Copertina
Autore Gregory Bateson
Titolo Perceval
SottotitoloUn paziente narra la propria psicosi 1830-1832
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2005 , pag. 382, cop.fle., dim. 220x146x19 mm , Isbn 978-88-339-1590-6
OriginalePerceval's Narrative, A Patient's Account of his Psychosis, 1830-1832 [1989]
CuratorePaolo Bertrando
TraduttoreAntonella Gilli
LettorePiergiorgio Siena, 2005
Classe psichiatria , psicologia
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Indice

  7 Introduzione di Gregory Bateson
    La vita di Perceval
    Le intuizioni di Perceval
    Nota bibliografica

 29 Capitolo I
 31 Capitolo II
 34 Capitolo III

    [...]

354 Capitolo XXXVIII

357 Versioni di Perceval.
    Nota finale di Paolo Bertrando
    Ancora su Perceval
    Perceval, Fox e la psichiatria
    Perceval, Bateson e la follia
    Bibliografia

 

 

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Pagina 11

Le intuizioni di Perceval

Più e più volte Perceval asserisce che un paziente ne sa di più, sulla natura della follia, sia del pubblico in generale, sia dei «medici dei folli», e si assume seriamente il compito di comunicare al mondo com'è fatta la follia e come i folli dovrebbero essere trattati. Quanto ha da dire sull'argomento è, anzitutto, questo: il compito o dovere del medico, o di quanti amano il paziente, è capire. Le frasi pronunciate dal paziente non devono essere liquidate come folli, né il suo comportamento dev'essere penalizzato con bagni freddi o manette.

Questa tesi è affermata forse nel modo più chiaro quando il fratello maggiore, Spencer, viene a prenderlo a Dublino: Quando mio fratello comparve per la prima volta al mio capezzale, gli dissi: «Adesso ho delle speranze, sarò compreso e rispettato», perché mi aveva scritto che credeva nei miracoli di cui si raccontava a Row. Quando, tuttavia, gli dissi per la prima volta: «Mi si chiede di dire questo e quello, mi si chiede di fare questa o quell'azione», mi rispose in tono sbrigativo e superficiale, come se si rivolgesse a un bambino; e si fece beffe delle mie affermazioni. Le speranze d'esser compreso erano svanite, e il mio cuore si allontanò da lui (p. 78).

È facile, naturalmente, per il paziente psichiatrico sostenere che se qualcun altro avesse fatto qualcosa di diverso, non si troverebbe nel suo stato attuale; e si può dubitare che, se Spencer fosse stato insieme accettante e critico, John lo avrebbe ascoltato. Ma da altro materiale si può desumere che le successive remissioni siano state favorite dall'incontrare un'accettazione di base accompagnata da dubbio o critica.

Perceval dice chiaramente, rispetto alle voci: «Soccombetti a un abituale errore della mente (...) quello del timore di dubitare e di accettare la colpa del dubbio sulla mia coscienza» (pp. 62 sg.).

Qui Perceval scrive, come spesso gli accade, con saggezza retrospettiva, come se fosse sufficiente scoprire gli usi del dubbio per sfuggire a una complessa rete di deliri. Ignora i fatti della propria esperienza: ignora che il coraggio di mettere in dubbio le sue voci e i suoi deliri crebbe in lui con dolorosa lentezza, e che i deliri stessi contribuirono dalla sua crescita. Temendo di dubitare, giunge a credere letteralmente ai suoi deliri e a quanto le voci gli dicono. Ma in fin dei conti quei messaggi non sono che caricature e iperboli del suo puritanesimo distorto e dei suoi sensi di colpa. Per loro stessa natura, i suoi deliri contengono, in forma invertita o nascosta, proprio quei dubbi che lui teme di nutrire in forme più coscienti. Quegli stessi deliri lo conducono a esperienze che ne sono la reductio ad absurdum, e tra l'altro saranno proprio queste ripetute esperienze del ridicolo che infine lo faranno rinsavire.

La frase «accettare la colpa del dubbio sulla mia coscienza» è strana, e possiamo ben chiederci quale precisamente fosse per lui il suo «abituale errore». Perceval prosegue asserendo che il dubbio, essendo involontario, non ha niente a che vedere con la coscienza. «Rifiutare volontariamente la persuasione è un crimine, ma è anche un crimine dichiarare deliberatamente che crediamo in ciò di cui invece dubitiamo, o, con presunzione, che i nostri dubbi sono intenzionali» (ibid.). Perceval era, sopra ogni altra cosa, un protestante, ed era interessato a estendere, più che restringere, l'ambito della coscienza individuale. Il suo errore, mi sembra, stava nell'incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Non avrebbe dovuto saziare il suo orgoglio e gravarsi la coscienza marchiando il dubbio come «colpevole». Avrebbe dovuto, semmai, accettare il dubbio come una funzione della mente individuale, da esercitare responsabilmente. Avrebbe dovuto assumere nella sua coscienza la responsabilità del dubbio.

Le voci di Perceval erano grottescamente punitive e, con una caricatura d'ingiustizia, lo inducevano a sentimenti di assoluta ingratitudine; i medici e gli infermieri della casa di cura non facevano nulla di meno, ma lo facevano sul serio. Il fallimento del sistema è evidente nella lettera del dottor Fox (pp. 233-35), e Perceval fa presto a percepire il carattere ipocrita e internamente contraddittorio di questo documento. Così sintetizza la questione: «Ancora oggi, mi tormenta il sospetto che il dottor Fox agisse deliberatamente, o che, segnato dalla pratica quotidiana abituale e incontrollata dell'impostura, non sapesse più a quale spirito egli appartenesse» (pp. 234 sg.).

Pare così che il sistema terapeutico, nel tentare di ridurre i pazienti a sconfessare sé stessi, non potesse farlo in modo tale da accelerare il loro passaggio attraverso la psicosi. I curanti, prigionieri delle loro buone intenzioni o del bisogno di apparire pieni di buone intenzioni, erano vincolati a un sistema di condotta estremamente rigido, persino più rigido dell'esagerato evangelismo delle voci di Perceval. Queste, in fin dei conti, potevano modificare contenuti e tono a seconda delle necessità del paziente. A questo punto è necessaria una digressione. Ogni schizofrenico guarito pone il problema di come e perché si è verificata la guarigione. E questo problema è visto come particolarmente urgente quando si raggiunge la guarigione con il minimo d'interferenza medica. Quella che si definisce «remissione spontanea» è considerata un mistero.

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Pagina 29

Capitolo I


Per mia sventura, nell'anno 1830 fui deprivato dell'uso della ragione. Questa calamità si abbattè su di me intorno a Natale. All'epoca mi trovavo a Dublino. L'Onnipotente consentì che la mia mente cadesse in rovina, colpita dalla malattia: da deliri di natura religiosa e da cure del tutto contrarie alla natura. La mia anima sopravvisse a quella rovina. Com'ero stato dapprima vittima, in parte, d'ignoranza o scarsità di comprendonio da parte del mio medico, così fui in seguito consegnato al controllo d'altri uomini di medicina, la cui abituale crudeltà e, peggio che ignoranza, ciarlataneria divennero la parte più dura del severo castigo cui dovevo sottostare. M'inflissero grandi crudeltà, accompagnate da ingiustizia e offesa; dapprima durante la mia reclusione, quando mi trovavo in istato d'imbecillità infantile, nell'anno 1831; successivamente, nel guarire da quella condizione, tra il novembre del 1831 e il maggio del 1832; e ancora, in seguito, durante i rimanenti mesi del 1832 e l'anno 1833, quando mi consideravo ormai sano di mente. Giacché ero stato affidato alle cure di quattro medici dei folli, i cui metodi di cura differivano radicalmente l'uno dall'altro, e poiché avevo parlato con altri due, e avevo vissuto a stretto contatto con lunatici, osservandone i modi e riflettendo sui modi miei medesimi, giudico queste ragioni sufficienti per manifestare il mio e il loro dolore a uomini capaci di comprendere, ai quali spero di rivolgermi, per raccontare loro ben più, della mia storia personale, di quanto potrebbe altrimenti parere interessante e sensato. Proprio perché desidero indurre una compassione attiva e intelligente, nell'interesse delle persone più miserabili, più oppresse e indifese dell'intera umanità, intendo rendere palese l'inutile tirannia con cui li trattano - e per giunta schernendoli - quanti simulano di curarli, ma, in realtà, li tormentano e annientano.

Apro la bocca per coloro che non possono parlare. Permettetemi di dichiarare, qui, che scrivo in difesa dei giovani e dei vecchi, della delicatezza femminile, della modestia e della tenerezza, non solo in difesa dell'uomo, o della virilità - abbandonato, nel momento della debolezza, a essere indecentemente esposto, disgustosamente oltraggiato e sottoposto a immotivata violenza - che scrivo per quei pochi fatti oggetto di sospetto e allarme, alla società, la quale, troppo assorbita dagli affari o dal piacere per dedicar tempo alla riflessione, è comunque capace di trattare queste persone, oggetto d'insolenzà e di paura, con folle crudeltà, infliggendo loro un trattamento malvagio; essendo i membri della società, come i folli, privati del comprendonio per una paura esagerata e irragionevole, ma non privati, come loro, dalla malattia, del senso di colpa per la loro cattiva condotta. L'argomento cui rivolgo la mia attenzione è anche uno sul quale, cari lettori, per il costume diffuso nella società, anche i più saggi di voi darebbero un giudizio sbrigativo o azzarderebbero un'opinione quand'anche privi di elementi sufficienti per una corretta valutazione.

Nel nome dell'umanità, allora, nel nome del pudore, nel nome della saggezza, v'invito a immedesimarvi in coloro le cui sofferenze vado a descrivere, prima di discutere quale linea d'azione debba essere perseguita verso di loro. Avvicinatevi loro coi sentimenti e cercate di prendere le loro difese. Siate loro amici, non mostrate ostilità nelle vostre considerazioni. Accettate come dato di fatto l'ignoranza che tutti voi ammettete e date udienza a chi molto vi può insegnare. Disponetevi ad ascoltare con l'animo di un bambino, perché piccini siete, o tali cercate di pensarvi, nella conoscenza di quest'argomento; non credete senza domandare, ma indagate così da poter credere.

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Pagina 61

Vorrei ribadire qui che diventai vittima di una così assurda allucinazione, conservando tuttavia una grande capacità di autoanalisi. Gli spiriti che per primi parlarono al mio orecchio o si rivolsero a me a Row e a Port Glasgow e che successivamente parlarono in me e si mossero in me; gli spiriti di cui più tardi in Irlanda avrei dovuto sentire le parole e con i quali avrei iniziato la mia comunicazione spirituale si esprimevano in maniera così pura, toccante e meravigliosa, che non potevo fare a meno di considerarli divini. Parlavano in sintonia con il verbo della vita e mi conducevano sui sentieri della pace, dell'obbedienza e dell'umiltà; mi lusingavano anche nel mio desiderio di aderire alla Chiesa ufficiale e di non rompere la chiara unità della Chiesa; calarono in me per insegnarmi metodo e ordine; mi guidarono la mano nello scrivere lettere che non mi erano familiari; si erano dimostrati spiriti del bene e della saggezza in così tanti casi che, perfino ora, non oso negare la possibilità che sia stato il disobbedire loro, e non l'obbedire, a gettarmi nella confusione, com'ero stato messo sull'avviso in Scozia. Ma quando mi lasciai andare, e fui cacciato via, fui allontanato da Gesù, la roccaforte della salvezza d'un cristiano, dalla mia fiducia in quei suoni. Perché, com'è scritto, la parola del Signore è giunta ai profeti, a Isaia ecc. ecc. Quando la voce giunse a me, io la ricevetti come la voce del Signore; perché quando la udii per la prima volta era come la voce descritta da Elia, una «voce tranquilla e soave» e i comandi che impartiva erano come il resto della mia esperienza iniziale, apparentemente buoni e istruttivi. In seguito, la voce mi aveva allontanato dalla mia fiducia nel sangue di Gesù, anche grazie alla speranza nella misericordia di Gesù, dicendomi che non sarei stato salvato dai mezzi comuni della fede, della speranza e della carità, bensì da un intervento speciale dello Spirito Santo e dall'identico lavoro di Gesù in me, per trasformare il mio corpo; lo accettai, sebbene non potessi comprenderlo, più per l'autorità degli spiriti che si rivolgevano a me che per la straordinaria dimostrazione della misericordia di Gesù. Così, come un tempo m'era stato impedito di considerare la croce di Gesù come mia unica speranza di salvezza, allo stesso modo lo stesso potere, e con gli stessi mezzi, mi suggerì ch'era nuovamente necessario che compissi un atto inusuale per salvarmi, giacché avevo rinunciato al mio nuovo stato di grazia. Perché a quel tempo, con ogni probabilità, ero già in uno stato di delirio febbrile.

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Pagina 90

Subito cominciai a pensare: «Che cosa posso fare per distruggere la mia ipocrisia?», e nuovamente caddi nella follia. Poi ripresi il mio valzer, guidato dagli spiriti, e afferrai l'anziano sorvegliante per danzare con lui; infine, visto che il mio tentativo era assurdo, e che lui rifiutava la proposta, gli spiriti dissero: «Allora cimentati nella lotta con lui, se vuoi.» Gli chiesi di combattere, ma lui rifiutò. Compresi che questo serviva per provare la mia sincerità. Lo afferrai per costringerlo a lottare e lui si allarmò. In quel momento, un anziano paziente del manicomio passava davanti alla porta e, sentendo rumori di colluttazione, entrò e aiutò il sorvegliante a infilarmi la camicia di forza; poi mi coricarono a forza sul divano. Per mesi mi chiese scusa per il suo comportamento, dicendo ch'era pomeriggio e che tutti gli altri sorveglianti erano fuori a passeggiare con i rispettivi pazienti.

Così cominciò il mio secondo tracollo e l'orribile avvicendarsi di sofferenze e crudeltà che terminò con la guarigione dalle allucinazioni intorno all'inizio dell'anno successivo e fu seguito dalla reclusione, come pazzo, per quasi due anni; in verità, ero in buone condizioni mentali, ma la prigionia proseguì perché ero in conflitto con i miei familiari per via del loro comportamento nei miei confronti e del tipo di cura per cui avevano optato; ero determinato a portarli davanti al tribunale, per difendere altri malati e soddisfare il mio senso di giustizia, particolarmente eccitato. Non riesco più, dopo essere giunto a questo momento della mia prova, a chiamare la casa del dottor F... [Fox] con un nome diverso da quello che merita, manicomio, perché chiamarla casa di cura è una crudele presa in giro e un'ipocrisia rivoltante!

Ho già ricordato che quando giunsi in questa casa, non sapevo di essere folle. E la mia follia si differenziava per un aspetto da quella degli altri pazienti: non ero indotto ad agire da impressioni o sensazioni, bensì sviato da ispirazioni udibili o visibili, invece che dalla guida sensibile delle mie membra. Rinunciavo alle mie facoltà mentali, o a quanto rimaneva di esse, quando udivo le voci che mi facevano da guida, temendo che se non mi fossi comportato in questo modo avrei disobbedito alla parola di Dio. Quando giunsi al manicomio del dottor F..., la mia condizione di salute era leggermente migliorata e la mia mente parzialmente confortata. Malgrado questo il mio sorvegliante m'informò, verso la fine dell'anno, che, quando mio fratello se n'era andato, avevo un aspetto così malato, che temeva non sarei sopravvissuto. Volontà e pensiero erano in me come quelli di un bambino, per i sentimenti che provavo verso coloro che mi erano accanto. Non conoscevo malizia, né vizio. Pensavo che tutti mi amassero e che tutti fossero interessati alla salvezza della mia anima. E immaginavo anche d'amarli con trasporto. Tuttavia ingaggiavo frequenti lotte con i miei sorveglianti e provocavo anche altri, mettendo a segno molti duri colpi. A volte, mi fu detto, tre uomini robusti avevano difficoltà a controllarmi, eppure tutte le volte che mi comportavo così, lo facevo obbedendo a un comando. Mi fu detto che essi sapevano che mi venivano impartiti dei comandi, che volevano che obbedissi, per provare la mia fede e il mio coraggio, ma che avevano l'ordine di verificare entrambi fino a quando non erano convinti della mia sincerità.

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Pagina 173

Capitolo XXVI


La mia guarigione fu molto graduale, ma le sue fasi notevoli. Per tre volte gli spiriti profetizzarono che sarebbe avvenuto un profondo cambiamento nella mia situazione. M'attendevo un miracolo, ma il mutamento avvenne dentro di me, per cause naturali, e modificò le mie relazioni apparenti con le persone che mi stavano accanto. Da tempo ero costantemente perseguitato dall'idea che le sofferenze che vedevo o immaginavo altri patissero, fossero sopportate da queste persone per il mio bene, e che fosse mio dovere cercare di condividerle o di alleviarle o di eseguire azioni comandate, il cui fallimento era la causa delle punizioni inflitte alle altre persone. Per esempio, quando un giorno vidi il giovane sacerdote, il signor J., legato al muro in un antro di fronte al mio con una manetta di ferro, in grande agitazione pregai il sorvegliante di non infliggergli tale tormento e di legare me al suo posto, perché egli mi aveva mostrato gentilezza e io avevo udito gli spiriti rivolgersi a me con parole e canti e dirmi: «Il signor J. è ammanettato per te.» Ma dopo una delle profezie menzionate prima, cominciai a udire queste parole in aggiunta ai messaggi degli spiriti, il signor J. è ammanettato, sta soffocando o qualunque altra cosa, per te; mi dicevano di meditare e di riflettere su questo fatto, o di riflettere con dolore e pentimento, e cose simili. Poi scoprii d'esser stato ingannato; e la mia mente ottenne la giusta quiete. Ero stato sollevato dall'idea opprimente di causare costantemente l'altrui infelicità con la mia cattiva condotta, e dall'assillo d'esser sempre chiamato a compiere azioni rischiose per alleviare le loro sofferenze. Cominciai a esitare prima d'ogni azione, attendendo un appello da uno degli spiriti, per sentire se un'ulteriore interpretazione o un'altra spiegazione non potesse chiarire meglio il primo comando. Dentro di me, mi burlavo dell'assurdità dei miei deliri. In seguito, ebbe luogo in me un grande cambiamento. Vedevo gli oggetti che mi circondavano in una luce diversa. Cominciai a non essere tanto disposto a rinunciare ai dettami del buonsenso per seguire le ingiunzioni d'agenti invisibili. Un'altra volta, gli spiriti cominciarono a cantarmi questa melodia: «Siete in un manicomio, se lo volete» - «se non lo volete, ci siete» ecc. ecc., «Quello è Samuel Hobbs, se volete - se non lo volete, è Herminet Herbert» ecc. ecc. ecc. Ma io ero stato ingannato per così lungo tempo dagli spiriti che ora, anche se dicevano la verità, non riuscivo a prestar fede alle loro parole. Tuttavia, sentendo che gli altri pazienti lo chiamavano Samuel Hobbs, oltre che per altri eventi, mi resi conto da ultimo d'esser sulla terra, in circostanze naturali, benché molto dolorose, rinchiuso in un manicomio. In seguito, con la quasi totale sparizione dei deliri, ottenni libertà di movimento durante il giorno.

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Pagina 337

Capitolo XXXVII


Nel modo che or ora ho descritto, e coi passi che ho ricordato, pian piano ho riacquisito la salute mentale; penso che pochissimi, tra coloro che hanno letto questo lavoro e hanno considerato le mie argomentazioni, potranno credere che al tempo mi fosse concesso d'affermare la mia guarigione; e inoltre, com'ero solito dichiarare, per stravagante che possa sembrare, ch'io fossi il miglior giudice della mia salute. Per salute mentale non intendo una capacità di giudizio infallibile o una forza morale invincibile: so fin troppo bene, come sostengono le persone sagge, che la follia è nel cuore d'ogni uomo. Uso questi termini nel senso in cui sono comunemente utilizzati, per indicare un uomo contro il quale non vi sia un reale motivo per accusarlo d'essere incapace di gestire la propria vita: inadatto alla libertà per incapacità mentale. Un uomo che sa chi è e che cos'è, conosce la sua posizione nel mondo e ciò che sono le persone e le cose intorno a lui; un uomo che valuta in base a regole note e comprensibili e che, se ha idee e abitudini particolari, è in grado di motivare le proprie opinioni e la propria condotta; un uomo che, per quanto sbagliate possano essere le sue azioni, non è sviato da impulsi incontrollabili e passionali; che non sperpera invano i propri mezzi di sostentamento; che conosce le conseguenze legali delle proprie azioni; che sa distinguere un comportamento conveniente da uno sconveniente, che percepisce quali siano le cose giuste da dire e quelle inadatte a essere esternate, in base alle circostanze in cui si trova; che rende omaggio alla religione e ai suoi ministri: un uomo che, se non sempre riesce a governare i propri pensieri, comunque non tende di continuo all'eccesso, e se sbaglia, sbaglia più per benevolenza ed esitazione che per eccitazione ed esaltazione. Infine, molto spesso, un uomo che può essere rimproverato e sa riconoscere le occasioni in cui il rimprovero era necessario. Per dimostrare ch'ero trattato ingiustamente dai dottori e sottoposto a quel detestabile controllo, indegno dell'Inghilterra, rimasi recluso fino alla fine del 1838; per dimostrare che fui tradito grossolanamente e vergognosamente dai magistrati ai quali fui costretto a chiedere protezione, mi basti dichiarare che, per quanto grave la mia malattia, non ero un individuo pericoloso se lasciato in libertà o, come recita con scarsa delicatezza l'atto del Parlamento, «che non ero persona atta a essere internata». Ma io non esito a sostenere ch'ero, in buona fede, sano di mente e molto più adatto a vivere libero di certe persone, il cui diritto alla libertà e a un'incontrollata autonomia non è messo in discussione. Alcuni sostengono che, dopo quanto avevo passato, avrei dovuto essere debole nel fisico e nella mente. Questo è certo; e se non fossi stato consapevole e non avessi percepito tale debolezza, se non avessi desiderato seguire un progetto inteso a tranquillizzarmi e a rafforzarmi, a stimolarmi e rallegrarmi, se non avessi preso la decisione di aderire a tale progetto, avrei corso il rischio di ricadere nella malattia, forse nella follia; ma la mia follia a quel tempo era svanita; l'obiezione legale alla mia libertà era stata abolita, ed era vergognoso tenermi recluso sulla base di un'ipotesi medica; doppiamente vergognoso per i rappresentanti della professione medica. A quel tempo, inoltre, ero solito affermare che non sarei mai potuto, e ancora mi domando se sarebbe possibile per come sono stato ingannato, che non sarei potuto ricadere nella follia.

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Pagina 357

Versioni di Perceval

Nota finale di Paolo Bertrando


Se abbiamo potuto leggere la storia di John Perceval, il merito va indubbiamente attribuito a Gregory Bateson. È logico, allora, che per noi Perceval sia il Perceval di Bateson, filtrato da quell'interpretazione. Ma neppure Bateson, per quanto geniale, poteva arrivare a esaurire i possibili sensi attribuibili alle parole del suo protetto. Così, se rileggiamo con altri occhi il racconto di Perceval - pur accettandone il formato, da Bateson ridotto e adattato al palato moderno - possiamo trovarvi risvolti imprevisti. La storia può allora acquistare una nuova, inattesa profondità. In queste pagine vorrei soprattutto soffermarmi su tre questioni: i momenti della vita di Perceval sconosciuti o trascurati da Bateson; il rapporto, complicato quanto illuminante, fra Perceval e la psichiatria dei suoi tempi; il senso della strana relazione a distanza fra un gentiluomo vittoriano e un epistemologo provvisoriamente prestato alla psicopatologia.


Ancora su Perceval

Ritorniamo alla storia di Perceval, prima di tutto. Possiamo rintracciarne altri elementi, pur senza fingerci storici né simulare eccessive competenze: sono disponibili, in fonti di facile accesso, interessanti dettagli della vicenda paterna e degli anni ultimi, su cui Bateson (non incline alla filologia o alla ricerca d'archivio) era poco informato e ancor meno curioso. Bateson correttamente ci narra della morte tragica di Spencer Perceval, e dell'ironico destino che portò il figlio d'un primo ministro assassinato da un (presumibile) psicotico a diventare psicotico a sua volta. Ma c'è un'altra ironia, di cui Bateson non dice, forse perché, per un inglese, persino banale: Spencer Perceval era stato primo ministro non d'un re qualunque, ma di Giorgio III, mad King George, il re preda di ripetute crisi di follia. Perceval padre fu proprio il primo ministro durante l'ultima crisi, quella del 1810, dalla quale il re non si riprese più, e che diede inizio ai dieci anni della Reggenza. Tra i mad doctors interpellati dal primo ministro in quell'occasione c'era anche Edward Long Fox, proprietario e direttore della casa di cura Brisslington House. Fox rifiutò l'incarico, e Perceval richiamò in servizio John Willis, figlio del medico che aveva curato il re nel corso del primo attacco (pare che Spencer Perceval, di suo, fosse contrario ai trattamenti coercitivi dei Willis e dei Fox, ma non fosse, in quel momento, in grado d'impedirli).

Così, l'intreccio ironico è più complesso. John Perceval è il figlio pazzo del primo ministro, ucciso da un pazzo, d'un re (considerato) pazzo; [...]

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Pagina 377

Infine, e questo è forse il punto principale, Bateson trova in Perceval il caso esemplare che lo aiuta a liberarsi della psichiatria, uscendo da dieci anni di rapporto contorto e faticoso. S'era accostato agli psichiatri da antropologo, studiando la loro tribù per un libro con Jurgen Ruesch, ma era rimasto progressivamente intrappolato nel discorso psichiatrico, tanto da esser diventato suo malgrado, intorno al 1960, un maestro di psicoterapia, uno dei fondatori delle terapie familiari. Ma Bateson, fin da tempi non sospetti, aveva diffidato degli sforzi, d'ogni genere, di cambiare le persone con mezzi persuasivi: tra cui proprio quelle terapie create dai suoi sodali Jackson e Haley, così simili per tanti versi al moral treatment sperimentato da Perceval, e cariche delle stesse buone intenzioni.

Bateson è attentissimo a come Perceval sia arrivato a uscire dalla sua psicosi. Non in virtù del trattamento disciplinare o sanitario, com'egli stesso sostiene, ma piuttosto a dispetto di quel trattamento. E non può fare a meno di chiedersi se i casi di recupero, più o meno completo, di una psicosi, da sempre riferiti e tuttora riconosciuti possibili, non possano avvenire a dispetto delle cure prestate anche dai meglio intenzionati psichiatri o psicoterapeuti.

Nel giudicare la psicosi un processo che si cura da sé, e che può essere solo aggravato dalle cure istituzionali, la critica batesoniana s'accosta non solo a una visione che si può definire antipsichiatrica, nell'accezione d'una critica radicale dell'istituzione manicomiale (comune a Laing e a Foucault, come a Basaglia e agli psichiatri critici italiani). Non si tratta, però, semplicemente di vedere la cura della psicosi come autocura, realizzabile in situazioni in cui pazienti psicotici acuti possano essere seguiti solo da uno staff non professionale e senza l'uso di farmaci. La visione batesoniana va oltre: la psicosi non solo non è da curare, ma potrebbe essere persino «benvenuta». È qui che Bateson abbandona definitivamente la psichiatria, la quale dopotutto resta fondamentalmente una tecnologia di cura che da per scontata una condizione di malattia, qualunque ne sia la causa. Il suo psicotico, sulle orme di Perceval, diventa una metafora dell'essere umano, con la possibilità di sprofondare definitivamente nella follia, ma anche di diventare creativo o artista. È una posizione radicale, e attirerà a Bateson infinite critiche, sul mancato riconoscimento dell'umana sofferenza, sull'incapacità di comprendere una patologia di probabile etiologia biologica eccetera. Ma quel che traspare dall'insieme dei tanti, complessi, spesso tortuosi scritti da lui dedicati al doppio legame e alla follia, non è insensibilità verso la condizione schizofrenica, quanto profondo scetticismo verso la condizione umana «normale», quel razionalismo finalistico in cui Bateson trova la radice di un'esiziale crisi ecologica (e umana). Il lavoro su Perceval, la riflessione sulla sua vicenda, marcano il distacco di Bateson da ogni visione ingegneristica o tecnologica della comunicazione e dell'interazione umana, e lo conducono verso la più ampia visione dell'ecologia della mente. In questo senso, anche l'incontro fra Bateson e Perceval, per quanto tardivo, può davvero dirsi «benvenuto».

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