire i ruoli significa compiere un'analisi socio-politica di un campo di forze, individuare le condizioni per trasformare i modi di azione di individui e gruppi, perciò ci si incontra inevitabilmente con la distribuzione del potere. È un'operazione culturale nuova che ha bisogno di una metodologia rigorosa e non di subcultura. Il metodo della ricerca è appunto uno degli strumenti di ridefinizione dei ruoli sul piano non della subcultura ma più costruttivamente della nuova cultura. La ridefinizione va fatta dall'interno, autonomamente analizzando le forze che gravitano nelle istituzioni in cui si opera, le altre istituzioni sociali e il potere politico (ivi, p. 41).

L'esigenza di contestualizzare anche il sapere tecnico e di imparare a guardare con attenzione che cosa si può nascondere sotto ai concetti che appaiono più "oggettivi" è evidenziata in molti testi cruciali della pedagogia italiana. Per esempio Domenici (1993) introducendo le tecniche della valutazione nel "Manuale della valutazione scolastica" pone innanzitutto l'accento sulla necessità di essere consapevoli di come «la determinazione dei criteri valutativi utili per esprimere dei giudizi [...] delle funzioni e persino degli strumenti valutativi impiegati al suo interno, derivi principalmente dal valore assegnato socialmente alla formazione scolastica e dagli scopi che l'intera struttura formativa è chiamata a perseguire» (ivi, p. 7).

Notazioni come queste indicano chiaramente l'importanza di uno sfondo culturale forte a fondamento di ogni azione didattica. Esse rimangono molto attuali di là dai diversi contesti storici in cui sono state concepite. Tuttavia rileggerle suscita una certa inquietudine, quando si pensa allo scenario odierno, quasi esse rappresentassero l'immagine di un sogno infranto. Non sembra infatti esserci molto spazio oggi, alla luce delle considerazioni sopra riportate, per una scuola fatta di consapevolezze culturali e sociali dove i docenti vogliono e sanno porsi interrogativi forti e riescono a nutrire le loro riflessioni.

Anche in Italia, come in numerosi paesi, le voci più autentiche e attente di chi pensa e ri-pensa l'educazione nell'ampiezza delle sue implicazioni rimangono a poco a poco sommerse dal brusio di riforme che scalzano i valori tradizionali dell'educazione e ne modificano i principi costitutivi per rendere sempre più stringente il suo rapporto con l'economia. In questo contesto l'attore ideale è il docente bravo tecnico, esperto "manager di classe" focalizzato sul compito, che però non padroneggia gli strumenti per costruirsi gli argomenti che gli consentono di discuterlo alla radice.

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5. Osservazioni conclusive

In questo capitolo si è proposto un itinerario di riflessione sull'imparare e sull'insegnare. Si sono analizzati alcuni aspetti del contesto attuale dell'educazione e si è visto come l'"imperativo" dell'apprendere è concettualizzato dalle politiche internazionali e nazionali producendo sfide che è importante saper affrontare per ribadire un'idea di scuola fondata sulla cultura e su valori di equità e di giustizia sociale e non esclusivamente abbandonata alle influenze dell'economia di mercato.

Ci si è poi soffermati sul concetto di professionalismo o professionalità osservando come questo possa essere interpretato secondo logiche diverse, che implicano obiettivi e strumenti diversi e possono circondare l'azione educativa di atmosfere contrastanti. La logica del professionalismo manageriale vede l'insegnante come il costruttore di risultati "oggettivi", misurabili secondo standard che sono definiti a priori. La logica del professionalismo democratico o etico è fondata sulla rivisitazione continua dei principi più profondi della democrazia, della cultura con il suo divenire e della partecipazione, e vede l'educazione come uno strumento determinante per renderli vitali e attuali nel senso più pieno del termine. Se ci si pone in questa prospettiva il processo educativo e l'idea di risultato vanno ben oltre l'accertamento "oggettivo" e richiedono un dialogo, e una consapevolezza che si costruiscono giorno per giorno, dando valore all'esperienza e alla voce di tutti gli attori.

Non c'è sistema educativo che non dichiari gli ideali della democrazia a fondamento delle sue azioni. Ci sono addirittura paesi che hanno creato grandi contenitori legislativi dove confluiscono, sotto titoli pomposi, insiemi di atti normativi ufficialmente ispirati da grandi intenti in questo senso. È il caso degli USA con le politiche di No child left behind (Non lasciamo indietro nemmeno un alunno) o dell'Inghilterra con Every child matters (Ogni alunno è importante), che valutano i risultati degli studenti con programmi di testing che si propongono di promuovere il miglioramento di tutti. In entrambi i paesi dietro alle seduzioni che l'intitolazione produce ci sono iniziative di classificazione e di semplificazione dello spirito dell'educazione sulle quali si è ormai prodotto un fiorire di critiche (Hargreaves, 2008). Infatti, come si è osservato, le politiche educative, nell'orizzonte internazionale come nel nostro paese, nascondono molte insidie e spesso dichiarano obiettivi che rendono esse stesse irraggiungibili con i loro marchingegni.

Oggi ci sono idee e prospettive nuove per l'imparare e l'insegnare, nuovi strumenti tecnologici per sostenerne i processi, ma alcune questioni fondamentali che hanno caratterizzato il dibattito sull'educazione sono ben lungi dall'essere risolte.

Don Milani, quarant'anni fa, parlava dell'esperienza che i suoi alunni di Barbiana avevano fatto alla scuola media pubblica di allora e lanciava un grido di allarme che sembrava aver avuto un'eco profonda, sulla distanza della scuola formale dalla vita e dall'imparare dei ragazzi più deboli:

Gianni non sapeva mettere l'acca al verbo avere. Ma del mondo dei grandi sapeva tante cose. Del lavoro, delle famiglie, della vita del paese. Qualche sera andava col babbo al Consiglio Comunale. Voi coi greci e coi romani gli avete fatto odiare tutta la storia. Noi sull'ultima guerra si teneva quattro ore senza respirare. A geografia gli avreste fatto l'Italia per la seconda volta. Avrebbe lasciato la scuola senza aver sentito rammentare tutto il resto del mondo. Gli avreste fatto un danno grave. Anche solo per leggere il giornale. Sandro in poco tempo si appassionò a tutto. La mattina seguiva il programma di terza. Intanto prendeva nota delle cose che non sapeva e la sera frugava nei libri di seconda e di prima (Milani, 1969, p. 27).

Don Milani analizzava con grande acutezza le esperienze dei ragazzi e scriveva a "una professoressa". Oggi ritroviamo le sue considerazioni tra i pensieri accorati dei non pochi insegnanti attenti e impegnati.

Qui a parlare è Ludovica, un'insegnante di scuola secondaria di primo grado alle prese con l'"accoglienza" degli alunni stranieri e delle loro storie e con i turbamenti dei messaggi contraddittori che riceve:

Quelli arrivati a settembre, già nel secondo quadrimestre cominciano a fare percorsi facilitati in storia, geografia, italiano... perché devono saper scrivere, saper fare una prova.

Normalmente sai cosa succede a questi ragazzi?

Da qualsiasi parte del mondo arrivino (sono da escludere i cinesi per la matematica), hanno dei programmi di lavoro nettamente "inferiori" rispetto ai nostri, con contenuti che vengono proposti a loro in fasi diverse.

Quindi devono abituarsi a ciò che noi chiediamo... e quello che andiamo a chiedere a questi ragazzi è fuori dalla grazia divina!

Nei corsi di formazione ci hanno detto che ci vogliono dai quattro ai cinque anni perché possano studiare in una lingua che non è la loro... e noi pretendiamo che dopo sei mesi siano in grado di studiare, capire, ripetere, rielaborare in una lingua che non è la loro?!... questo è quello che noi andiamo a chiedere!

C'è una notevole assonanza tra le due testimonianze, nonostante la distanza storica che le separa e nonostante la scuola in cui insegna Ludovica sia molto diversa da quella che stizziva don Milani. Ludovica infatti è in una scuola innovativa, dove si lavora con le tecnologie e si seguono progetti d'avanguardia, dove sono molti gli insegnanti che non cessano di interrogarsi e sono impegnati ad affrontare le sfide che si trovano di fronte. In effetti, negli ultimi anni, uno dopo l'altro, sono arrivate qui decine di ragazzi dai più diversi paesi. Dieci anni fa gli alunni erano solo italiani, oggi circa il 30% non lo è. Gli insegnanti insieme al dirigente e ad altri esperti fanno quello che possono per creare le migliori condizioni per accogliere e per prendersi cura di tutti.

Ludovica del resto è molto diversa dalle "prof" di Gianni e Sandro di cui parla don Milani e le sue parole ci bastano per capire quanto le preoccupazioni che la animano siano su un'altra lunghezza d'onda.

Ma essere insegnanti bravi e volenterosi, in un contesto istituzionale disattento alle verità dell'esperienza degli attori non basta a poter creare le condizioni per imparare e insegnare in modo "giusto" e non basta nemmeno una buona "cultura di scuola". Quello che gli scenari di oggi sempre più ci rimandano è l'invito a trovare uno spazio e un rilievo diversi per la professionalità docente, a creare i contesti perché l'esperienza possa raccontarsi e "contare". È un invito alle istituzioni, ma anche, se non soprattutto, agli insegnanti, che possono lavorare con la loro voce in molti e ricchi modi. Un professionalismo etico e democratico richiede voci coraggiose.

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