Copertina
Autore Georges Bataille
Titolo Sacrifici
Sottotitolocon 4 acqueforti di André Masson
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2006, 1 euro , pag. 47, ill., cop.fle., dim. 10,5x14,2x0,3 cm , Isbn 978-88-7226-978-7
OriginaleSacrifices [1933]
CuratoreMarco Rovelli
PrefazioneMarco Rovelli
TraduttoreMarco Rovelli
LettoreLuca Vita, 2007
Classe narrativa francese , filosofia
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Pagina 3

La visione della catastrofe


Sacrifices è un testo che Georges Bataille scrisse nel 1933 e che venne pubblicato tre anni dopo in una plaquette, ad accompagnare cinque acqueforti di André Masson che rappresentano cinque divinità sacrificali: Mithra, Orfeo, Il Crocifisso, Minotauro, Osiride.

Erano gli anni di Acéphale, il gruppo fondato da Bataille al quale aderiva anche Masson (che di Acéphale disegnò anche quello che, di fatto, ne divenne l'icona). Acéphale, ovvero il mito batailleano dell'uomo senza testa. Laddove la Testa simbolizzava anzitutto, come ha scritto Maurice Blanchot, "il capo, la ragione raziocinante, il calcolo, la misura e il potere"', ma non solo questo, come lo stesso Blanchot continuava subito dopo: si tratta di rivendicare una tragica condizione di inappartenenza, l'abbandono di ogni identità in una perdita – dépense – assoluta, nel dono sovrano. L'abbandono dell'individuo al contagio del comune: e ciò che è il più comune – l'unica cosa che si può condividere davvero, seppure come mancanza – è la morte, ovvero il vuoto che ci forma, e al quale siamo consegnati. Acéphale, dunque, ovvero la comunità di coloro che non hanno comunità. Una comunità che vive l'impossibilità di ogni comunità – che vive, dunque, la sua morte. Una comunità all'altezza della morte.


Fino ad ora questo testo è rimasto inedito in Italia. Lo traduciamo, finalmente, pubblicandolo insieme alle acqueforti di Masson.

Occorre dire che si tratta di un testo assai arduo, ostile a tratti. In questo senso vi è una concordanza estrema, esemplare addirittura nella sua estrema alterità, tra la forma del testo e i concetti in esso espressi. Della difficoltà del testo doveva essere cosciente lo stesso Bataille, se è vero che, quando lo riprese dieci anni dopo per inserirlo ne l'esperienza interiore, lo rimaneggiò profondamente, tagliandolo, chiosandolo e sciogliendone molti punti oscuri (nonché cambiando il titolo in La morte è in certo senso un'impostura). È anche in ragione dì questa difficoltà che mi permetto di indicare ai lettori che non conoscono l'opera di Bataille un percorso di lettura, al fine di aiutarli a decifrare un ttesto che ad alcuni potrebbe risultare imprenetrabile. (Si potrebbe ad esempio suggerire di violentare il testo di Bataille e cominciare la lettura dal terzo paragrafo...). Per il senso del Sacrificio nell'opera di Bataille, invece, rimando alla postfazione.

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Pagina 29

III

In questa rivelazione prematura e ancora confusa di una regione ultima dell'essere, alla quale la filosofia, come ogni comune determinazione umana, non accede che malgrado se stessa (come un cadavere percosso), il problema fondamentale dell'essere stesso viene lasciato in sospeso allorché la sovversiva aggressività dell' io accetta che l'illusione sia la descrizione adeguata della propria natura.

In questo modo viene rifiutata ogni possibile mistica, ovvero ogni rivelazione particolare a cui viene dato corpo da una qualche devozione. Allo stesso modo, il desiderio imperativo della vita che cessa di accettare come proprio ambito lo stretto cerchio delle apparenze ordinate logicamente, al culmine della propria avida elevazione non avrebbe come oggetto altro che una morte ignota e il riflesso di questa morte nella notte deserta.

La meditazione cristiana davanti alla croce non viene più respinta come nella semplice ostilità, ma assunta in un'ostilità totale che esige una stretta corpo a corpo con la croce. E così essa deve e può essere vissuta come morte dell'.cor io, non come adorazione rispettosa ma come la brama di un'estasi sadica, lo slancio di una follia cieca che sola accede alla passione dell'imperativo puro.

Nel corso della visione estatica, sul limite della morte sulla croce e del lamma sabachtani ciecamente vissuti, l'oggetto della visione si rivela, in un caos di luce e d'ombra, come catastrofe, ma non come Dio, né come nulla: l'oggetto che l'amore, incapace di essere libero se non fuori di sé, esige per sprigionare il grido dell'esistenza lacerata.

In questo porsi dell'oggetto come catastrofe, il pensiero vede l'annientamento che lo costituisce come una caduta vertiginosa e infinita; in questo modo esso non ha la catastrofe solo come oggetto: la sua struttura stessa è la catastrofe, ovvero, l'assorbimento nel nulla che lo sorregge e che allo stesso tempo sfugge. Qualcosa d'immenso si libera da ogni parte con l'ampiezza di una cataratta, sorge dalle regioni irreali dell'infinito e allo stesso tempo sprofonda in un movimento di una forza inconcepibile. Il vetro che, nel fragore di treni che si scontrano, taglia la gola d'improvviso è l'espressione di questa comparizione imperativa – implacabile – e tuttavia già annientata.

Nelle condizioni comuni, il tempo appare rinchiuso – praticamente annullato – nella permanenza delle forme e in ogni successione che può essere afferrata come permanenza. Ogni movimento suscettibile di essere inscritto entro un ordine annulla il tempo, assorbito in un sistema dì misure e di equivalenze: così il tempo, divenuto virtualmente reversibile, svanisce, e col tempo tutta l'esistenza.

Tuttavia, l'amore bruciante – che consuma l'esistenza esalata ad alte grida – non ha altro orizzonte che una catastrofe, una scena d'orrore che libera il tempo dai suoi legami.

La catastrofe – il tempo vissuto – deve essere rappresentata estaticamente non sotto forma di vecchio, ma di scheletro armato di una falce: scheletro glaciale e lucente ai denti del quale aderiscono le labbra di una testa tagliata. In quanto scheletro, è distruzione compiuta, e insieme distruzione armata che s'innalza alla purezza imperativa.

La distruzione corrode profondamente, e così purifica, la stessa sovranità. La purezza imperativa del tempo sì oppone a Dio, il cui scheletro si dissimula in drappeggi dorati, sotto una tiara e sotto una maschera: maschera e soavità divine esprimono l'adeguamento di una forma imperativa che si dà come provvidenza all'esercizio dell'oppressione politica. Ma nell'amore divino si rivela infinitamente il bagliore raggelante di uno scheletro sadico.

La rivolta — la faccia decomposta dall'estasi amorosa — strappa a Dio la sua maschera ingenua, e in questo modo l'oppressione rovina, nello schianto del tempo. La catastrofe è ciò per cui un orizzonte notturno è abbracciato, ciò per cui l'esistenza lacerata è entrata in trance — è la Rivoluzione — è il tempo liberato da ogni catena e puro cambiamento, è uno scheletro, uscito da un cadavere come da un bozzolo, che vive sadicamente l'esistenza irreale della morte.

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