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| << | < | > | >> |Indice7 Giacomo Becattini e «Il Ponte». Cronaca dì un sodalizio, di Marcello Rossi 17 Postilla, di Giacomo Becattini Per un capitalismo dal volto umano 23 Introduzione. Ricominciare dai luoghi del nostro vivere quotidiano Parte prima Il sole dell'avvenire: mito o speranza? 37 1. Premessa 42 2. Puzza di bruciato 61 3. Raccogliendo le idee Parte seconda L'enigma del capitalismo globale 109 4. Premessa 115 5. Miti e paradossi del capitalismo contemporaneo 137 6. Pace e guerra Parte terza Critica dell'economia apolitica 157 7. Premessa 165 8. Dal Pil al benessere: le basi critiche della speranza 202 9. Lo sviluppo locale 245 10. Maestri e amici 10.1. Alberto Bettolino e «Il Ponte» 10.2. Per Napoleoni oltre Napoleoni 10.3. Sebastiano Brusco: il mestiere dell'economista 10.4. Federico Caffè: il destino del riformista 10.5. Giorgio Fuà: ricerca sul campo e critica del Pil 10.6 Karl Marx secondo Sylos Labini Parte quarta Cronache del Bel Paese 295 11. Premessa 298 12. Il fattore B 322 13. La bella addormentata |
| << | < | > | >> |Pagina 33[...] Io spero che questo embrione di progetto di «città futura» sia sviluppabile in qualcosa di concreto (il discorso federalista che lo affianca è ben sviluppato) e credo che comunque, ancorandosi a una visione «multiculturalistica» e pluralistica del mondo attuale, specularmente opposta all'inquietante individualismo cosmopolitico che ci affligge, abbia almeno il pregio di partire col piede giusto.Considero i discorsi sullo sviluppo locale - cui mi dedico -, come quelli sul «terzo settore», sulla cooperazione, sull'impresa etica, e simili - cui non mi dedico, ma seguo con interesse -, come embrioni di una riflessione, dall'esito non predeterminabile a tavolino, sulla società ideale, alternativa al capitalismo caotico del nostro tempo, che è nel Dna di ogni economista «politico». Nonché, a fortiori, di ogni militante della sinistra. Capisco bene che, almeno per quest'ultimo, si tratta di una ritirata rispetto alle alte speranze di solo pochi anni or sono, ma sono rimasto tanto scottato dalla retorica rivoluzionaria e mi fido così poco di quella liberistica, per non parlare di quella nazionalistica, da esser disposto, pur di andare avanti, anche a tornare un po' indietro. E comunque, quale che sia il progetto di «città futura» cui finirà per approdare la sinistra europea, esso dovrà risolvere - questo è il succo, per adesso, delle mie riflessioni - il problema di combinare una crescente produttività del lavoro con un congruo livello di socialità responsabile. Senza la prima si blocca il progresso, senza la seconda il profluvio delle merci serve, in definitiva, solo a renderci la vita invivibile. | << | < | > | >> |Pagina 40[...] Il problema che mi bruciava di più era la comprensione delle cause,almeno più importanti, del fiasco sovietico (cfr 2.3)[...] Il problema, forse, non era grave per i prodotti dì massa, standardizzati, sia per il consumo che per la guerra, dove l'uomo è al quasi totale servizio della macchina e dell'organizzazione, ma diventava enorme e decisivo per i beni di consumo ragionevolmente differenziati, che dovevano reggere il confronto coi prodotti dell'Occidente. L'innalzamento, pur modesto, del livello di vita sovietico, con radio, televisione e pur limitati contatti con l'estero, finiva così coll'evidenziare l'inefficienza e la rigidità di un sistema che credeva di poter risolvere con scienza e tecnica problemi che ormai appartenevano, anche in Russia, al magma bollente della rivoluzione consumistica. E ancora: lo stesso errore che aveva portato ai disastri della pianificazione centralizzata, aveva una coda importante nella sostanziale incomprensione della funzione imprenditoriale. Con l'umanità di cui disponiamo, mi dicevo, se battiamo la via del mercato (e cos'altro possiamo fare?), solo l'esplorazione - interessata, ahimè! - di tutti gli infiniti accozzi possibili dei bisogni umani ci può consentire di attualizzare il potenziale di accrescimento della produttività del lavoro umano, su cui riposano, in definitiva, tutte le nostre speranze di miglioramento. Reagendo al riduzionismo economico egemone, io vedevo la necessità di una «razza» di uomini, gli imprenditori, che, a loro spese e rischio, svolgessero la funzione sociale del rimescolamento dei bisogni - finali e intermedi - diffondendo, al tempo stesso, joie de vivre (per esempio occupazione, reddito, novità) e disagio sociale (per esempio degrado ambientale e sensi dì frustrazione), in proporzioni che possiamo tentar di tenere entro i binari dell'interesse sociale. Fare i conti con la funzione imprenditoriale, leggendola in positivo come motore dello sviluppo, e non come ordigno per spremere un, peraltro indefinibile ormai, plusvalore, è dunque, conclusi, la prima cosa che la sinistra deve fare (cfr. 3.1 e 3-2). Il problema, insomma, non era «fuoriuscire» dal capitalismo (per andare dove?), ma canalizzare la sua potenza espansiva verso risultati umanamente accettabili per tutti gli strati della società. A questa causa - lungamente ridicolizzata dal marxismo - nel 1999, pienamente consapevole della sua natura di conato intellettuale, offro la mia personale proposta (cfr. 3.3), che tenta di salvare una parte della tradizione critica e delle idealità sottese al pensiero socialista, puntando, al tempo stesso, a un'«utopia» realizzabile con agenti umani che somigliano abbastanza a quelli che incontriamo per strada. Per concludere, ripeto, io credo che non sia giusto che la sinistra dirotti l'analisi sociale dalle cause del fallimento degli esperimenti di socialismo, come sta facendo. Al contrario penso proprio che chi non ha abbandonato la speranza in un mondo più giusto debba tornare, con sereno spirito critico, sui luoghi del fallimento, per trarne ogni insegnamento utile per i tentativi di domani. Lo dobbiamo anzitutto a noi stessi, ma anche ai milioni di elettori dei paesi dell'Est che seguitano, imperterriti, a quindici anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino (1989), a esprimere voti che significano, in sostanza, che essi ritengono che si stesse meglio quando si stava peggio. Questo semplice fatto pone delle domande, io credo, che non possono essere liquidate con un'alzata di spalle. | << | < | > | >> |Pagina 833.3. Per un capitalismo dal volto umanoIl problema Il punto di partenza di questa relazione è che per capire le possibilità e i limiti dell'economia di mercato non basta guardare, con gli occhi che la teoria economica attuale ci presta, i fenomeni che ci circondano, ma occorre, con un'audace retromarcia rispetto al modello e al livello di divisione del lavoro scientifico che si sono affermati nel XX secolo, puntare l'attenzione degli studi sociali sul plesso delle relazioni che stanno fra l'evoluzione interna all'uomo e quella esterna. Lo studio della stabilità del sistema capitalistico - di questo si tratta - è infatti, anzitutto, studio della capacità del medesimo di produrre, nel suo funzionamento normale, uomini adatti a esso. Una domanda più generale, che tuttavia non ci porremo, lasciandola, per dir così, sullo sfondo, è se gli uomini che necessitano al funzionamento del capitalismo si possano presumere più felici di quelli coerenti con altre, almeno in astratto concepibili, formule sociali. Collochiamoci, per partire, dentro il teorema di Adam Smith, secondo cui il meccanismo centrale dell'espansione capitalistica è il gioco alterno dell'approfondimento della divisione del lavoro e dell'ampliamento del mercato. Solo se i bisogni, finali e/o strumentali, si modificano nella misura e nel modo congrui, il potenziale di approfondimento della divisione del lavoro può attualizzarsi. Riformulo questa relazione centrale nel modo seguente: il processo materiale di produzione della ricchezza è ostacolato o accelerato dal processo culturale di produzione dell'uomo in società. Si tratta quindi, per promuovere lo sviluppo economico, di mettere a fuoco, e quindi sincronizzare, i due processi. In termini di senso comune, il processo di produzione della ricchezza, che è solo una parte e un mezzo della produzione sociale degli uomini, è chiaramente subordinato a quest'ultima. Sembra logico, infatti, pensare l'evoluzione umana come costruzione di un uomo sempre più «evoluto» (lasciando aperto il problema di che cosa ciò voglia dire) accompagnata, cioè resa possibile, da una congrua produzione di beni materiali. Si dà il caso, tuttavia, che, nella forma storica capitalistica, la produzione dei beni, cioè delle merci - sottoprodotto della ricerca del tornaconto individuale -, finisca coll'assumere, nella dinamica sociale, una posizione talmente centrale e trainante, da suggerire un'inversione logica che metta la produzione dell'uomo nel ruolo di mezzo e la produzione della ricchezza in quello di fine. In questa lettura sono le leggi della produzione e dell'accumulazione capitalistica che condizionano e guidano l'incivilimento. Lo condizionano e lo guidano a un punto tale da legittimare gli economisti ad assumere che gli uomini siano dappertutto, o tendano comunque a diventare, a prescindere dai condizionamenti storici e geografici, proprio quali li richiede quel sistema di produzione. La plastilina umana assumerebbe, insomma, le forme che il capitalismo in marcia richiede. | << | < | > | >> |Pagina 160[...] E questa fase «finale», necessariamente localizzata, del processo sociale di produzione della joie de vivre che decide il «valore», se non i prezzi, di tutte le fasi anteriori. La pietra di paragone di ogni intervento pubblico, locale o sopraordinato, sarebbe quindi, per me, il suo effetto sui mille processi localizzati di estrazione della joie de vivre dalla partecipazione al processo sociale di produzione e dal consumo delle merci che quella medesima partecipazione consente di acquistare. Il modo in cui è organizzato il luogo in cui, perlopiù, viviamo con la nostra famiglia (e la provincia, la regione, lo stato-nazione e il sistema mondiale che lo contiene), la cultura e la moralità che vi dominano (per esempio presenza attiva di istituzioni culturali, prevalenza fra le persone di un clima di fiducia e solidarietà, oppure di opportunismo e invidia) costituiscono il fattore fisso (il «capitale sociale locale» dei sociologi) dal cui utilizzo congiunto col nostro lavoro e coi beni che acquistiamo sul mercato, deriva, appunto, la nostra joie de vivre (cfr. 8.3 e 9.3).Ne discende, mi pare, che le decisioni pubbliche (per esempio i regolamenti locali del traffico) e le azioni private (per esempio il vicino che libera il pitbull che terrorizza i miei bambini) che influenzano più direttamente la nostra joie de vivre sono quelle «locali», combinate ovviamente - e qui c'è un problema che non affronto - con quelle di livello superiore. Questa conclusione, se corretta, anche se parziale, postula un ribaltamento dell'ordine logico del discorso economico. Se il nostro vivere sedimenta qua e là, in tanti sistemi territoriali (città, distretti industriali ecc.): a) i valori e le regole di comportamento, che, appresi nell'età formativa, determinano poi, normalmente, la joie de vivre che ritraiamo dalla nostra partecipazione - come consumatori e come lavoratori - al gioco sociale; b) le infrastrutture materiali e morali che ci consentono di estrarre, dalla nostra partecipazione al processo sociale di produzione e al consumo delle merci, la nostra, se c'è, joie de vivre. | << | < | > | >> |Pagina 306[...] Questo non significa, naturalmente, difendere un insostenibile diritto di ognuno al posto di lavoro dove è nato, o nel mestiere in cui è cresciuto, o in una determinata impresa, ma significa che la politica economica, e più in generale la politica, di un paese deve mediare fra le esigenze della competitivita esterna e l'idea di equità sociale che storicamente si è consolidata in quel paese. E in un paese come l'Italia l'idea di equità sociale che si è stabilita - senza peraltro ostacolare la competitivita del paese, come dimostrano le prestazioni del nostro export - include precisamente quell'insieme di misure a protezione dei soggetti deboli, all'interno della fabbrica, che abbiamo veduto in precedenza. Insomma, per concludere, la competitivita del nostro apparato produttivo, seppur molto importante, è certamente un obiettivo, ma non l'obiettivo.| << | < | > | >> |Pagina 324Che cosa vuol dire essere di sinistra, oggi? Questa è la domanda che, in questa fase di disorientamento pressoché totale, contrappuntato, com'è ovvio, da episodi di camaleontismo, «Il Ponte», insieme e in colloquio con altri organi della sinistra, intende affrontare. Quale ne sarà lo sbocco non è possibile dire oggi. Ciò che io propongo al nuovo «Ponte» è di tornare criticamente su alcune linee di riflessione presenti sulla rivista in questi ultimi anni, da cui si può, forse, far ripartire il discorso nuovo che cerchiamo. Un discorso che serva a disegnare una sinistra diversa dalla destra - o dal centrodestra come pudicamente si preferisce dire - non nelle sfumature di un pensiero unico, ma radicalmente, strutturalmente diversa.
Un punto deve essere chiaro fin dall'inizio, senza rimpianti o riserve
mentali: che un'alternativa valida all'economia di mercato non può essere
cercata nella coppia «proprietà pubblica dei mezzi di produzione -
programmazione economica centralizzata» su cui riposava la mitologia del
socialismo di appena ieri. In modo scoperto nell'area sovietica, ma in modo più
coperto e persino più insidioso nel mondo della socialdemocrazia. Il verdetto
della storia, su questo punto, è, mi pare, chiaro e definitivo. La nuova
soluzione deve essere cercata in qualche forma di utilizzo dell'economia di
mercato che ne minimizzi le disuguaglianze inutili, se non nocive, allo sviluppo
e la fragilità congiunturale. Questi sono i temi, io penso, che gli studiosi
della nuova sinistra debbono porsi e risolvere. Ciò che occorre dunque è una
campagna di studi che approfondisca la critica delle conseguenze sociali del
funzionamento del mercato e che mostri i gravi pericoli che l'anima nera del
sistema di mercato, il capitale finanziario, prepara all'umanità.
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