Autore Filippo Maria Battaglia
Titolo Lei non sa chi ero io!
SottotitoloLa nascita della Casta in Italia
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2014, Temi 249 , pag. 74, cop.fle., dim. 11,4x19,5x0,8 cm , Isbn 978-88-339-2584-4
LettoreGiangiacomo Pisa, 2014
Classe paesi: Italia: 1940 , politica












 

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Indice


       Lei non sa chi ero io!


 9  1. Parole, speranze e primi soldi: la Repubblica agli esordi

19  2. I primi scandali e la legge truffa: «forchettoni» alla ribalta

31  3. Sesso, coca e auto blu: il caso Montesi

39  4. Truffe, amanti e appalti: lotta nella Dc a colpi di dossier

49  5. Tangenti, azioni e cemento: è l'ora della «borghesia di Stato»

59  6. Stipendi d'oro in Aula e amanti al Colle: arriva «la casta»

70  7. Onorevoli reati: i conti di Camera e Senato con la magistratura


74     Ringraziamenti


 

 

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1. Parole, speranze e primi soldi: la Repubblica agli esordi


«Professionisti della politica». Il calendario segna la data del 27 dicembre 1944. La guerra non è ancora conclusa, l'Italia è spaccata a metà, ma c'è già chi parla di «arrivismo spudorato». È un intrepido giornalista nel primo numero dell'«Uomo qualunque», un nuovo settimanale destinato di lì a breve a diventare un partito vitalissimo per un manciata di anni. Nel primo editoriale, il suo direttore Guglielmo Giannini annuncia battaglia contro «tutti i politicanti».

Il suo ritratto scivola tra il grottesco e il pittoresco: una decina di migliaia di «uomini politici professionali» tiene a soqquadro l'Italia, «litigando intorno a cinquecento posti di deputato, quasi altrettanti di senatore, circa mille altri cadreghini e canonicati diversi, che vanno dal primo ministro a quello di sindaco di centro importante, dall'incarico di ambasciatore alla sinecura di commissario più o meno straordinario».

Tutto il contrario di ciò che vorrebbe «l'Italia che lavora»: niente Nenni, De Gasperi e Togliatti; a noi - sostiene Giannini - basterebbe solo un buon ragioniere: «Ci occorrono degli amministratori, non dei politici».

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Decoro raggiunto? Sembrerebbe di sì. Almeno per ora. Trascorsi un po' di mesi, qualche magagna si inizia a intravedere. Una di queste potrebbe avere il sapore di uno scandalo, ma viene prontamente disinnescata dai diretti interessati. È il giorno di San Valentino del 1947: durante il dibattito per la fiducia al nuovo governo De Gasperi, il leader del movimento indipendentista siciliano Andrea Finocchiaro Aprile in un intervento fiume si scontra contro il «potere democristiano». Se la prende con i deputati che «vanno in cerca affannosa di tutti i posti più largamente retribuiti» e fa una lunga sfilza di nomi. Non basta. Si scaglia pure contro due ministri: Pietro Campilli, al Commercio estero, e Ezio Vanoni, al Bilancio e alle Finanze.

Per il primo l'accusa è di essere coinvolto in speculazioni in Borsa (insider trading, diremmo oggi); al secondo il deputato separatista contesta invece di aver intascato retribuzioni ingenti durante la sua attività di commissario del Cln alla Banca dell'Agricoltura.

Finocchiaro Aprile non gode di altissima credibilità: rappresenta un movimento ormai in declino, animato tra l'altro da una componente mafiosa. Ma la notizia è ripresa da quasi tutti i quotidiani. «Che sia restaurato in pieno il vecchio, austero costume politico dei Lanza e dei Sella!», scrive sulla «Stampa» il suo direttore Filippo Burzio: le accuse, o le semplici insinuazioni, devono essere «ampiamente documentate, sotto pena delle più gravi sanzioni, senza tener conto dell'immunità parlamentare».

La commissione parlamentare d'indagine creata ad hoc certifica che gli addebiti sono in gran parte attendibili. A pochi mesi dal ritratto dei «deputati poveri» descritti da Zincone, si scopre così che 67 sui 207 parlamentari eletti nella Dc hanno fatto in tempo a trovare incarichi (retribuiti) presso banche ed enti economici statali o parastatali. E si tratta di una fame che si trasforma spesso in ingordigia: ci sono deputati che hanno fino a quattordici uffici in vari consigli di amministrazione pubblici o privati, scriverà qualche mese dopo il fondatore del Partito popolare italiano, don Luigi Sturzo. «Non si tratta solo del cumulo delle cariche, con o senza stipendi, compensi straordinari, gratificazioni, ecc: si tratta di ben altro. Il sistema è stato da me definito quello dei "controllori controllati". Non si può essere controllori e tutori del denaro pubblico e insieme, spesso, sperperatori dello stesso».

E i ministri coinvolti nell' affaire? Campilli si difende presentando una dichiarazione del direttore generale del Tesoro: è possibile che la speculazione ci sia stata, ma il diretto interessato non ne sapeva nulla.

Vanoni documenta le retribuzioni e la liquidazione e, quando la commissione gli fa notare che è troppo alta, aggiunge che, di quei soldi, lui ne ha trattenuti solo un terzo. Tutto il resto è finito nelle casse della Dc.

Essere all'oscuro della vicenda e intascare denaro ma girarlo in gran parte al partito: le giustificazioni dei due faranno scuola negli anni a venire.

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Le cose non vanno meglio in economia. I nodi più intricati sono due: il piano di rilancio dell'industria nostrana e alcune inopinate scelte fiscali, che danno luogo a inattese connivenze.

Sul primo fronte, si registrano il consolidamento dei monopoli, a tutto svantaggio dei cittadini, e i cortocircuiti tra imprese pubbliche e imprese private. L'Iri, l'Istituto per la ricostruzione industriale creato da Mussolini e sopravvissuto al Ventennio, è ad esempio un cascame da ristrutturare: mancano una «organica visione pubblicistica» e i soldi per le «paghe operaie». Qui e là si inizia poi a intravedere la sotterranea ma persistente pressione di alcuni gruppi di potere: «Sarebbe interessante - scrive Vittorio Foa - rivelare quali sono gli effettivi rapporti fra l'Iri e le banche di interesse nazionale, il cui capitale è quasi totalmente in mano all'Iri e che dovrebbero quindi essere da esso controllate e che invece agiscono in piena indipendenza e spesso in contrasto» con l'istituto.

Dopo il caso Campilli-Vanoni, il neonato Parlamento repubblicano regala poi altre inaspettate complicità tra maggioranza e opposizione, nonostante che lo scontro campale del '48 tra il blocco moderato (Dc e partiti laici minori) e il Fronte popolare (socialisti e comunisti) sia ormai alle porte. Accade sul fisco. Dc e sinistre si mettono tacitamente d'accordo per garantire che patrimoni ecclesiastici, casse rurali e cooperative abbiano ingenti esenzioni fiscali. I primi due sono sotto l'ala protettiva dello scudocrociato; le terze, all'ombra dei socialisti e dei comunisti. L'attacco della stampa, stavolta, è però diretto all'opposizione, colpevole di essere corsa dietro ai potentati democristiani (leggi il Vaticano), rinunciando a una battaglia rilevante per un piatto di lenticchie.

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5. Tangenti, azioni e cemento: è l'ora della «borghesia di Stato»


«Un monarca senza corona», «il vero padrone dell'Italia», «un civil servant, ma certo non come lo intendiamo noi nel nostro Paese».

Nel 1962, pochi mesi prima della sua morte, la «BBC» descrive così «il più importante manager italiano», Enrico Mattei. Ex partigiano ed ex deputato dc, ha 56 anni ed è il prototipo del self made man. Dopo aver rivitalizzato nel Dopoguerra il carrozzone fascista dell'Agip, dal 1953 è a capo dell'Eni, che trasforma in un protagonista dell'economia internazionale, sfidando in piena guerra fredda le grandi compagnie petrolifere americane e la politica estera filoccidentale. Per questo, sull'incidente aereo che ne causerà la morte il 27 ottobre 1962 resterà il concreto sospetto di un sabotaggio, mai del tutto provato in sede giudiziaria.

Nei dieci anni a capo dell'Ente Nazionale Idrocarburi, Mattei non si cura di nulla pur di raggiungere i suoi scopi. Crea il più innovativo quotidiano italiano, «Il Giorno», compra e dispensa favori, finanzia uomini politici e correnti: «Io, i partiti - dirà più volte - li prendo come taxi, me ne servo e a fine corsa scendo e pago».

Un moralista spregiudicato, lo definirà Indro Montanelli, «un incorruttibile corruttore, un integerrimo distributore di tangenti, un manager che non voleva essere al servizio del Palazzo, ma porre il Palazzo al suo servizio». Per farlo, Mattei ricorre a un uso massiccio di fondi neri. Ogni anno - denuncia «Il Borghese» nel 1958 - l'Eni trucca i bilanci per non versare allo Stato almeno dieci miliardi di lire di utili derivanti dal metano. Utili girati a partiti, giornalisti e analisti per assecondare i progetti e i desiderata dell'Ente e del suo dominus. L'inchiesta del settimanale si chiude con la richiesta formale ai Carabinieri di controllare la contabilità del colosso energetico e non passa inosservata, almeno tra i dirigenti del cane a sei zampe. Dal bilancio dell'Eni viene presto depennata ogni voce relativa ai conti economici del metano, con una finzione che farà scuola e permetterà di eludere le lasche ispezioni delle autorità.

Ma il «sistema-Mattei» è solo il più vistoso esempio di una corruzione metodica che, in pieno boom economico, interessa il Belpaese su larga scala. Non ne sono escluse le amministrazioni comunali. In gioco c'è il sacco urbanistico che di qui in avanti interesserà la maggior parte delle grandi città. È il caso di Roma, guidata fino al 1956 dal dc Salvatore Rebecchini. Qui, scrive Manlio Cancogni in una serie di inchieste finite in tribunale e note col nome di Capitale corrotta uguale nazione infetta, «proprietari di aree edili sono gli incontrastati padroni della città e ne regolano la sorte e l'avvenire a loro arbitrio».

«L'Espresso» racconta di uffici comunali deserti, dove i cittadini entrano «per vedere a che punto stanno le loro pratiche. Siedono ai tavoli, frugano negli incartamenti, prendono, tolgono, fanno come se fossero in casa loro». E soprattutto denuncia funzionari assenteisti, pigri e corrotti, che con uno stipendio che «tocca al massimo le 150mila lire al mese», diventano proprietari di «un palazzo di cinque piani e 31 vani in Prati» o «di 45 vani in due edifici presso San Giovanni». Roma, intanto, sprofonda nell'insolvenza: «Durante l'amministrazione Rebecchini, il Comune ha fatto centoventi miliardi di debiti che costano dieci miliardi di interessi l'anno, per pagare i quali non è sufficiente l'intero gettito annuale». A fare la parte del leone è l'Immobiliare, società nelle mani di Vaticano, Fiat e Italcementi, presto affiancata dall'ascesa delle nuove dinastie del mattone, su tutti i Marchini e i Caltagirone.

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7. Onorevoli reati: i conti di Camera e Senato con la magistratura


«Casta», «cricca», «professionisti». Il vocabolario dell'antipolitica italiana, nel primo quindicennio repubblicano, pare già incredibilmente aggiornato. Così come il catalogo degli scandali, almeno a leggere le cronache dei quotidiani e dei periodici dell'epoca: corruzione e concussione, ricatti e dossier incrociati, sprechi e tangenti affiorano a decine nelle prime tre legislature. Molti anni, anzi molti decenni prima dell'arrivo di Tangentopoli.

Episodi significativi, ma fino a quanto rilevanti? Proviamo a dare un'occhiata ai numeri. I più interessanti riguardano l'autorizzazione a procedere. Quella prevista nella vecchia formulazione dell'articolo 68 della Costituzione (poi riformata nel 1993), che obbligava la magistratura a passare dall'Aula per sottoporre un parlamentare a un procedimento penale.

[...]


Lei non sa chi ero io! si chiude con la fine della terza legislatura. L'ingresso dei socialisti nel governo arriva nella quarta e, all'inizio, pare tamponare l'emorragia giudiziaria. Alla Camera le richieste di autorizzazione a procedere scendono a 241, al Senato a 76. In entrambi i casi sono più basse della media della Prima Repubblica (318 a Montecitorio; 109 a Palazzo Madama).

Tra i senatori, però, si registra un dato sintomatico: tra l'inizio della quarta e la fine della quinta legislatura (1963-1972) la percentuale dei reati imputati al Psi, fresco di ingresso nel governo, raddoppia, passando da 8,1% a 17,1%.

I socialisti entrano nella «stanza dei bottoni» e - dati alla mano - sembrano dunque adeguarsi alle abitudini degli altri coinquilini, contribuendo a far tornare i numeri degli scandali giudiziari ai livelli precedenti. Non è un caso allora che la flessione delle ipotesi di reato duri meno di dieci anni, sfiorando di nuovo i 300 episodi nella sesta legislatura alla Camera e riprendendo quota negli stessi anni anche al Senato, dove si supera l'asticella dei 190.

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