Autore Filippo Maria Battaglia
Titolo Stai zitta e va' in cucina
SottotitoloBreve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2015, Temi 259 , pag. 116, cop.fle., dim. 11,4x19,5x1,1 cm , Isbn 978-88-339-2715-2
LettoreGiangiacomo Pisa, 2016
Classe femminismo , paesi: Italia: 1940 , politica , storia sociale












 

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Indice


    Stai zitta e va' in cucina

  9 Una storia italiana

 11 1.   Dalla Resistenza al voto: la nascita di una Repubblica poco femminile

    O sarta o «puttana»: la percezione della partigiana, 11
    Torna il reduce, «sii arrendevole e remissiva», 14
    La «concessione» del voto, 16
    Doveri e sacrifici: l'invito trasversale alla «difesa del costume», 18
    Grassa, casta e con molti figli: identikit della «candidata ideale», 20

 24 2.   Bella, brutta, vanitosa: l'apparenza è sempre una condanna

    Solo abiti e coiffeur: quanto sono «frivole» queste deputate, 24
    Tacchi, pantaloni e prendisole: la donna resti sobria, 26
    Una vera comunista? Casta e castigata, 28
    «Racchia» e «in menopausa»: la bruttezza come categoria politica, 30
    Sei bella? O sei una pin-up o una velina, 34

 37 3.   A casa, a fare figli: le «attitudini» della donna

    Uguali, ma solo sulla Carta, 37
    Una donna con la toga? «Non si può, è una questione di attitudini», 39
    Se la donna non è «idonea», 42
    «La moglie fa la moglie e basta», 43
    «Meglio a fare le tagliatelle»: il patriarcato dei compagni, 46
    Madre, quindi donna. Non solo sui manifesti, 49

 53 4.   Brava e mite ma pur sempre donna: meglio che decidiamo noi

    Pura e dolce, è per questo che va esclusa, 53
    Copritele gli occhi, tappatele le orecchie: è roba che non fa per lei, 56
    Inconsapevole o indifferente: dobbiamo scegliere noi, 60

 62 5.   Botte, insulti e citazioni: quando la misoginia è radicale

    Femmine, dunque infide, 62
    Viziose e schiaviste, per abortire basterà un mal di testa, 63
    Vacca, sciampista, gallina: gli insulti si sprecano, 67
    Da oggetto a ornamento del potere: la donna stia muta, 70
    Difenderle mai, picchiarle ogni tanto, 72
    Violenza sessuale e delitto d'onore: è l'ora dei «franchi stupratori», 73
    Lo dice la scienza, lo conferma la letteratura: se la misoginia è «d'autore», 75

 80 6.   Donna uguale sesso: più che un'equazione, un'ossessione

    Galli al Senato, miss a Botteghe Oscure, 80
    Nilde? Solo «un'amante», 82
    La castità? «Una tragedia organica». Ma solo per l'uomo, 83
    «Bonasse» e «culone»: arriva la Seconda Repubblica, 85
    È l'ora della «mignottocrazia», 87
    Le deputate? «Più che da Camera, da camera da letto», 89

 94 7.   Gli incarichi alle donne? Un'eccezione o una provocazione

    La vertigine del Colle, 94
    Botteghe (molto) Oscure, 97
    Le donne in politica? Una categoria, 101
    Poche, e troppo spesso con «le palle», 102

106 8.   A bassa quota: se i numeri rosa sono tutti chiaroscuri

111 Ringraziamenti
113 Indice dei nomi


 

 

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Pagina 9

Una storia italiana


                           Gratta un comunista e troverai un filisteo.
                           Evidentemente si deve grattare il punto sensibile:
                           la sua concezione della donna.
                                                                           Lenin

                           Nelle concessioni fatte alla donna è facile scorgere,
                           più che il rispetto della sua dignità e della
                           sua missione, la mira di promuovere la potenza
                           economica e militare dello Stato totalitario.
                                                                         Pio XII


Questa è la storia degli insulti, delle discriminazioni e dei pregiudizi politici nei confronti delle donne dal dopoguerra a oggi. È un racconto trasversale, scandaloso, spesso involontariamente umoristico, scritto interamente dai maschi. Ci sono quasi tutti: presidenti della Repubblica e padri costituenti, premier e segretari di partito, il Pci e Silvio Berlusconi, la Dc e Beppe Grillo, i piccoli movimenti e le grandi coalizioni.

Si parte poco prima della nascita della Repubblica, si arriva fino ai giorni nostri, tra elezioni cruciali, crisi di governo e scandali giudiziari. Rievocare ogni dettaglio sarebbe stato impossibile. Ho preferito analizzarne i vizi e i tic più ricorrenti, con un occhio alle cronache e un altro agli atti parlamentari, provando a tracciare un ritratto rappresentativo.

È una storia fatta di insulti beceri e citazioni sofisticate, sfuriate emotive e ricorsi alla «scienza», concessioni benevolmente paternalistiche e appelli ideologici e religiosi. «La moglie fa la moglie e basta», deve essere «remissiva», ha molti doveri, pochi diritti e «specifiche attitudini». Se emancipata è di «facili costumi», se bella «è per questo che fa carriera», se brillante è «perché abilmente manovrata», se pura «va sottomessa e tutelata».

Dai referendum su divorzio e aborto al dibattito sulle quote rosa, dalle norme sull'accesso alla magistratura a quelle contro la violenza sessuale, dalle elezioni al Quirinale alle nomine di ministri e sottosegretari, in settant'anni le frasi cambiano spesso tenore. Nella sostanza, però, il messaggio resta pressoché immutato. Relegando ancora oggi l'Italia agli ultimi posti della classifica europea sulla rappresentanza di genere. E confinandola, come vedremo, tra i Paesi più maschilisti del nostro continente, nonostante qualche timido e recente segnale di ottimismo.

Milano, settembre 2015

F.M.B.

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Pagina 43

«La moglie fa la moglie e basta»


Lo stereotipo dell'«angelo del focolare» non si limita solo alla discussione degli articoli della Costituzione e alla legge sull'accesso delle donne ai «pubblici uffici». Risuona costantemente in Aula, non solo tra le fila dei democristiani, e viene confermato dalle reazioni maschili agli interventi delle elette. Il termometro, in particolare, oscilla tra contestazione e ostruzione. La socialista Bianca Bianchi, alla Costituente, deve sudare sette camicie per avere la possibilità di fare un intervento non concordato col partito sulle dichiarazioni del governo. Della comunista Luciana Viviani il giornalista Paolo Monelli scrive che «parla come una casigliana sul pianerottolo in una commedia di De Filippo, come una moglie che rimbrotta il marito». E quando, qualche anno dopo, una deputata (Marisa Rodano, del Pci) prende la parola per la prima volta in un dibattito di politica estera, decine di suoi colleghi lasciano l'aula, «riaffacciandosi di tanto in tanto per scambiarsi sottovoce frasi non troppo nuove sulle pentole che l'oratrice avrebbe trascurato di far bollire e sulle calzette che, certo, non aveva potuto rammendare, essendo occupata alla Camera».

«La moglie fa la moglie e basta!», tuona nel '52 il senatore repubblicano Giovanni Conti. La pensa allo stesso modo il socialista Alcide Malagugini, quando dieci anni dopo, nella discussione della legge che istituisce la scuola media statale, si batte in favore dell'inserimento dell'«economia domestica». Una ragazza si occupi (e bene) della casa, spiega, senza fare troppe rivendicazioni, la famiglia si tiene unita così, anche perché - e qui è il dc Pierantonino Bertè a parlare - la sua «destinazione» è «quella di organizzatrice della vita familiare». Una posizione sposata in pieno dai dirigenti di primo piano del partito: una manciata di mesi dopo, Aldo Moro, parlando al Movimento femminile dc, dice che «la donna ha un compito primario e irrinunciabile, quello di garantire il buon funzionamento della comunità familiare».

La politica trova sponde fertili nella giurisprudenza. Nel luglio 1965 la Corte di Cassazione stabilisce infatti che non commette «abuso dell'esercizio di potestà maritale» l'uomo che esige «il sacrificio dell'attività professionale» della moglie, se questa venga «esercitata in contrasto con i doveri imposti della società coniugale». È una convinzione che torna con puntualità e convinzione persino più accentuate nel dibattito sul divorzio sul finire degli anni sessanta. A scatenare separazioni e a mettere in crisi la famiglia, sostiene il democristiano Ubaldo De Ponti, è «la continua pressione psicologica e di fatto per incentivare il lavoro femminile» che distoglie la «madre di famiglia» dal «permanere a casa». Per alcuni deputati, in particolare, il nemico è il «falso mito culturale dell'emancipazione della donna», quando invece occorrerebbe garantire «qualcosa per darle la libertà di starsene a casa». Ma c'è di più. Negli stessi mesi il dc Franco Foschi si dice convinto che il desiderio della donna di lavorare sia una forma di «nevrosi» e che la «promozione sociale e professionale femminile è ricca di germi di instabilità familiare».

Che la moglie stia, e che debba continuare a stare, un gradino sotto al marito è del resto convinzione diffusa in Aula. Cronache e atti parlamentari raccontano come durante il dibattito sulla riforma del diritto di famiglia del '75, il senatore missino Franco Mariani, citando il giurista antifascista Piero Calamandrei, ricordi come «sotto l'aspetto giuridico il nostro diritto vigente» «non è basato sull'eguaglianza giuridica dei coniugi». «Il capo della famiglia è il marito», la donna invece governa la casa, cambiare questo status quo vorrebbe dire travalicare «limiti morali e giuridici».

Il refrain resta di moda nei decenni successivi e bussa fino alle porte della Seconda Repubblica. Alla precaria che chiede un consiglio per assicurarsi un futuro migliore, Silvio Berlusconi suggerisce la soluzione del matrimonio: «Da padre - dice sorridendo - le consiglio di cercare di sposare il figlio di Berlusconi o qualcun altro del genere; e credo che, con il suo sorriso, se lo possa certamente permettere». Qualche anno dopo, ospite in un'altra trasmissione tv, commenta così le critiche della compagna per le spese eccessive di gestione della sua residenza: «Non so quanto paghiamo a casa i fagiolini. Telefoni alla signora Pascale, sono cose da donna».

Sulla stessa linea Renato Brunetta e Francesco Storace. Nel 2009, il primo, da ministro della Pubblica amministrazione, accusa «soprattutto le donne» di utilizzare «il lavoro pubblico come un ammortizzatore sociale», uscendo «a fare la spesa durante l'orario di lavoro». Per poi chiedersi: «Se vincono tanti concorsi, come mai sono così poche ai vertici della carriera?». Più tranchant il secondo. Agli inizi di maggio 2015 se la prende con il ministro Boschi, colpevole di restare troppo tempo a Montecitorio, dove riceve le congratulazioni dei colleghi dopo l'approvazione della nuova legge elettorale: «Ma questa una famiglia non ce l'ha - si domanda su Twitter - che sta sempre a sbaciucchiarsi in Parlamento?».

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