Autore Mary Beard
Titolo Ridere nell'antica Roma
EdizioneCarocci, Roma, 2016, Sfere 117 , pag. 348, ill., cop.fle., dim. 15x22x2,1 cm , Isbn 978-88-430-7867-7
OriginaleLaughter in Ancient Rome: On Joking, Tickling, and Cracking Up [2014]
TraduttoreAnna Maria Paci
LettoreElisabetta Cavalli, 2017
Classe umorismo , storia antica , storia sociale , citta': Roma , storia letteraria , classici latini , psicologia












 

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Indice


    Prefazione                                             9

1.  Un'introduzione al riso dei Romani.
    La "ridarella" di Dione e la doppia risata di Gnatone 11


    Parte prima

2.  Questioni sul riso, antiche e moderne                 33

3.  La storia del riso                                    61

4.  Ridere a Roma, in latino e in greco                   83


    Parte seconda

5.  L'oratore                                            113

6.  Da imperatore a buffone                              143

7.  Tra umano e animale (specialmente scimmie e asini)   173

8.  L'amante del riso                                    203


    Postfazione                                          231

    Ringraziamenti                                       235

    Testi e abbreviazioni                                237

    Note                                                 239

    Bibliografia                                         297

    Indice analitico                                     325


 

 

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Pagina 11

1. Un'introduzione al riso dei Romani

La "ridarella" di Dione e la doppia risata di Gnatone




Colosseo, 192 d.C.


Nel 192 d.C., un giovane senatore seduto in prima fila durante uno spettacolo che si teneva nel Colosseo riuscì a stento a trattenere il riso. Non era proprio il momento di farsi vedere in preda all'ilarità. L'imperatore Commodo in persona stava presentando lo spettacolo a una folla di circa 50.000 spettatori – i senatori, com'era consuetudine, seduti nei primi posti, quelli con la vista migliore, le donne e gli schiavi pigiati in fondo e in alto, da dove potevano a malapena scorgere i sanguinosi conflitti che andavano in scena trenta metri più in basso. Può anche darsi che, per questo spettacolo, qualche spettatore avesse deciso di starsene alla larga, perché correva voce che l'imperatore – presentatore nonché star dello spettacolo –, travestito da Ercole, avesse intenzione di scagliare frecce mortali sul pubblico. Chissà, forse era una delle rare volte in cui conveniva essere schiavi (o donne) e starsene in ultima fila.

Ricchi e poveri, pavidi e impavidi, gli spettatori dovevano essere dotati di grande resistenza. Gli spettacoli duravano tutto il giorno per quattordici giorni di fila. I sedili erano duri e chi aveva denaro e buon senso si portava certamente dietro cuscini, bevande e cibarie. Tutti sapevano che bisognava applaudire le buffonate dell'imperatore – travestito da gladiatore, cacciatore di bestie feroci o dio. Il primo giorno aveva ucciso un centinaio di orsi «scagliando lance dalla balaustra che correva intorno all'arena» («dando sfoggio più di abilità nel tiro che di coraggio» è la pungente osservazione di un testimone oculare: Erodiano 1.15). Nei giorni successivi gli erano stati condotti, opportunamente trattenuti da reti, altri animali destinati a soccombere e, dopo mangiato, Commodo proseguiva scimmiottando le gesta dei gladiatori (ovviamente uscendone sempre vincitore) per poi lasciare la scena ai veri lottatori, osannati dalla folla.

Fu durante uno di questi spettacoli, appena un paio di mesi prima dell'assassinio di Commodo, avvenuto il 31 dicembre 192, che il nostro senatore scoppiò quasi a ridere, ma riuscì a celare l'ilarità strappando alcune foglie di alloro dalla corona che aveva in testa e masticandole con forza. O perlomeno questo è quanto egli ci racconta (Dione 73[72,].21). Il senatore in questione era lo storico Cassio Dione, la cui famiglia, originaria della Bitinia, nell'odierna Turchia, era da generazioni attiva nella politica imperiale romana. Dione stesso divenne un importante personaggio pubblico agli inizi del III secolo d.C.: fu eletto console intorno al 105, durante il regno dell'imperatore Settimio Severo, e di nuovo nel 229, sotto Severo Alessandro; tra gli altri incarichi, fu governatore delle province di Africa, Dalmazia e Pannonia. Ma è noto soprattutto per essere l'autore di una storia di Roma in 80 volumi, scritta in greco, che copre il periodo che va dal mitico sbarco di Enea sino alla propria epoca, oltre un millennio dopo, nel III secolo d.C.; ed è proprio in uno degli ultimi libri della storia che ci imbattiamo in quella risata soffocata. Come spiega lo stesso Dione, gli ci vollero più di vent'anni, tra ricerca e scrittura, per portare a termine l'intero progetto, iniziato alla fine degli anni Novanta del II secolo. Quasi un terzo dell'opera sopravvive nella sua forma originaria: per quanto riguarda il resto (compresi gli eventi del 192) ci affidiamo a più o meno accurati compendi o stralci del testo di epoca medievale.

Ciò che aveva provocato la risata repressa di Dione era stato un memorabile momento di istrionismo imperiale. Dopo aver osservato l'imperatore minacciare con erculea virulenza il pubblico, Dione racconta l'assalto di Commodo ai senatori seduti – pericolosamente – in prima fila:

Fece qualcosa di simile anche nei confronti di noi senatori, cosa che ci dette motivo di credere che la morte fosse imminente. Egli cioè uccise uno struzzo, gli staccò la testa e venne verso di noi con la testa dello struzzo nella mano sinistra e una spada insanguinata nella destra. Non disse assolutamente niente, ma con un ampio ghigno scuoteva la testa, ed era chiaro che avrebbe fatto lo stesso con noi. E in effetti, molti sarebbero stati giustiziati con la spada lì per lì, per aver riso di lui (perché fu il riso più che l'angoscia che ci colse), se non avessi strappato alcune foglie d'alloro dalla mia ghirlanda e non le avessi masticate e non avessi persuaso gli altri seduti accanto a me a fare altrettanto — cosicché, muovendo in continuazione la bocca, potessimo nascondere il fatto che stavamo ridendo (Dione 73[72].21).


Questo rapido sguardo alla rischiosa prima linea della politica imperiale è una delle rare occasioni nelle quali, attraverso quasi duemila anni, il riso dei Romani sembra davvero rivivere. Riconosciamo la sensazione descritta da Dione, possiamo quasi sentire ciò che lui deve aver sentito. In effetti, il breve resoconto di come abbia disperatamente tentato di nascondere la propria risata non può lasciare indifferente chiunque si sia morsicato almeno una volta le labbra, o abbia addentato la gomma da masticare, o da cancellare, per evitare un imbarazzante o rischioso scoppio di ilarità in una situazione del tutto inappropriata, per nascondere, o almeno contenere, l'eloquente fremito del viso o della bocca. Al posto delle foglie di alloro mettiamo delle caramelle, ed è uno di quei momenti in cui i Romani non sono poi molto diversi da noi.

Si potrebbe dire che Dione fosse sull'orlo di un attacco di ridarella, quella lotta tra discrezione, obbedienza ed educazione da una parte, e risata che non ne vuole sapere di venir repressa dall'altra. Dione non usa la parola greca kichlizein, spesso tradotta con "risatina" e dalle notevoli implicazioni erotiche (in un caso viene addirittura definita esplicitamente "risata da prostituta"); come ha scritto in modo memorabile Angela Carter , la risatina «esprime l'innocente esultanza con cui le donne umiliano gli uomini nell'unico modo loro possibile». La parola che Dione stava cercando di tenere per sé era gelós o gelan, dai tempi di Omero sino all'antichità romana e oltre la parola del greco standard per "risata" o "ridere" (nonché radice di parte della terminologia tecnica moderna del riso – l'aggettivo gelastico e il nome agelasta, "colui che non ride" – che inevitabilmente faranno la loro comparsa nei prossimi capitoli).

C'è, ovviamente, qualcosa di curiosamente gratificante in un racconto nel quale gli eccessi del potere imperiale diventano oggetto di riso. Il resoconto di Dione sulle minacce di Commodo nell'anfiteatro, intimidatorie e al tempo stesso ridicole, indica che il riso poteva essere un'arma per coloro che si opponevano all'autocrazia e all'abuso di potere: gli scontenti reagivano con la violenza, la cospirazione, la ribellione, ma un'altra forma di reazione era il rifiuto di prendere sul serio il potere.

[...]

La risata soffocata di Dione nel Colosseo solleva tre importanti ordini di questioni, che saranno esplorati in questo libro. In primo luogo, che cosa faceva ridere i Romani? O meglio, per essere realistici, che cosa faceva ridere i romani, maschi e appartenenti all'élite urbana? Non abbiamo infatti quasi alcuna possibilità di entrare in contatto con il riso dei poveri, dei contadini, degli schiavi, delle donne, se non nelle descrizioni che ne danno i maschi dell'élite urbana. Nel mondo antico, come in quello moderno, un modo per sottolineare la differenza tra i diversi gruppi sociali era di asserire che essi ridevano in modo diverso e per cose diverse. In secondo luogo, in che modo agiva il riso nella cultura dell'élite romana, e con quali conseguenze? Qual era il suo compito politico, intellettuale, ideologico? In che modo veniva controllato e sorvegliato? E che cosa ci dice di come funzionava la società romana in senso più generale? In terzo luogo, fino a che punto possiamo comprendere o condividere la cultura romana del riso? C'erano degli aspetti di essa nei quali i Romani erano davvero "come noi"? O gli storici moderni del riso nell'antica Roma sono un po' come quegli ospiti ansiosi che si ritrovano a un party tra gente straniera: si uniscono al divertimento generale ridacchiando quando pare loro la cosa giusta da fare ma non sono mai sicuri di aver capito la battuta per cui si ride?

Si tratta di domande importanti che spero aprano nuove prospettive sulla vita sociale e culturale della Roma antica e contribuiscano alla storia multiculturale del riso umano – e intendo principalmente il riso, non humour, spirito, emozione, satira, epigramma o commedia, anche se tutti questi argomenti correlati faranno occasionalmente la loro comparsa nelle pagine che seguono. Un secondo sguardo alla scena del Colosseo descritta da Dione rivela quanto possano essere complicate, affascinanti e (talvolta inaspettatamente) rivelatrici queste domande. Per quanto semplice possa a prima vista sembrare, il racconto della risata repressa di Dione è qualcosa di più della testimonianza diretta di un giovane sufficientemente intraprendente, nella Roma del II secolo governata con il pugno di ferro, da soffocare il proprio riso e salvare la pelle masticando qualche foglia di alloro. Tanto per cominciare, nel racconto di Dione la strategia adottata è senza dubbio l'atto di masticare, e non – come forse ci sarebbe più familiare – quello di mordere. Naturalmente si ha la tentazione di raccontare la storia modellandola sullo stereotipo moderno del tizio che ha una voglia matta di ridere e schiaccia sotto i denti una cosa qualsiasi per reprimere la risata («Dione narrò di come si fosse trattenuto dal ridere [...] masticando disperatamente una foglia di alloro», così uno storico moderno ha riassunto l'episodio: Hopkins, 1983, p. 17, corsivo mio). Dione chiarisce di non aver impedito a sé stesso di ridere, ma piuttosto di aver sfruttato il movimento delle mandibole sulle foglie come un astuto travestimento – un alibi, addirittura – del movimento prodotto dalla risata.

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Pagina 18

Hahahae,161 a.C.


L'altra risata di cui parlerò era risuonata a circa un chilometro di distanza dal Colosseo, oltre quattro secoli prima, nel 161 a.C. Di genere completamente diverso, questa risata echeggiò sul palcoscenico di una commedia, non durante uno spettacolo recitato sotto lo sguardo minaccioso dell'imperatore, ma nel corso di una di quelle festività a base di divertimento, giochi e culto degli dei che facevano parte, in forme diverse, della cultura urbana di Roma fin dall'antichità. Non esisteva un teatro nel senso in cui lo intendiamo oggi, né un "palcoscenico". Nel II secolo a.C. a Roma non esistevano ancora edifici adibiti a teatri; gli spettacoli avvenivano all'aperto, sopra strutture provvisorie in legno che venivano talvolta innalzate attorno alla scalinata di un tempio (molto probabilmente per fornire comodi posti a sedere per il pubblico, che non poteva superare le poche migliaia di persone). Nel caso in questione, il teatro era stato probabilmente eretto sul Campidoglio, intorno al tempio della Grande Madre (Magna Mater).

Doveva regnare un'atmosfera gaia e spensierata, forse addirittura chiassosa. Le commedie erano caratterizzate da intricatissimi intrecci in cui lui ama lei, e da una serie di personaggi più o meno fissi (lo schiavo furbo, la tenutaria di bordello maligna, il soldato vanaglorioso ma alquanto stupido e così via), ciascuno riconoscibile grazie alla sua distintiva maschera teatrale. Come da tempo sostengono gli specialisti, gran parte della commedia latina arrivata sino a noi ha forti legami con la commedia greca antica. Vi tornerò nel capitolo 4, per il momento mi occuperò del contesto romano. Ma non della risata del pubblico, bensì di un paio di risate risuonate sul palcoscenico e scritte nero su bianco nel copione. Esse ci introducono a una narrazione del riso ancora più sottile di quanto non fosse il racconto di Dione e della sua ridarella nel Colosseo, e dimostrano con quanta consapevolezza uno scrittore romano sapesse sfruttare la complessa questione dei possibili significati di una risata.

Questi due esempi di risate scritte nel copione provengono da L'eunuco di Publio Terenzio Afro (noto oggi perlopiù come Terenzio), che fu messo in scena per la prima volta nel 161 a.C. Da sempre questa è stata la commedia più popolare di Terenzio: in seguito al grande successo venne subito replicata e a quel che si dice fece guadagnare al suo autore la somma senza precedenti di 8.000 sesterzi, provenienti dagli sponsor ufficiali. Nel memorabile intreccio ci sono i più classici elementi dell'intrigo amoroso, ma la sua straordinaria potenza risiede nell'iperbolico sfondo di inganni e travestimenti, sul quale un giovane e vigoroso innamorato (Cherea) finge di essere un eunuco per stare accanto alla giovane (schiava) del suo cuore (Panfila), la cui padrona è una cortigiana di nome Taide. Il lieto fine segna l'abisso pressoché incolmabile tra la politica sessuale romana e la nostra: esso arriva infatti dopo che Cherea ha sfruttato il proprio travestimento da eunuco per stuprare Panfila, una sorta di preludio alle campane a nozze del finale. In una versione delle antiche note della messa in scena si afferma che la commedia aveva debuttato nel corso della festività romana delle Megalesie in onore della Magna Mater (di qui l'idea che la rappresentazione possa aver avuto luogo intorno alla gradinata del tempio). Se ciò è vero, il contesto stesso deve aver dato un tocco di bizzarro umorismo all'intreccio, poiché i cosiddetti "galli", sacerdoti della Grande Madre che vivevano nei pressi del tempio, erano anch'essi eunuchi, e a quanto si dice si erano inflitti l'autocastrazione con una pietra acuminata – gli scrittori latini amavano indugiare su questo particolare e lo condannavano. Gli eunuchi e le loro repliche, insomma, si offrivano alla vista dentro e fuori la commedia.

In due momenti della rappresentazione uno dei personaggi, Gnatone – una combinazione tipica di burlone, parassita e adulatore –, scoppia a ridere: hahahae. Si tratta di due della decina di casi in cui la letteratura latina rappresenta in modo esplicito il suono di una risata, e solo per questo meritano attenzione; non dobbiamo arguire, come solitamente accade, la risata come elemento di un comico scambio di opinioni, poiché ci viene detto quando e dove essa ha avuto luogo. Come per l'altro racconto proveniente dalla primissima linea della risata latina, vale bene lo sforzo di decodificarla. La complessità, i diversi punti di vista, gli intrecci e i colpi di scena tra chi fa la battuta, chi la riceve e coloro che osservano (in scena e fuori), e la difficoltà stessa di capire la battuta, sono tutti fattori che fanno parte del gioco.

La risata scritta nel copione fa parte di uno scambio di battute tra il parassita Gnatone e Trasone, spavaldo soldato al servizio di un monarca orientale non meglio identificato, i quali fanno la loro comparsa in uno dei complicati intrecci secondari (forse difficili da seguire in dettaglio per il pubblico di allora come per noi... anzi, un po' di confusione faceva parte del divertimento). Il soldato non è soltanto il principale sostentatore di Gnatone, ma è anche l'ex padrone di Panfila, nonché innamorato di Taide (in realtà, aveva regalato la giovane Panfila a Taide come pegno d'amore). Nelle scene in questione, Trasone si vanta delle sue tante prodezze con Gnatone, il quale, come esige il ruolo del parassita professionista, adula e ride alle battute nella speranza di ricavarne in cambio cene a sbafo, mentre il drammaturgo sottolinea la falsità del suo comportamento. La conversazione viene ascoltata di nascosto da Parmenone, schiavo imbranato (il cui padrone è, com'è ovvio, innamorato di Taide e dunque rivale di Trasone, al quale contende i favori della cortigiana). Non visto e non sentito dagli altri, interloquisce di quando in quando tra sé.

Il soldato sbruffone comincia esaltando il suo stretto rapporto con il suo regale capo, il quale «mi ha affidato tutto l'esercito, e anche le decisioni». «Fantastico», replica immediatamente, caustico e untuoso, Gnatone (402-3). Trasone prosegue vantandosi di aver ridotto al silenzio un suo amico ufficiale al comando degli elefanti, invidioso della sua influenza sul re: «Dimmi, Stratone», afferma di averlo apostrofato, arguto, «sei così feroce perché hai il comando sulle bestie selvatiche?». «Che cosa arguta e intelligente da dire», fa eco Gnatone, con evidente falsità (414-16). Segue poi un altro racconto autocelebrativo di Trasone. E quello del «come ho messo a segno un colpo ai danni di un tale di Rodi durante un banchetto», ed è quello a provocare la risata:


TRASONE Questo giovane di Rodi di cui ti dicevo, era con me a un banchetto. Io avevo con me una ragazza, e lui comincia a provarci con lei e a prendermi in giro. Allora gli dico: «Senti un po', sapientone. Sei tu stesso un manicaretto e vai cercando un bocconcino?».

GNATONE Hahahae.

TRASONE Che c'è?

GNATONE Che spasso! Che arguzia! Fantastica! Insuperabile! Ma senti un po', l'hai inventata tu? Credevo fosse vecchia.

TRASONE L'avevi già sentita?

GNATONE Un sacco di volte, ma è sempre molto divertente.

TRASONE Ma è mia.

GNATONE Non posso far a meno di provar pena per quel piccolo libertino, per ciò che gli hai detto.

PARMENONE (a parte) Oddio, non può passarla liscia.

GNATONE E lui che cosa ha fatto? Racconta.

TRASONE Distrutto. Morivano tutti dal ridere. E da allora mi portano un gran rispetto.

GNATONE E fanno bene (422-33).


Poco meno di un centinaio di versi dopo c'è un nuovo scoppio di risa. Trasone si è stufato di attendere Taide davanti alla casa di quest'ultima e decide di andarsene, lasciando Gnatone ad aspettarla. Stavolta Parmenone parla a portata d'orecchio:


TRASONE Io me ne vado (rivolto a Gnatone): tu resta qui e aspettala.

PARMENONE Certo: non è decoroso per un comandante camminare per strada con la sua amante!

TRASONE Perché dovrei sprecare le parole con te? Sei tale quale il tuo padrone!

GNATONE Hahahae.

TRASONE Perché ridi?

GNATONE Per quello che hai appena detto e per quella storia del tizio di Rodi – ogni volta che ci ripenso (494-98).

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Tuttavia ora ne sappiamo abbastanza per poter ipotizzare le diverse risposte possibili dei Romani agli episodi citati dell' Eunuco. Ho già detto che la battuta di Trasone sul ragazzo di Rodi potrebbe aver suscitato il riso proprio perché il soldato stava cercando, poco plausibilmente, di far passare per sua una vecchia e arcinota battuta di spirito (è come se qualcuno oggi dicesse di essersi appena inventato "Cameriere, cameriere, c'è una mosca nella minestra..."). Ma c'era dell'altro. Qualcuno tra il pubblico potrebbe non aver riso (o riso con scarso entusiasmo) per la semplice ragione che si trattava di una battuta vecchissima, sentita e risentita, e non aveva una gran voglia di risentirla. Qualcun altro avrebbe potuto ridere proprio perché la conosceva a menadito. Si dice che le vecchie battute siano le migliori, nel senso che fanno sbellicare dalle risate non grazie alle interruzioni di incongruenza o al piacere della derisione (come sostengono varie teorie moderne), ma attraverso la piacevole memoria di tutte le altre occasioni nelle quali quella stessa battuta aveva funzionato a dovere. Il riso riguarda tanto la memoria, e i modi in cui abbiamo appreso a ridere a determinati segnali, quanto la spontaneità incontrollabile.

Anche ciò che suscita il riso, e i bersagli del riso stesso, variano molto più di quanto generalmente non si riconosca. Nel nostro caso, per esempio, qualcuno potrebbe aver riso perché la "battuta" di Trasone non era divertente, e perché la risata evidentemente poco spontanea di Gnatone metteva perfettamente a nudo, con quelle tre sillabe (hahahae), i meccanismi dell'adulazione, la vulnerabilità del patrono e del cliente e la scivolosità della risata in quanto significante. Il pubblico, cioè, rideva degli elementi costitutivi, delle cause e della dinamica sociale della risata stessa. Il riso – e le sue diverse interpretazioni, anche errate, gli usi e gli abusi, all'interno di queste scene – è parte della battuta.

Questa autoriflessività è sottolineata dal semplice fatto che, nei due brani dell' Eunuco, la risata viene scritta esplicitamente nel copione. È vero che nella commedia romana ci saranno state un mucchio di risate, sul palco e fuori. Certamente i moderni traduttori di Plauto e Terenzio inseriscono la "risata" nelle didascalie per rianimare le commedie: frasi tra parentesi – come ridendo fragorosamente, con una risata, ancora ridendo, ridendo in modo irrefrenabile, ridendo, tentando di nascondere il riso e ride ancor di più – ingombrano le versioni in inglese delle commedie, anche se gli originali latini ne sono completamente privi. Ma qui l'insistenza di Terenzio, per ben due volte, sull' hahahae di Gnatone e l'esplicito inserimento della risata nel dialogo della sua commedia creano un momento particolarmente denso – nel quale personaggi, pubblico e lettori non possono eludere la domanda su quale sia il senso di questa risata (o, più in generale, del ridere).

Lo stesso vale per l'altra decina di casi di risate scritte nel copione della letteratura classica latina. Si trovano tutte nelle commedie di Plauto e Terenzio, con un'unica possibile eccezione: un breve, e sconcertante, frammento del poeta Ennio ( «Hahae, lo scudo è caduto») che potrebbe appartenere benissimo a una commedia o a una tragedia.

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2. Questioni sul riso, antiche e moderne




Teorie e teoria


L'oratore più famoso del mondo romano (nonché autore di facezie tra i più famigerati), Marco Tullio Cicerone , era curioso in merito alla natura del riso. «Che cos'è?» Si domandava. «Che cosa lo provoca? Perché tutto d'un tratto coinvolge così tante parti del corpo? Perché non riusciamo a controllarlo?». Cicerone era però consapevole dell'elusività delle risposte ed era felice di professare la propria ignoranza. «Non c'è da vergognarsi», spiegava nel suo trattato De oratore, scritto intorno alla metà del I secolo a.C., «nell'ignorare qualcosa che persino i cosiddetti "esperti" non comprendono appieno».

Non era l'unico. Un paio di secoli dopo, Galeno , prolifico autore di trattati di medicina nonché medico personale degli imperatori Marco Aurelio e Commodo (tra gli altri), riconosceva di avere le idee confuse circa la causa fisiologica del riso. Nel suo saggio De motibus dubiis reputava di poter spiegare altri tipi di movimento involontario del corpo. L'immaginazione, per esempio, potrebbe spiegare perché un uomo ha un'erezione alla vista (o anche al solo pensiero) della sua amante. Ma la risata, era pronto a riconoscere, lo spiazzava.

Da più di 2.000 anni la risata affascina e sconcerta. Teorie ambiziose e congetture ingegnose in merito alla sua natura e alle sue cause vanno a braccetto con esplicite dichiarazioni circa l'impossibilità di poterne mai risolvere il mistero. Al di là dei motivi specifici che determinano ogni singola risata ("Perché ridi?" o "Quid rides?"), il riso in quanto fenomeno necessita di essere spiegato, e tuttavia pare sempre vanificare ogni spiegazione. Anzi, quanto più sono ambiziose le teorie, tanto più il riso ne esce vittorioso, con buona pace di chi vorrebbe controllarlo, sistematizzarlo, spiegarlo.

Studiare la "rideria" dell'antica Roma significa riflettere su quando, come e perché ridevano i Romani, ma anche su come cercavano di dare un senso al riso, che cosa essi – o perlomeno coloro che avevano l'agio di pensare e scrivere – ritenevano che fosse e quale potesse esserne la causa. Il presente capitolo inizierà dunque esplorando alcuni aspetti teorici su questo tema e le origini di alcune idee romane. A chi guardavano i Romani quando volevano spiegare perché ridevano? Risaliva davvero ad Aristotele (e in particolare alla sua analisi della commedia nel secondo, perduto, libro della Poetica) la gran parte del pensiero antico su questo tema? Esisteva, come si è spesso affermato, una "teoria del riso dell'età classica"?

Il capitolo passerà poi a considerare le moderne teorie del riso, in parte per mettere in luce il loro rapporto con quelle dell'età classica (poiché quasi tutte le teorie sociali o psicologiche moderne su questo argomento – e non mi riferisco alle neuroscienze – finiscono con l'avere un precedente nel mondo greco-romano). Ma occorre considerare altri interrogativi ancora più fondamentali. Di quali risorse disponiamo quando cerchiamo di dare un senso al riso, oggi e nel passato, nel nostro paese e altrove? A quali più vasti scopi culturali servono le teorie sul riso? Per esempio, quando ci chiediamo "I cani ridono?", di che cosa stiamo parlando? Di solito, credo di poterlo dire con certezza, non stiamo parlando di cani.

Ma iniziamo a far luce sulle ipotesi riguardanti il riso dell'antica Roma e la sua eterogeneità, partendo da alcune delle teorie e delle considerazioni che si trovano nella vasta enciclopedia (la Storia naturale) del poliedrico Gaio Plinio Secondo o Plinio il Vecchio , come è più spesso chiamato.

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Pagina 70

Ma se individuare il riso nell'arte è complicato, lo è ancora di più individuare le immagini che potrebbero aver suscitato il riso in un cittadino romano. Nel suo magnifico Looking at Laughter, John R. Clarke (2007) ha tentato di fare proprio questo: ha messo insieme una varietà straordinaria di esempi di arte romana, dalle grottesche alle caricature, dalle parodie all'equivalente latino dei fumetti, e l'ha usata per accedere al mondo del popolare, vigoroso, chiassoso e a volte greve riso dei Romani. È un'analisi estremamente affascinante che ha oltretutto il pregio di farci conoscere alcune incantevoli (e perlopiù dimenticate) immagini di Roma antica. Al contempo, però, ci pone di fronte a un altro aspetto del problema fin qui considerato. Come facciamo a sapere se i Romani, o alcuni di loro, ridevano guardando queste immagini? Chi è che ride qui, insomma? I Romani o noi? O siamo noi che stiamo tentando di immaginare, addirittura di interpretare, i Romani?

Prendiamo uno dei principali esempi fatti da Clarke: in questo caso non si tratta di un'immagine perduta, ma del celebre mosaico pavimentale all'ingresso della cosiddetta "Casa del poeta tragico"; dove un cane feroce dà il benvenuto all'ospite, mentre una scritta sottostante recita Cave canem, "Attenti al cane" (FIG. 2). A Pompei ci sono altri due mosaici simili, raffiguranti il cane da guardia che l'ospite doveva calpestare per entrare in casa (immagine oggi presente su migliaia di souvenir, dalle cartoline alle calamite da frigorifero). Secondo Clarke, tutte queste raffigurazioni avrebbero suscitato il riso a causa dell'effetto sorpresa dovuto a illusione e realtà, ma quella della Casa del poeta tragico era ancora più comica per la presenza della scritta. Quel Cave canem serviva ad attirare l'attenzione sul fatto che il cane in questione era solo un'illusione, per «smascherare la comicità dell'artificio», suscitando così il riso.

Condivido l'opinione di Clarke circa l'importanza di illusione e imitazione nel riso dei Romani. Meno convincente è il suo tentativo di spiegare la funzione sociale del riso che poteva erompere entrando in quelle dimore, dove egli troppo disinvoltamente ricorre all'abusato termine "apotropaico". L'ingresso, suggerisce lo studioso, era un pericoloso spazio liminale nell'immaginario romano: uno scoppio di risa all'ingresso era una buona difesa dal malocchio. Apotropaico o no, tutto ciò non fa né caldo né freddo al suo collega e storico dell'arte Roger Ling. Nella sua peraltro calorosa recensione del libro di Clarke, Ling sostiene che il mosaico non era affatto comico, ma al contrario molto serio. Serviva a mettere in guardia i visitatori, sia con le parole sia con le immagini, contro «la bestia in attesa di intrusi importuni». Insomma, «non era affatto uno scherzo!» (Ling, 2009, p. 52O).

Nella scelta tra queste due opzioni non c'è nulla di certo: possiamo scegliere tra quello che potrebbe essere, da parte di Clarke (e mia), un eccesso di entusiasmo nel riportare alla luce un riso che forse non c'è mai stato, e il concreto buonsenso di Ling, che rasenta però la mancanza di immaginazione. Questa opposizione ci ricorda un altro aspetto della complessità del discorso sul riso, a un tempo sconcertante e affascinante. Malgrado tutte le grandiose teorie, non c'è niente che, di per sé, faccia sbellicare dalle risate gli esseri umani; non c'è niente che sistematicamente e infallibilmente garantisca il riso come reazione, anche all'interno di norme e convenzioni di una stessa cultura. L'incongruenza, come sostiene una teoria, può indurre la risata, ma non sempre, o in chiunque. Una barzelletta che suscita una risatina a una festa di nozze non farà altrettanto a un funerale, o come osservava Plutarco (cfr. supra, pp. 37-8), ciò che ti fa ridere in compagnia degli amici non ti fa ridere in compagnia di tuo padre o di tua moglie.

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5. L'oratore




La più bella battuta di Cicerone


Iniziamo il capitolo con un rompicapo. Nel mezzo di una lunga dissertazione sul corretto ruolo del riso nell'oratoria, nel libro VI del suo manuale per aspiranti oratori, Marco Fabio Quintiliano (o Quintiliano, come finora l'ho chiamato) passa ad analizzare i doppi sensi: «Benché siano numerosi i luoghi dai quali si possono trarre le frasi ridicole [ dicta ridicula ], devo ribadire che queste non sempre si adattano all'oratore, in modo particolare quelle fondate sui doppi sensi [ amphibolia, nel suo greco latinizzato]». Poi prosegue citando un paio di giochi di parole che non soddisfano i suoi standard elevati benché pronunciati da Cicerone in persona. Uno prende in giro le umili origini di un candidato politico con un gioco non molto sottile imperniato su due parole assonanti: coquus ("cuoco") e quoque ("anche"). Pare che il candidato in questione fosse l'ambizioso figlio di un cuoco (coquus); quando Cicerone venne a sapere per caso che l'uomo andava a caccia di voti, avrebbe pronunciato con scherno: «Anche (quoque) io ti voterò». Questo genere di facezia era di un livello talmente inferiore a quello di un oratore di vaglia che Quintiliano, così afferma, fu in dubbio se bandirla dal repertorio retorico. Se non lo fece, ammette, è perché esiste un esempio assolutamente magnifico (praeclarum) del genere, che «da solo ci impedisce di condannare questa categoria di facezie».

Anche questo esempio proviene da Cicerone, che nell'anno 52 a.C. difese Tito Annio Milone dall'accusa di aver ucciso Publio Clodio Pulcro, uomo politico controverso e radicale. L'arringa di Cicerone in questo processo è generalmente considerata un insuccesso, se non addirittura vergognosa (la giuria aveva in maggioranza condannato Milone). Ma Quintiliano descrive l'esibizione retorica di Cicerone in termini alquanto più onorevoli: parte del processo, spiega, verteva sul tempo, e quindi anche sul momento esatto della morte di Clodio. La pubblica accusa aveva più volte intimato a Cicerone di dire esattamente quando era stato ucciso Clodio. Cicerone aveva risposto con una sola parola, sero, giocando sui due significati del termine: "tardi" e "troppo tardi". Insomma, Clodio era morto nel tardo pomeriggio, ma ci si sarebbe dovuti sbarazzare di lui già da tempo. La battuta non è difficile da capire. L'enigma è perché mai Quintiliano avrebbe dovuto considerarla talmente irresistibile da salvare dalla definitiva messa al bando tutte le altre battute dello stesso genere. Che cosa aveva di tanto speciale questa?

[...]

Ma un filone di discussione ancora più importante concerne il ruolo dell'invettiva umoristica nelle orazioni ciceroniane e le sue implicazioni sul controllo sociale e culturale. L'importante studio di Amy Richlin, The Garden of Priapus, pubblicato per la prima volta nel 1983, ha dato un enorme contributo affermando (ciò che oggi si dà per scontato) che l'umorismo sessuale nella satira, nell'epigramma, nel libello satirico e nell'invettiva era strettamente collegato alle gerarchie di potere. Secondo il modello di Richlin, quando Cicerone schernisce la condotta sessuale dei suoi avversari (ponendoli al di là della linea di confine che separava la virilità romana socialmente accettata da una varietà di figure trasgressive di segno opposto, come l'omosessuale passivo, il "tenerone", il cinaedus, il mollis), sta usando l'arguzia e il riso come una vera e propria arma nella lotta per il predominio. È un umorismo fondato non sulla benevolenza, bensì sull'aggressione. È il classico esempio del genere di scherzo che Freud definiva tendenzioso (contrapposto a innocente), nel quale, «dipingendo il nostro nemico come un essere meschino, vile, spregevole, ridicolo, ci procuriamo per via indiretta il godimento della sua sconfitta, e la terza persona [vale a dire, nell'oratoria ciceroniana, il pubblico] che non ha fatto alcuno sforzo lo attesta col suo riso» (Freud, 1975, p. 127).

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Giochi di parole, freddure e battute non erano privi di rischi. Se escogitati in anticipo o usati indiscriminatamente, tanto per suscitare una risata, o se erano generici anziché legati a un determinato individuo, costituivano l'armamentario non dell'oratore ma dello scurra; sapevano di mercificazione del riso, ovvero (come vedremo nel CAP. 8) erano tipici dell'uomo di spirito di basso livello. Come se non bastasse, potevano essere controproducenti. Strabone racconta una storia moraleggiante su una battuta fatta in un'aula di tribunale, e la prende a esempio del perché ci si debba astenere dalle spiritosaggini anche quando se ne presenti l'occasione. Filippo, dice la storia, aveva chiesto al magistrato il permesso di interrogare un testimone che era di bassa statura. Il giudice aveva acconsentito con fare sbrigativo: «Ma solo se sei breve». «Non avrai di che lamentarti: sarà un interrogatorio piccolissimo». La battuta era buona, ma si dava il caso che uno dei giudici fosse ancora più basso e il riso fu dirottato su di lui; la battuta era parsa quindi scurrile. Spiega Strabone: «Le battute che colpiscono chi non si vorrebbe, anche se graziose, sono per definizione da scurra» (De or. 2.2.45).

Strabone fa capire molto chiaramente che il modo sicuro di strappare una sana risata a Roma non è la freddura ingegnosa, il motto di spirito o la citazione precisa di un verso poetico: è l'alterazione fisica, nelle sue diverse forme, a garantire la risata. Che cosa provoca il riso (ridiculum) più di un buffone chiede Strabone. E il buffone lo fa con il viso, con la mimica, con la voce e con il suo modo di usare il corpo. Ma resta il fatto che questi modi volgari di far ridere siano quasi del tutto fuori luogo per l'oratore di rango: «Le smorfie non sono degne di noi [...] l'oscenità non si confa a un banchetto di signori, al Foro ancor meno». L'unica tecnica a suscitare una sorta di timida approvazione è l'imitazione, sempre che sia fatta «furtivamente e alla svelta» (2.252).

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6. Da imperatore a buffone




Riso e potere


Nelle pagine iniziali di questo libro abbiamo assistito all'incontro tra un imperatore e un senatore nel Colosseo, nel quale il riso — in modo diverso — era presente su entrambi i fronti: il senatore e scrittore Cassio Dione masticava la sua foglia d'alloro per mascherare la ridarella; l'imperatore Commodo aveva un largo e minaccioso ghigno di trionfo stampato in faccia. Abbiamo anche visto brevemente alcuni significativi racconti sul riso, e l'ambigua giocosità dell'imperatore Eliogabalo (cfr. supra, p. 91), che regnò una trentina d'anni dopo Commodo, dal 218 al 222 d.C., della quale si narra nella sua stravagante biografia, dai più considerata molto fantasiosa.

Con quella che è, a quanto pare, la prima testimonianza dell'uso del petofono nella storia, la Vita spiega come Eliogabalo suscitasse grandi risate facendo finire i suoi ospiti sotto il tavolo durante le cene; tra le sue burle pare vi fosse anche l'esilarante schieramento di otto pelati, o ciechi da un occhio, o sordi, o gottosi. In teatro la sua risata copriva quella del resto del pubblico. Altri racconti provenienti dalla medesima e palesemente inaffidabile fonte riferiscono che «era solito scherzare con gli schiavi arrivando a ordinare loro di recargli mille libbre di tele di ragno offrendo anche una ricompensa» o che «quando i suoi amici erano ubriachi, egli li rinchiudeva e poi d'improvviso, di notte, introduceva nella stanza leoni e leopardi e orsi addomesticati, così che quando quelli si risvegliavano all'alba, o peggio, di notte, si trovavano accanto leoni e leopardi e orsi. E molti ne morivano» (SHA, Heliog. 26.6, 25.1).

Le esagerate fantasie della Historia Augusta sono spesso più significative sotto il profilo storico di quanto non appaiano: non semplici invenzioni, ma amplificazioni assurde di inquietudini tipicamente romane. Potremmo vedere alcune delle storie di Eliogabalo come un riflesso rovesciato delle preoccupazioni espresse da Quintiliano sulla verità e falsità dello scherzo e del riso. In questo episodio, un agghiacciante effetto dell'autocrazia romana viene immaginato come la capacità del tiranno di trasformare i propri scherzi (in modo orrendo e inatteso) in realtà: le tigri e le altre bestie erano innocue, ma gli ospiti morivano ugualmente.

È una verità lapalissiana che la pratica del riso sia strettamente legata al potere e ai suoi differenziali (quale pratica sociale non lo è?). La domanda interessante che questo capitolo tenta di affrontare è: in che modo il riso era legato al potere romano? Partiamo dagli imperatori e dai tiranni per poi riflettere sul ruolo del buffone a Roma, dentro e fuori la corte imperiale, come stereotipo culturale e come personaggio della realtà sociale quotidiana (per quanto siamo in grado di intravedere, lo faremo attraverso padroni e schiavi e un racconto straordinariamente divertente di un pubblico gelido e l'imperatore Caligola). Riemergono alcuni temi sfiorati nel capitolo precedente, in particolare il concetto di scurra, quella figura antitetica all'oratore di alto livello che costituirà il complesso e mutevole tema del paragrafo finale di questo capitolo. L'intento è quello di ricollocare il riso all'interno della nostra immagine della corte imperiale e dei suoi dintorni e di porre in rilievo il ruolo avuto dai buffoni nella cultura dell'élite romana: si rivelerà molto più ampio e significativo di quanto solitamente si tenda a riconoscere.

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Risate conviviali, parassiti e un re schiavo


Il riso e il motteggio tra "piccolo" e "grande", tra suddito e imperatore sono presenti in una pluralità di contesti: dalle terme alle pubbliche vie ai giardini dell'imperatore. Ma lo scenario fondamentale dei buffoni, delle risate e delle battute scherzose che attraversavano le gerarchie del potere era la (apparentemente) meno gerarchica delle istituzioni romane: la cena, o convivio. È qui che Eliogabalo sgonfiava i suoi proto-petofoni e che le "merdine" si burlavano di Claudio infilandogli le mani nelle pantofole, ed è a una cena che Caligola invitò l'uomo al quale aveva appena giustiziato il figlio «e lo spingeva a ridere e scherzare». La cena era molto più di una semplice occasione di gioco e divertimento. Esisteva un'importante relazione tra la battuta e chi la faceva, tra cibo e adulazione, sullo sfondo delle strutture spiccatamente disomogenee del convivio e delle sue rappresentazioni.

È superfluo dire che il convivio romano era un'istituzione paradossale. Da una parte promuoveva l'uguaglianza, perché mangiare insieme è uno dei modi più efficaci per mettere tutti i partecipanti sullo stesso livello; il principio di fondo della convivialità è che coloro che mangiano la stessa cosa sono la stessa cosa (o, almeno per il momento, possono considerarsi tali). Dall'altra, questa istituzione rappresentava, molto chiaramente, le disuguaglianze dei commensali: il modo e l'ordine in cui il cibo veniva servito e l'assegnazione dei posti rafforzavano anziché indebolire le gerarchie sociali. Vari autori romani disapprovavano la consuetudine di servire cibo inferiore a invitati di rango inferiore. E secondo la Historia Augusta, un altro trucco di Eliogabalo era quello di prendere alla lettera le disuguaglianze facendo servire ai commensali meno prestigiosi cibo non solo peggiore di quello servito agli ospiti di rango superiore, ma del tutto immangiabile:

Ai parassiti [parasiti] offriva spesso per dolce cibo di cera o di legno o d'avorio, talvolta di terracotta, in qualche occasione di marmo o di pietra, così che ogni cosa veniva loro servita ma solo per essere guardata ed era fatta di una materia diversa da quella che egli mangiava, mentre quelli bevevano solamente per tutta la durata delle portate e si lavavano le mani come se avessero mangiato (SHA, Heliog. 25.9).

Parte dello scherzo risiede nell'idea di imitazione e di mimica: c'è qualcosa che finge di essere cibo ma non lo è (come quando Petronio, nel rievocare la cena di Trimalcione, insiste spassosamente sul bluff e doppio bluff del cibo che pare in qualche modo camuffato). Ma l'aspetto più sinistro dello scherzo è che incide nella pietra (o nella cera o nel legno) le iniquità del convivio imperiale.

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Pagina 169

Lo scurra


Più d'ogni altra cosa, è l'ombra dello scurra ad aver riempito le pagine di questo libro. Abbiamo visto come egli rappresentasse una forma disonorevole di scherzo: volgare, imitativa, non spontanea, ma al tempo stesso capace di suscitare la risata. Abbiamo anche visto come le accuse di scurrilitas potessero essere usate nei conflitti tra patrizi romani. Per i suoi nemici Cicerone era «un console scurra», mentre egli poteva criticare le facezie altrui come troppo simili a quelle di uno scurra. C'era qualcosa di sfacciato e provocatorio nello scurra; fu la sua dicacitas ("insolenza") a far apparire l'imperatore Vespasiano scurrilis (simile a uno scurra). Un altro interessante esempio di questo stile di motteggio (e delle sue pericolose conseguenze) si trova nella storia, narrata da Svetonio, della mordace frecciata lanciata da uno scurra a proposito della taccagneria dell'imperatore Tiberio. Durante un corteo funebre, l'uomo gridò alla salma di far sapere al defunto imperatore Augusto che i suoi lasciti non erano stati corrisposti al popolo romano. Ebbe quel che si meritava: Tiberio diede l'ordine di giustiziarlo, ma non prima che gli fosse stato dato il suo denaro, cosicché potesse recare nell'aldilà il messaggio che il debito era stato pagato (Svetonio, Tib. 57.2).

[...]


[...] Ho già espresso il mio rammarico per il fatto di non conoscere il punto di vista dei "parassiti", se non attraverso gli occhi degli scrittori impegnati a disprezzarli. Lo stesso vale per lo scurra, tranne che per un prezioso sguardo proveniente dal IV secolo d.C., epoca di conflitti religiosi. Lo sguardo in questione proviene dalle Corone dei martiri, un agghiacciante ciclo di componimenti scritto da Prudenzio, in cui lo scurra è inserito in un contesto cristiano molto diverso.

Il secondo componimento della raccolta narra, in quasi seicento versi, la storia del martirio di san Lorenzo, che fu messo a morte su una graticola rovente nel 258 d.C. In un celebre passaggio che è diventato quasi il simbolo di questo martirio (vv. 401-4), Lorenzo chiede di essere rigirato prima di morire, giacché un lato del corpo era già arrostito (da qui, in parte, il suo successivo ruolo di santo patrono dei cuochi). Prudenzio fornisce un dettagliato, vivido e (presumibilmente) molto abbellito, se non inventato, resoconto in versi dello scontro tra il santo e il suo persecutore pagano. Il componimento comincia con il pagano che reclama le ricchezze della Chiesa cristiana, che ritiene siano nascoste e non «rese a Cesare» (vv. 94-98). Implorando una dilazione per poter svelare «tutte le fortune possedute da Cristo» (vv. 123-24), Lorenzo si prende gioco del suo persecutore facendogli sfilare innanzi i poveri e gli infermi romani, cioè i "tesori della Chiesa". La cosa non viene accolta bene e Lorenzo finisce sulla graticola.

Lo stile di questo scontro è peculiare. Lorenzo è un personaggio sveglio, scaltro e arguto che prende terribilmente in giro il persecutore, e il riso gioca un ruolo fondamentale. Di fronte ai poveri e agli infermi che sono il tesoro della chiesa, il persecutore dice: «Si ride di noi [ridemur]» (v. 313). Poi esplode: «Furfante, pensi di farla franca dopo aver tramato i tuoi imbrogli con frizzi da mimo [cavillo mimico], mettendo in scena il tuo racconto da scurra? È parso all'altezza della tua urbanitas trattarmi con questi scherzi [ludicris]? Sono stato dato in pasto alla gente che ride stridula quasi fossi un intrattenimento festivo?» (vv. 317-22). Alla fine del componimento, scopriamo che coloro che venerano il santo non solo lo implorano di aiutarli e raccontano la sua storia, ma riprendono anche lo stile di Lorenzo e "scherzano" (iocantur).

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7. Tra umano e animale

(specialmente scimmie e asini)


Finora in questo libro le donne romane sono apparse ben poco. Abbiamo dato un rapido sguardo all'immagine della prostituta che ride (cfr. supra, pp. 13 e 94) e abbiamo visto la figlia di Augusto, Giulia, diventare oggetto della bonaria presa in giro del padre in tema di capelli bianchi e calvizie (cfr. supra, pp. 147-8). Secondo la tradizione romana, tuttavia, Giulia non era una che gli scherzi li subiva soltanto. Oltre all'aneddoto sui capelli strappati, nei Saturnalia di Macrobio c'è una serie di memorabili battute di cui sarebbe l'autrice, molte delle quali si pongono in modo trasgressivo nei confronti della politica moralizzatrice del regime di Augusto (Macrobio, Sat. 2.5). Una delle preferite dagli studiosi moderni è quella che ne rivela l'approccio disincantato verso l'adulterio (qui definito flagitia, "condotta vergognosa") e i figli illegittimi: «Quando quelli che erano a conoscenza della sua condotta vergognosa si stupivano della somiglianza dei figli al marito Agrippa, nonostante concedesse il suo corpo a Tizio, Caio e Sempronio, ella diceva: "Non prendo mai a bordo un passeggero se non quando la stiva è piena"» (2.5.9).

L'idea che la figlia dell'imperatore sfruttasse le proprie gravidanze legittime («quando la stiva è piena») per andare a letto a destra e a sinistra potrebbe essere interpretata come un attacco diretto alla legislazione morale di Augusto. Oppure potrebbe essere vista come una bonaria presa in giro nello stile un po' osé di alcuni scherzosi motteggi dell'imperatore (cfr. supra, p. 146). In ogni caso la sua avventata fiducia in sé subisce un drammatico colpo – per chi conosce tutta la storia – poiché Giulia finì esiliata per i suoi adulteri e morì in solitudine nello stesso anno del padre.

Una cosa che manca quasi del tutto a Roma è la tradizione del riso "sovversivo" delle donne – quello che in inglese si chiama giggling ("far risatine" "ridacchiare") –, che è un elemento peculiare della cultura occidentale contemporanea, presente sin dai tempi di Geoffrey Chaucer. Si tratta di una forma di riso quasi esclusivamente associata al genere femminile; nella sua forma più potente diventa, secondo Angela Carter, «l'innocente esultanza con cui le donne umiliano gli uomini» (Carter, 1992, p. 190). Se è mai esistita una tradizione gelastica femminile nella cultura romana, ne sono rimaste ben poche tracce nella letteratura giunta sino a noi. La cosa non sorprende, forse, perché a dispetto della sua importanza nella cultura popolare delle donne, fino a non molto tempo fa questa era una forma di riso che tendeva a esistere solo al di fuori dell'ortodossia dominante, quasi mai presente nei secoli di letteratura e tradizioni culturali maschili, se non per essere schernita (le "risatine delle scolarette"). Non è – come ha osservato Carter a proposito della risata di Alison alle spalle del marito cornuto nel Racconto del mugnaio di Chaucer – «un suono che si sente molto spesso in letteratura» (Carter, 1992, p. 189).

Quasi sempre, il riso delle donne è tenuto sotto stretto controllo nelle rappresentazioni letterarie del mondo romano. Non sembra rappresentare, come forma specificatamente di genere, una grande minaccia all'ego maschile o alle tradizioni maschili del riso e del comico; o perlomeno le regole e i regolamenti, impliciti o espliciti, erano tesi a garantire che non lo fosse. Le riflessioni di Ovidio sono particolarmente brillanti in questo caso, come in molti altri. Perché nel libro III dell' Arte di amare – il suo poema pseudodidattico su come conquistare (e tenersi) un partner – mette alla berlina le norme del riso femminile e al contempo mette a nudo alcune debolezze culturali delle convenzioni gelastiche romane. Ovidio introduce inoltre quello che sarà il tema principale di questo capitolo: il confine tra esseri umani e animali, che il riso contribuisce a stabilire e insieme a sfidare. Non sarà certo una sorpresa, per i lettori abituati alle strutture misogine del pensiero antico, che il riso delle donne sia ricondotto "naturalmente" al raglio o al ruggito del regno animale.

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Pagina 179

A Roma il teatro comico trovò nella figura della scimmia un potente simbolo dei propri trucchi mimetici. In particolare, Plauto riempì le sue commedie di nomi di scimmia (Simia, Pithecium e così via), sogni di scimmia, persino morsi di scimmia, e questa elaborazione fantasiosa fu rappresentata in una curiosa statuina, quasi certamente di epoca romana, che raffigura un attore comico con la testa di scimmia al posto della maschera teatrale (FIG. 3) (Lissarrague, 1997, p. 469). Anche Orazio, certamente memore di Ennio, definì «una scimmia» un poeta poco originale. E la sicurezza con la quale Claudio Eliano, alla fine del II o al principio del III secolo d.C., affermava che l'imitazione fosse la qualità che definiva questo animale, ben si inserisce nello scenario culturale romano. «La scimmia è la bestia che più delle altre è capace di imitare», spiegava Eliano, «e qualsiasi azione le venga insegnata la imparerà alla perfezione, tanto da farne sfoggio. Certamente si metterà a danzare se ha imparato come fare e a suonare la zampogna se le viene insegnato». Osservava poi che l'abitudine di imitare avrebbe potuto decretarne la morte (o almeno la cattura). I cacciatori indiani di scimmie indossavano le scarpe quando erano visibili dalla loro preda, poi ne lasciavano fuori altre paia affinché gli animali copiassero i loro gesti: il trucco era che le scarpe delle scimmie erano legate a delle trappole.

Numerose immagini scoperte a Pompei raffigurano scimmie che imitano esseri umani. Una statuina oggi perduta rappresentava una specie di scimmia con un berretto frigio in testa e un pugnale stretto in mano (Della Corte, 1954, p. 210, n. 498). Un curioso dipinto in una delle dimore più grandiose della città raffigura un ragazzo e una scimmia vestita con la tunica, presumibilmente pronta a esibire le sue abilità imitative (FIG. 4).

Ma l'immagine più sorprendente è un fregio su cui è dipinta una caricatura dei fondatori di Roma. Raffigura Romolo e (in uno stato di conservazione migliore) Enea con padre e figlio che fuggono da Troia. I personaggi umani sono rappresentati come strani ibridi di scimmia dal pene smisurato, la coda e la testa di cane (FIG. 5). Si è molto dibattuto su quale possa essere il significato comico di questa immagine. Qualcuno vi ha ravvisato un dotto gioco di parole visivo (la vicina isola di Pithecusae o Isola delle Scimmie, odierna Ischia, era nota anche come Aenaria, che molti romani ritenevano significasse "isola di Enea": così il dipinto combinerebbe le due cose) (Brendel, 1953). Altri hanno individuato una "resistenza comica" alla romanizzazione di Pompei e allo sfruttamento delle leggende sulla nascita di Roma portato avanti da Augusto. Ma quale che sia l'esatta lettura di queste immagini, esse fanno comunque riferimento alla comica intercambiabilità di scimmia ed eroe mitico: le scimmie potevano persino rivestire il ruolo dei padri fondatori di Roma. Per ridere.

Ma perché le scimmie facevano tanto ridere? Ci illudiamo se pensiamo di conoscere la ragione per la quale ogni romano si sbellicava dalle risate alla vista di una scimmia (figuriamoci di un Enea dalle sembianze di scimmia). Tuttavia una serie di aneddoti e di dissertazioni moraleggianti della letteratura latina ci aiuta a capire la mutevole relazione tra le scimmie e il riso. Questi racconti mettono in luce l'importanza dell'imitazione e dell'adulazione nonché il sottile intersecarsi di umano e animale.

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8. L'amante del riso


Un intellettuale [scholastikos], un pelato e un barbiere erano in viaggio e si erano accampati in un posto solitario. Decisero che sarebbero stati svegli a turni di quattro ore per fare la guardia ai bagagli. Quando fu il turno del barbiere, volendo passare il tempo, questi rase la testa dello scholastikos e quando finì il turno, lo svegliò. Non appena sveglio, lo scholastikos si sfregò la testa e scoprì di non avere più capelli. «Il barbiere è un vero idiota», disse. «Ha sbagliato tutto e al posto mio ha svegliato il pelato».


Questa è la numero 56 delle circa 265 storielle raccolte sotto il titolo di Philogelos, o 'Amante del riso'. Scritta in una lingua greca decisamente poco elegante, la raccolta viene solitamente fatta risalire all'epoca tardoimperiale (IV o V secolo d.C., secondo l'ipotesi più in voga) e comprende un'ampia varietà di trovate comiche, dalle storielle sui taccagni («La sai quella del vecchio spilorcio che aveva fatto testamento a favore di sé stesso?») alle battute sull'alito cattivo («Come fa uno con l'alito cattivo a suicidarsi? Si mette una sacca in testa e muore asfissiato!») ai divertenti ammonimenti sul miele scadente («Non lo venderei affatto, ammise il mercante, se non ci fosse finito dentro un topo»).

La barzelletta dell'intellettuale, del pelato e del barbiere è tra le più lunghe della raccolta e ha un contesto narrativo molto particolareggiato (il viaggio, i rischi per il bagaglio, la noia di fare la guardia e così via). Inoltre, qui ci imbattiamo ancora una volta in una delle figure più popolari del repertorio umoristico di Roma: l'uomo calvo (cfr. supra, pp. 63, 147-8 e 162). E per la prima volta incontriamo un altro personaggio fondamentale del repertorio della comicità antica, lo scholastikos, che ha un ruolo di primo piano in quasi metà delle facezie del Philogelos. Il trio da lui formato assieme al barbiere e al pelato rimanda a quelle freddure che iniziano sempre con "Un inglese, uno scozzese e un irlandese entrano in un bar...". È un'eco che forse spiega perché questa barzelletta sia la preferita di tanti lettori del Philogelos: sembra davvero inserirsi senza difficoltà nelle convenzioni comiche di oggi. Queste storielle, però non hanno sempre suscitato il divertimento dei lettori: nel pubblicare una delle prime traduzioni inglesi di una selezione di queste facezie, Samuel Johnson faticò a capire il senso della battuta finale della storiella, incolpando i copisti della sua oscurità.

Ci sono motti di spirito che ancora oggi non funzionano, sono frigidi, come avrebbero detto i Romani (cfr. supra, pp. 68 e 147). Esplorando più a fondo il Philogelos, mi interrogherò ancora una volta su quanto ingegno serva (e quanto sia legittimo) a far sì che quei motti di spirito siano capaci di farci fare una risata (anche forzandone il senso). Ma analizzerò anche alcune questioni fondamentali che riguardano la raccolta. Chi potrebbe averla compilata, e quando? A che cosa serviva, e qual era la funzione di quelle storielle? Non vi sono dubbi che le barzellette del Philogelos dovessero far ridere lettori o ascoltatori, questo è chiaro sin dal titolo: "L'amante del riso". Ma che cosa può dirci questa raccolta di facezie, o di motivi comici, della società che le aveva prodotte o trasmesse, delle sue priorità, delle sue inquietudini e dei suoi timori? Qual è il ruolo del Philogelos nella "rideria" di Roma? E soprattutto, qual era lo scopo (e la storia) di un libro del genere? Sosterrò che nell'antichità classica la raccolta di facezie era tipicamente, se non esclusivamente, romana. E in ultimo arriverò quasi a insinuare — ma mi fermerò in tempo — che la barzelletta come la intendiamo oggi fu un'invenzione dei Romani.

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Pagina 213

Cogliere la battuta


Le storielle del Philogelos, benché in gran parte costituite da poche righe, presentano una varietà di stili riconoscibili. Alcune riflettono i temi della favola, della commedia o dell'epigramma, altre lo spirito del mimo (benché della scurrilità del mimo ce ne sia ben poca: nell'insieme è una raccolta molto castigata). La maggior parte delle battute è fondata su freddure e giochi di parole. Alcune funzionano attraverso immagini sorprendenti («Uno scholastikos comprò una casa e, sporgendosi dalla finestra, chiedeva ai passanti come gli stesse», come se stesse provando la casa come si prova un mantello, 14). Una battuta sembra collimare con l'osservazione di Cicerone (cfr. supra, p. 117) secondo cui l'inserimento di una citazione poetica inattesa poteva essere divertente (nel Philogelos un attore inseguito da due donne – una con l'alito cattivo, l'altra con un odore corporeo mefitico – cita il verso di una tragedia che coglie esattamente il suo grave dilemma, 139).

Alcune di queste storielle riescono ancora a suscitare una risata, anche se può essere necessario un aiuto dalla traduzione. Molte delle traduzioni di scholastikos, per esempio – "intellettualoide", "zuccone" o "professore svanito" –, sono state scelte proprio perché fanno parte del linguaggio della commedia moderna e ci predispongono al riso. Altre storielle sono decisamente meno divertenti. A volte dipende dall'abisso quasi incolmabile che esiste tra le convenzioni della comicità antica e la nostra. La crocifissione, per esempio, non trova spazio nel repertorio comico moderno. È per questo che la storiella del Philogelos sull'abderita che vede un corridore sulla croce e dice: «Non corre più, vola», ci lascia freddi e anche un po' a disagio (121).

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E proprio tra queste storielle di secondo piano del Philogelos inserirei quella, alquanto piatta, su un "sempliciotto", presumibilmente l'apprendista di un barbiere nonché tagliaunghie. «Un apprendista sempliciotto, al quale il padrone aveva detto di tagliare le unghie a un cliente, scoppiò a piangere. Quando il cliente gli chiese perché, egli disse: "Ho paura, ecco perché piango. Perché ti ferirò e ti faranno male le dita e il padrone mi batterà"» (200). Una storiella analoga, ancora più breve, è quella del taccagno nell'officina del follatore: «Un taccagno entrò nell'officina del follatore e, non volendo pisciare, morì» (214). Dev'esserci, in questo caso, un collegamento con l'uso dell'urina nel settore della follatura e del bucato a Roma. Presumibilmente (e questa è la migliore spiegazione che si possa offrire) il taccagno era talmente desideroso di non dare gratis la sua preziosa urina al follatore da trattenerla finché la vescica gli fosse scoppiata e lui fosse morto.

Ovviamente alcune di queste storielle facevano ridere quando venivano raccontate più di quanto non divertano leggendole oggi sulla pagina scritta. Supponiamo che le storielle del Philogelos fossero pensate come sunti telegrafici da arricchire con la verve comica del buffone; in questo caso la performance avrebbe aggiunto quei particolari di cui la freddura sul taccagno nell'officina del follatore sembra disperatamente avere bisogno (per esempio: che cosa esattamente lo aveva trattenuto? Perché non se n'era uscito dall'officina per fare pipì?). Non possiamo che fare congetture sul rapporto tra il testo e il racconto orale, ma in generale non ho dubbi che andremmo contro la vera natura di questa come di altre raccolte del genere se pretendessimo che tutte le storielle fossero buone — sulla base di standard antichi o moderni.




Il mondo visto di sbieco


Buone o no, le storielle hanno molto da dirci sulla cultura di Roma. Che suscitassero risate di cuore, risatine appena accennate o netto sconcerto, esse offrono uno sguardo obliquo su enigmi, problemi e dibattiti antichi che resterebbero altrimenti sepolti.

È quasi una verità lapalissiana (abbondantemente sfruttata in questo libro) affermare che il riso sia un indicatore di aree di disturbo e di ansia sociale, culturale e psichica. Abbiamo visto, per esempio, in che modo ridere a Roma avesse a che fare con i controversi confini del potere e della condizione sociale — tra animali e umani, imperatori e sudditi. E il fatto che all'incirca il 15 per cento delle barzellette del Philogelos riguardi in un modo o nell'altro la morte (dalle bare al suicidio all'eredità) è probabilmente sufficiente a stimolare il teorizzatore freudiano che è in tutti noi.

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Le incertezze comprendono in particolare l'identità personale. Una domanda solo apparentemente semplice – «Come faccio a sapere chi sono?» – lascia un segno profondo sul Philogelos. La freddura sullo scholastikos, il pelato e il barbiere che ha dato il via a questo capitolo ruota proprio intorno a questo problema (come faccio a sapere la differenza tra "me" e "un altro"? "A volte ce ne accorgiamo solo per un pelo"). E molte altre battute vertono su questo stesso tema, alcune delle quali sono tra le più memorabili della raccolta. Esse chiedono ripetutamente dove siano l'autorità e i diritti di autenticazione in tema di identità personale. Una breve variante recita: «Uno scholastikos incontra per caso un amico e dice: "Mi hanno detto che eri morto". L'altro replica: "Ma come vedi sono vivo". E lo scholastikos rimbecca: "Ma la persona che me l'ha detto è molto più attendibile di te"» (22).

Si tratta essenzialmente dello stesso senso di un'altra storiella un po' più complessa in cui un "burbero" voleva evitare una persona che era passata a trovarlo. «Qualcuno stava cercando un uomo burbero. Ma egli rispose: "Non ci sono". Quando l'ospite si mise a ridere dicendo: "Tu menti, sento la tua voce", egli replicò: "Canaglia, se il mio schiavo avesse parlato, tu gli avresti creduto. Non ti sembro più degno di fiducia di lui?"» (193).

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Molte altre storielle toccano questi e altri temi analoghi. «Sei tu che sei morto o il tuo gemello?», chiede un intellettualoide incontrando per strada il superstite (29). Un altro decide di dare al figlio neonato il proprio nome, «e io ne farò a meno» (95). In altre parole, qual è il rapporto tra l'atto di nominare e l'individualità? Nello studio di un imbalsamatore, un uomo di Cuma cerca di identificare il cadavere del padre attraverso il suo tratto distintivo: la tosse (171). Fino a che punto, è l'interrogativo che pone questa facezia, l'identità e i suoi indicatori sopravvivono alla morte? È divertente il fatto che quell'acciacco, che presumibilmente definiva il vecchio e alla fine lo ha ucciso, si riveli di nessuna utilità nell'identificarlo in mezzo a un mucchio di cadaveri tutti uguali?

Quale che sia l'esatta origine del Philogelos, che sia uscito dalla bottega di un barbiere o sia stato creato con maestria in biblioteca, quali che siano le sue varianti e i suoi antenati, il riso rimanda a dibattiti e inquietudini che dovevano essere cospicui in un mondo in cui le attestazioni ufficiali dell'identità erano minime: non esistevano passaporti né documenti di identità rilasciati dall'amministrazione pubblica, erano poco diffusi i certificati di nascita o altre forme di documentazione che noi oggi diamo per scontate e che attestano chi siamo. Nel mondo romano l'identità era un problema: le persone sparivano, si reinventavano e si davano un nuovo nome, fingevano di essere ciò che non erano o non riuscivano a convincere neanche i più stretti familiari di essere davvero chi dicevano di essere. L'antropologia casereccia di queste storielle suscitava forse una risata (o sperava di suscitarla) nel pubblico romano mettendo a nudo la vera natura delle sue quotidiane incertezze circa la propria identità. Quando lo scholastikos si svegliava, si grattava la testa e si chiedeva se non fosse improvvisamente diventato calvo, alludeva – ironicamente, magari – a comuni inquietudini su chi era chi. Esattamente come l'aneddoto dell'uomo che voleva i cani accanto al letto per spaventare gli orsi del sogno, questa storiella era in linea con i tanti interrogativi sullo stato di quel che si "vedeva" nel sonno.

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