Copertina
Autore Gian Luigi Beccaria
Titolo Per difesa e per amore
SottotitoloLa lingua italiana oggi
EdizioneGarzanti, Milano, 2006, Saggi , pag. 384, cop.fle., dim. 138x210x33 mm , Isbn 978-88-11-59722-3
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe linguistica , storia sociale , paesi: Italia , scrittura-lettura
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Indice

PREMESSA                                         7
Criteri di trascrizione fonetica                 7
Indice delle abbreviazioni e delle sigle         8

1.  L'ITALIANO OGGI                              9

1.1 L'assedio delle parole                       9
1.2 Linguaggi della persuasione                 11
1.3 Lo stereotipo                               16
1.4 I fiumi esondano                            24
1.5 Abusi d'ufficio                             32
1.6 Eufemismi, parolacce                        46

2.  L'ITALIANO E GLI APPORTI INTERNI            55

2.1 Interfacciamo e implementiamo:
    dallo specialistico al comune               55
2.2 Ancora dal settoriale al comune             62
2.3 Un linguaggio molto pervasivo: il calcio    69
2.4 La lingua dei giovani                       73
2.5 I giornali                                  83
2.6 Citate in pace                              90
2.7 La televisione, la radio                   100
2.8 Linguaggi della politica                   120

3.  GLI APPORTI ESTERNI                        129

3.1 Italianismi e forestierismi                129
3.2 Ma ora parliamo itangliano?                146

4.  IL MOSAICO ITALIA: ANOMALIE, PECULIARITÀ   199

4.1 Viaggiando per la penisola:
    dialetti e varietà regionali               199
4.2 Il «fitto», il «denso» del dialetto
    e i colori perduti                         216
4.3 Scrivere in dialetto                       237

5.  ITALIANO, ANTICO E NUOVO                   259


6.  ANTIDOTI                                   291

6.1 Ma ci sono i libri, la scuola...           291
6.2 ...e le parole della letteratura           298
6.3 Ancora i libri, e il leggere               310
6.4 Come leggere?                              320
6.5 Scrivere                                   342
6.6 Imparare giocando                          349

INDICE DEI NOMI                                361
INDICE DEGLI ARGOMENTI                         371
GLOSSARIO                                      377

 

 

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Pagina 9

1. L'ITALIANO OGGI



1.1 L'assedio delle parole

Un assedio di parole sembra stringerci d'intorno. Parole che dobbiamo capire, o dalle quali talvolta dovremmo anche difenderci. C'è da badare a come parlano gli altri, e a come parliamo noi. Difenderci: è importante. Per riuscire a pensare. La realtà verbale che ci circonda è a tratti insostenibile, una folla di voci, molte familiari, molte sconosciute, enigmatiche, petulanti, violente. Si accampano a caratteri evidenti sui titoli dei giornali che apriamo la mattina, insieme allo spettacolo delle immagini compaiono ingrandite su manifesti pubblicitari, colano dai muri dei palazzi imbrattati, risuonano da radio radioline e televisioni, si rincorrono da nazione a nazione, sciamano nel polipaio di Internet, si rifrangono da satelliti che stanno sulla nostra testa, lontani, giù sulle case che le accolgono nel palmo delle loro parabole aperte. Un mare, un frastuono, tra giornali, riviste, spot pubblicitari, telefonini, scritte sugli autobus e sui treni, avvertimenti, minacce, divieti, esortazioni, intimazioni («Denaro contato. Tessere alla mano», «Chiudere la porta», «Vietato fumare», «Non trattenersi nei passaggi di intercomunicazione»), e cumuli di esortazioni, tonnellate di slogan, per allettare, persuadere a scegliere a votare a comprare. Parole che ci attraggono talvolta, parole che amiamo, e parole che ci irritano, alcune. Parole invadenti. Parole ad alto volume. Parole che ci bombardano, ci seducono, ci respingono. Le subiamo.

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Pagina 20

Calvino aveva ragione a temere il dilagare dell'«antilingua», del «burocratese» come modello trainante che promuove forme neutre e distanti dall'uso corrente. Al burocrate ottemperare pare più appropriato di rispettare, diniego di rifiuto, condizione ostativa di impedimento. È caratteristica dell'uomo di scrivania il buttarsi, quando può, sui termini più complicati. Non si fugge «in automobile» ma «a bordo di», non esistono tipi e problemi ma soltanto tipologie e problematiche. Tra fare ed effettuare o eseguire (nella vetrina di un bar della mia città ci sta scritto «Si eseguono panini»!), tra marcia indietro e retromarcia, tra andare e recarsi, tra arrivare e pervenire, tra lode ed encomio, tra parlare e interloquire la scelta cade regolarmente sulla seconda delle due possibilità. Esondare sembra più appropriato di straripare, farmaco di medicina, terapia più prestigioso di cura, sedativo o analgesico più efficaci di calmante. Il burocrate tende al lessico paludato, sopra le righe. Obliteratrice guarda come a un parente povero la macchinetta per annullare il biglietto.

È il doppio binario appunto sul quale corre la nostra lingua oggi. Da un lato ha largo corso un più libero italiano familiare, dall'altra preme un italiano succubo di un modello ufficiale, un tipo di linguaggio al quale i francesi hanno affibbiato (prima al politichese, quello di sinistra, poi a ogni tipo di linguaggio colmo di luoghi comuni) l'etichetta di langue de bois, 'lingua di legno', calco del russo dubovyj jazuk 'lingua di quercia' alla lettera, formula che in origine bollava il linguaggio convenzionale della burocrazia zarista, per definire poi il gergo dell'apparato comunista sovietico.

Come dicevo, il burocrate (è la regola) ha sempre amato buttarsi sulle formule solenni («è fatto obbligo a chiunque di» invece di «tutti devono»), sul termine che sembri il più dotto possibile, ritenuto tanto più adeguato quanto più distante dall'uso comune. Espressioni non strettamente necessarie alle esigenze della denotatività tecnica sono preferite ad altre più usuali: esercente a negoziante, transitare a passare, esperibile ad attuabile, lesivo a dannoso, avvalersi a servirsi, rinvenire a trovare, usufruire a usare, conferire a dare, denegare a negare. Sembrano parole analgesiche, librate in un cielo immateriale. Noi agli «assi viarii» preferiamo le «strade». Montale non avrebbe potuto scrivere negli Ossi «Io, per me, amo gli assi viarii»! o «le sedi stradali / che riescono agli erbosi fossi...». Eppure il burocrate è convinto che aeromobile sia meglio di aereo, circolazione autoveicolare di circolazione stradale, che il protendimento del Corso, e non il prolungamento, sia indicazione più precisa. Il modello cui si ispira è quell'altezza colta del linguaggio giuridico colmo di latinismi che incutono rispetto (e riescono immediatamente incomprensibili al comune parlante). Un rispetto puramente verbale. Non è forse di una ineluttabilità irreplicabile il modo aeroportuale, così asettico, ma anche così persuasivo, quando ti annuncia il «ritardato arrivo dell'aeromobile in transito»? Ti rassegni, e aspetti. I linguaggi ufficiali sterilizzano l'enunciato, lo fanno avanzare con passo prudente, circospetto, ma perentorio: modi come procedere all'arresto rispetto ad arrestare, procedere a un controllo rispetto a controllare, sembra che facciano riferimento ad atti più ponderati, a decisioni più meditate. Questo lasciar colare la lingua come in stampi prefabbricati, questo adagiarsi nel formulismo, nell'impersonale routine di provata ufficialità, più che alla volontà di essere chiari e precisi, è quasi sempre dovuto all'umana pigrizia.

Un signore di Genova mi ha raccontato di aver perduto il treno alla stazione Termini per un equivoco linguistico tra recapito di viaggio per l'Eurostar e biglietto: gli chiedevano di esibire quel dannato recapito, rispondeva di non averlo, aveva soltanto il biglietto, che per la verità è la stessa cosa... ma intanto nel tergiversare verbale il treno è partito.


La lingua delle istituzioni e dell'amministrazione continua a restare distante dai suoi naturali destinatari, spesso non riesce a raggiungerli. Non è un problema di oggi, si tratta di un male secolare: la troppa distanza dalla parlata comune. Recentemente si è cercato di correre ai ripari. Nel 1993 l'ex ministro Cassese ha fatto redigere un Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche, e l'ha mandato a tutti gli uffici perché lo usassero. Già l'avevano fatto Francia (con L'administration au servite du public, Parigi 1987) e Spagna (con il Manual de estilo del lenguaje administrativo, Ministerio para las administraciones públicas, Madrid 1990, 1991). In seguito il nostro Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri ha pubblicato un Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche (Bologna 1997), a cura di Alfredo Fioritto, volumetto che contiene una raccolta di regole utili e di suggerimenti per aiutare le amministrazioni a comunicare meglio con i cittadini.

«Burocratese» è dizione coniata da giornalisti. È difficilmente definibile. Ha comunque dei caratteri particolari. Alcuni li abbiamo già indicati. Intanto è un linguaggio ridondante («gli appositi cartelli», che non possono che essere appositi, «un elenco debitamente firmato», «prendere buona nota», «la richiesta documentazione»). Tipici i participi assoluti, del tipo atteso +sost. in luogo di «per» («attese le peculiari esigenze del...»), o fatto salvo +sost., nel senso di 'tranne' («fatti salvi i primi dodici mesi...»). Tipici ancora i verbi derivati da sostantivi (il già ottocentesco attergare, disdettare, referenziare, notiziare, addirittura turnare), e altri denominali audaci, come i recenti turnazione, zonizzazione. Abbondano i sostantivi a suffisso zero: bonifico, subentro, storno, condono, esborso, scorporo, sfuso, la lettera di accompagno e non «di accompagnamento»; leggo in Re 11.12.02, nella cronaca di Milano «...come recita la 'determina dirigenziale' dello scorso giovedì 5»: si voleva dire deliberazione o delibera, o decisione. Utilizzo è oggi universalmente esteso dal «burocratico-bancario» («l'utilizzo di un fido») ad altri ambiti e ad altri registri: sento dire correntemente anche dal più raffinato degli studenti di Lettere «L'utilizzo dell'endecasillabo da parte di Leopardi...». E perché non uso, impiego o simili? Ma utilizzo ha sbaragliato ormai i concorrenti. Non stride più come un tempo. Alla mia generazione in realtà suona ancora come elemento estraneo. Come quell' estirpo di piante, vigneti ecc., che i tecnici dell'agricoltura stanno accogliendo: ai loro orecchi estirpazione suona vetusta. Ai miei stride invece il verbo posizionare, ora di largo impiego. Più che dal burocratico, ci giunge da ambiti tecnici. È di uso quasi generale. Eppure a me sembra che si deturpi il capolavoro di Van Eyck ogni volta che qualcuno accenna al barboncino «posizionato» ai piedi dei coniugi Arnolfini. Ma perché non «collocato»? E mi cala di botto l'appetito quando la cameriera ti dice di voler «posizionare», e non più posare, il piatto sul tavolo!

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Ci sono discipline, dicevo, che a differenza della medicina, o della chimica, hanno imboccato la strada che risale al capostipite. Penso a Galileo e al linguaggio della fisica. Galileo inaugurò l'uso di una terminologia semplificata ma sempre accuratamente risemantizzata. Aveva compiuto coraggiose eversioni: abbandono del latino, adozione del volgare, e (altra novità) accanto al trattato, l'adozione del discorso, della lettera, del dialogo. Tutto questo l'aveva portato a popolarizzare di più l'assunto scientifico. Delle due possibilità, la terminologia innovante, ardita, grecizzante, 'oscura', e quella che porta alla scelta di una lingua più trasparente, Galileo sceglie la seconda. E ne è ben consapevole, se scrive (nei Discorsi intorno a due nuove scienze): «chiamo ciambella la superficie che resta, tratto un cerchio minore dal suo concentrico maggiore». Prende un termine d'uso comune e lo tecnicizza (ciambella) per mezzo di una definizione. Idem per nebulosa: sa benissimo che non è fatta di «nebule» di nebbie, ma di ammassi di stelle («drappelli di stelle», scrive). Eppure decide di usare il termine più vulgato, «nebulosa», dopo aver specificato di che si tratta. Non è una deroga alla precisione, non è approssimazione. Tutt'altro. Galileo è attentissimo alla chiarezza della lingua che usa, tende con puntiglio a eliminare le ambiguità. Si pensi ancora a pendolo, o a cannocchiale, che prima chiama cannone oppure occhiale. È vero che, come osserva l'Altieri Biagi, occorre distinguere tra due strati ben distinti, due fasci di realizzazioni diverse, uno alto, speculativo, accademico, l'altro empirico, applicativo, meccanico: una cosa la speculazione meccanica di Galileo, altra la produzione meccanica, i libri di macchine, le scritture di ambito ingegneristico. Per cui riesce sempre difficile caratterizzare in modo onnicomprensivo ogni manifestazione di linguaggio tecnico-scientifico. Comunque sia alcune scienze, nel momento in cui cominciano a sistematizzare il proprio lessico (XVII-XVIII secolo), si sono comportate nel modo che ho appena ricordato a proposito di Galileo. Quando Linneo opta, poniamo, per il termine botanico corolla (1736), lo deriva dal lat. corolla, cioè 'coroncina', e lo rende univoco e specifico riferendolo ai petali, alla loro forma a corona.

La decisione di usare il termine più vulgato va ricondotta anche al fatto che almeno sino al XVIII secolo la distanza tra l'uomo di lettere e lo scienziato non era così grande come oggi. Galileo, Redi, Magalotti, e in seguito Vallisnieri o Spallanzani, erano insieme scienziati e scrittori, che guardavano a un pubblico più vasto, non solo alla ristrettissima cerchia degli specialisti. Il loro linguaggio scientifico non intendeva porsi a troppa distanza dal linguaggio corrente. Ne avrebbe sofferto anche in bellezza ed eleganza. Il bello, l'elegante, non doveva essere né vago né ambiguo, ma l'esattezza doveva correre sicura ai bordi dell'eleganza.

Sull'esempio di Galileo la fisica ha per l'appunto continuato a optare, almeno a livello di superficie, per un lessico 'facile', poco distante dalla comune diffusione: riflessione, relatività, massa, momento, lavoro, coppia, forza, energia, volume ecc. Sono «termini» e non «parole» (per usare una celebre distinzione leopardiana, risalente ad Aristotele, che aveva introdotto hóros 'termine', cioè 'confine' del pensiero che si autodelimita, che pone confini alla indeterminata possibilità del pensiero); termini che per la loro voluta precisione devono essere insostituibili, senza sinonimi, voci comuni, cui è stato tolto l'alone evocativo, espressivo, e ambiguo, polisemico, per conferire loro un significato preciso. Sono voci del linguaggio ordinario usate per descrivere, strumenti per mezzo dei quali si rende possibile una denominazione esatta, che non contiene nozioni vaghe e indefinite perché ha già avuto una definizione preventiva. Il «termine» economizza il pensiero perché ha attribuito un unico e identico significato a «fenomeni differenti per contenuto ma simili per forma». È vero, come diceva Wittgenstein, che metafora e similitudine ravvivano e rendono più fresco il ragionamento. Comunque il linguaggio scientifico tende necessariamente al denotativo, alla reciproca e diretta corrispondenza tra il segno e il designato, a un sistema di segni simile a quelli della matematica o della logica simbolica. Non lascia trasparire emozioni. Qui sta la diversità rispetto al linguaggio comune, il quale ha una sua evidente funzione espressiva, non lo posso limitare alla pura comunicazione, perché possiede un'ampia gamma di «armoniche», trasmette il tono e l'atteggiamento di chi parla e di chi scrive, non si limita soltanto a formulare un discorso, ma tende anche a esercitare un'influenza sull'atteggiamento di chi ascolta, aspira a persuaderlo, e a mutarlo. Il termine scientifico invece, quand'è prelevato dalla lingua comune, ne esce accuramente disseccato, privato di umori, di carica emozionale, di potere connotativo. Giustamente Harald Weinrich scrive che la sobrietà nell'uso delle metafore da parte degli scienziati è propria della loro «etica stilistica». Rare le eccezioni. Sembrerebbe di poterne indicare qualcuna nei campi 'misteriosi' dell'astrofisica, quando si parla, poniamo, di cannibalismo se una galassia ne divora un'altra o una stella divora una compagna, e ci sono stelle cannibali dei propri pianeti. E quando una pulsanting star appartenente a un sistema binario distrugge con un fascio di radiazioni la compagna si parla di pulsar vedova nera. Gli astrofisici usano ancora oggi l'espressione brodo di Heinz. È pur sempre un metaforeggiare, anche se privo di equivoci.

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1.6 Eufemismi, parolacce

Ma il 'parlar facile' non risiede in una supposta naturalezza e spontaneità. «Parla come mangi!» è esortazione priva di senso. Si parla mettendo in atto artifici retorici d'ogni sorta. Si fanno più figure retoriche in un giorno di mercato in piazza che in molti giorni di assemblee accademiche, diceva l'enciclopedista César Du Marsais. Parlare non significa affatto dire pane al pane e vino al vino. Anzi, di solito ci guida il ritegno. Non si possono dire le cose crudamente. Si pensi all'eufemismo. Duilio Poggiolini, un illustre inquisito, chiamava le tangenti dazioni, usando un lecito termine giuridico per ridurre eufemisticamente l'illecito all'atto del «dare», della consegna. L'imprenditore che intende licenziare degli operai, trasferirli o metterli in cassa integrazione, opta per esubero, modo neutro per indicare una eccedenza di manodopera. Per non dire «licenziamento» si dice piano di alleggerimento; per non parlare di «disoccupati» si parla di manodopera disponibile.

L'eufemismo talvolta cela un'informazione, di solito l'attenua, spesso la distorce: operazione di polizia internazionale in luogo di «guerra» sfugge il concetto, con l'intento fuorviante di alleviare la crudezza del significato, così come guerra umanitaria, o bombe intelligenti (non conosciamo in realtà che bombe assassine). I militari parlano in guerra del fuoco amico (calco di friendly fire), o in modo tecnologicamente asettico di inevitabili danni collaterali (calco di collateral dammages) su obiettivi civili.

L'eufemismo elude (la pausa di riflessione dei politici è sempre una «resa dei conti»), attenua la spiacevolezza. Non si chiama col proprio nome, per prudenza verbale, ciò che va evitato, o che si teme, o che è sconveniente. Gli eufemismi vertono di frequente sulla malattia, che si preferisce nominare per via indiretta (un brutto male, un male incurabile). I medici spesso usano acronimi per «non presentare brutalmente al paziente una realtà sgradita, pur senza occultarla» (Ca o K per 'carcinoma'). Si vuole allontanare verbalmente la disgrazia. Cieco, paralitico, sordo sembrano parole troppo crude, e allora sono state sostituite da modi quali non vedente, non deambulante, audioleso. In questi casi si tratta di dizioni ufficiali. Che in realtà piacciono poco: sarebbe preferibile trovare scritto su un autobus «posto riservato a chi non cammina» piuttosto che «posto riservato a minorato non deambulante». Portatore di handicap è certo un eufemismo, ma non so se davvero l'interessato sia soddisfatto di questa denominazione, o se invece non si senta ancor più allontanato. Tant'è che si è talvolta cercato di sostituirlo: il fr. handicapé è in Canada personne exceptionelle. Da noi si è introdotto sul modello inglese disabile, e ora diversamente abile, per evitare quel dis- negativo.


Ammantare di tecnologico-burocratese il negativo è prassi corrente. Capita per esempio col nostro extracomunitario in luogo di «immigrato». Ciò che denominiamo, senza eufemismo, bomba atomica, in inglese è nuclear device, alla lettera 'congegno nucleare'. La realtà viene edulcorata con una neutra verniciatina burocratica. Come successe quando il ministro Siniscalco, a proposito degli eventuali pedaggi da pagare su strade e superstrade, disse che se non direttamente quei pedaggi sarebbero stati pagati ugualmente, e li chiamò shadow toll 'pedaggio ombra' (maniera ermetica ed eufemistica di anglismo, che Gian Antonio Stella, in Cs 6.10.04, battezzò col termine «inglesorum»).

Ci sono settori che più di altri contemplano un lessico altamente eufemistico, per esempio la finanza, e il motivo si capisce: parlare di soldi, di tasse, toccare il portafoglio non piace a nessuno, per cui a stangata si preferisce talvolta manovra, a svalutazione si è preferito un meno doloroso allineamento monetario, o allineamento selettivo delle monete. La parola aumenti spaventa, di conseguenza si è talvolta optato per ritocchi alle tariffe, o variazione, o assestamento dei prezzi, magari lievitazione degli stessi, che trasforma una realtà spiacevole in un processo naturale.

L'eufemismo è nobilitante. Un operatore ecologico preferirà portare questo nome piuttosto di scopino, spazzino o (a Roma) un eventuale monnezzaro. L'eufemismo è una sorta di cortesia. Un vecchio preferisce essere chiamato anziano. L'inglese può servire da eufemismo: meglio over 65 di anziano. I canadesi, premurosi, hanno trasformato la già attenuata troisième âge in l' âge-d'or. Noi, secondo dizione ufficiale, abbiamo mutato la vecchiaia in terza età. Del resto, chi mai si iscriverebbe all'Università della vecchiaia!


Ma torniamo al ritegno, motivo per il quale talvolta vengono rinverdite parole che sembravano tramontate. Sui giornali è recentemente ricomparso lucciola, non nel senso dell'insetto che girovaga di notte, ma lucciola per prostituta di strada. «Noi siam come le lucciole / viviamo nelle tenebre»: la popolare canzonetta di Bixio-Cherubini (1930) la facevano cantare persino le suore nei collegi, ignorando di che si trattasse. E uno dei tanti eufemismi che concerne la sfera del sesso. Per le «lucciole» si usavano reticenze tipo i puntini di sospensione, con solo indicata la lettera iniziale («quella donna, una p...»). Le interdizioni comunque variano da momento a momento storico, contesto sociale e culturale. Suonano ora del tutto antiquati termini generici ed elusivi come una di quelle, che fa la vita, che fa il mestiere, una peripatetica, una donna di facili costumi, una donnina allegra. Come avrebbero potuto i manuali di storia dell'arte parlare di Venere «dal bel sedere» o «dalle belle chiappe»...! Al massimo un toscano avrebbe detto «dalle belle mele». Per Venere si è preferito usare, con un colto eufemismo, una parola greca, Venere callipigia. Meneghello annota tra gli spunti fraseologici del suo paese quel «...dò che non bate sóle», che «designa il luogo del corpo dove batte invece il battipanni usato come domestico strumento di castigo» (Maredé, maredé...).

«La sessualita - scriveva Calvino in un saggio su il sesso e il riso - è un linguaggio in cui quello che non si dice è più importante di quello che si dice». Ci muoviamo difatti in un settore dove si tratta per lo più di nominare l'innominabile, dove decenza impone di non chiamare le cose con il proprio nome. Ho letto, per l'altare della chiesa romana di Sant'Ivo alla Sapienza, che è stato sontuosamente costruito da G.B. Contini nel 1685 coi danari di una multa inflitta dagli studenti a un professore, per una sua «fragilità»!

Il linguaggio erotico è il terreno della metafora più avventurosa. Si veda il gergo giovanile, dove il sesso, l'amoreggiare, sono gli ambiti che producono le voci e le metafore maggiormente colorite. Non è un fenomeno dell'oggi. Anzi, colpisce per contrasto la povertà della varietà contemporanea rispetto alla ricchezza metaforica del passato. Si direbbe che quanto più cresce la libertà linguistica tanto più si impoverisce la necessità di proporre eufemismi, sostituzioni, attenuazioni, metafore. Ogni dizionario delle metafore erotiche e dei sovrasensi equivoci riscontrabili nei nostri testi letterari è uno sterminato catalogo dell'iperbole, dell'esasperazione, un repertorio del comico e dell'ironico, dell'ammiccante, dell'esclusivo e della complicità. Vedi «il nome della cosa», la mona, essa, che si fa oggetto di uso domestico (potta, salvadanaio, culla), strumento musicale (chitarrina, fischiarola, piva, zampogna), e vischio, trappola, tagliola, gondoleta o barca, e metafora religiosa (altare, navicella), la parrocchiana nell'Aretino, la gattaiola nel Belli, boschetto dai tempi più antichi, o fontana, e giardino sin dai biblici testi, orto nel Cantico dei cantici e nei canti popolari, podere nei migliori novellieri, che già recano vigna, o inferno, di boccacciana memoria, e s'impone un bestiario folto (gatta, passera, sorca, topa, calandra, farfalla), nei canti popolari insalata, insalatina («ho mangiato l'insalatina, / poverina, poverina») e fiore o rosa, e poi frutti mangerecci (fica, castagna, prugna, con innumerevoli variazioni), nei novellieri e negli eroicomici i tanti nomi di luogo, Babilonia, Paesi Bassi, Valchiusa, Valleoscura, e nomi di persona, Bernarda, Filippa, Filiberta, e via dicendo.

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Pagina 156

L'Italia non ha una politica linguistica, come ce l'ha per esempio la Francia. Ci è stato ricordato che «il primo intervento dello stato italiano unitario in materia di forestierismi nella lingua nazionale risale al 1874; si trattava di una legge, mossa più che altro da necessità fiscali, che mirava a scoraggiare il ricorso agli esotismi con una tassa, discrezionale, apposta sulle insegne commerciali che ne contenessero». Atteggiamento xenofobo più che una politica linguistica l'Italia manifestò tra il '30 e il '40, negli anni autarchici del fascismo, i cui albori troviamo nel decreto legge dell'11 febbraio 1923 che impose obbligatoriamente una tassa sulle insegne in lingua straniera, destinando i proventi alla Società Dante Alighieri, baluardo dell'italianità. Una legge del '26 vieta di far uso di parole straniere. In quell'anno il presidente del senato Tommaso Tittoni pubblica sulla «Nuova Antologia» (16 agosto 1926) La difesa della lingua italiana, un articolo dove non si rifiuta l'uso dei prestiti che designano giochi di provenienza straniera (tennis, golf, bridge, poker) e si sostiene che, quando non se ne può fare a meno, è meglio accogliere il forestierismo nella sua forma originaria, perché la sua stessa estraneità al nostro sistema lessicale impedirebbe la «corruzione» della lingua nazionale. Ma non tutti la pensavano a quel modo. Difatti, tra gli indiziati di ostracismo c'era bar, e si cercarono surrogati nazionali (con proposte tipo bettolino, barra, barro, quisibeve, taverna potoria, mescita, liquoreria).

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Ma a parte lo sport, la maggior parte delle proposte di rimpiazzi è restata lettera morta. Rampichino (1986), per quanto bella la trovata, non ha attecchito davanti al nome commerciale e internazionale mountain bike (1987), e il pur azzeccato cuscino d'aria (1972) ha perso il confronto con airbag, forte della sua denominazione mondializzata.

Difficile indicare i motivi di una riuscita sostituzione. Per quanto indovinate possano essere, molte proposte non ce la fanno a contrastare l'uso, specie se si tratta di imposizione che proviene dall'alto, da un ministero, da un'accademia, o anche da autorevoli linguisti o scrittori (taglierino in luogo di tailleur proposto da Monelli non attecchì, pareva un piccolo tagliere, né getto in luogo di jet, e Devoto non ce la fece a imporre, come avrebbe voluto, linguistica calcolativa per computazionale, o contenitore per container, cocteil così come suona per cocktail). A intervista, dall'angloamericano interview, già attestato nel 1896, attraverso fr. entrevue, Arlìa cercò di indicare alternative, e propose abboccamento, conferenza, colloquio, ma il forestierismo ebbe la meglio. Inutilmente l'Accademia di Francia ha proposto di sostituire dopage a doping, e, per quanto azzeccato, il suggerimento di prét-à-manger, sul modello di prét-à porter, non ce l'ha fatta a sostituire fast food (al quale però i francesi preferiscono spesso restauration-rapide). Molte riviste hanno pubblicato liste di proscrizione: lunghi elenchi di anglismi da evitare, suggerendo sinonimi francesi. Ma molta parte delle proposte sono rimaste inascoltate: si sarebbe voluto commendataire e non sponsor, caisson e non container, ma la forma inglese è prevalsa. Nel linguaggio quotidiano si usa abitualmente stresser 'angosciare', break 'pausa', zapper 'cambiar canale'. Comunque, rispetto agli altri paesi d'Europa, in generale la Francia si difende meglio. Si è adottato cadreur e non cameraman, moniteur e non monitor, calculateur (dall'ingl. calculator, come it. calcolatore) e non computer, e ora ordinateur, preferito a calculateur o calculatrice, che designano macchine meno perfezionate. In francese si dice sous-répertoire invece di subdirectory, e accanto a software è in uso anche logiciel o programmerie, così come in spagnolo a software si affianca programería, e il nostro file è archivo.

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Noi invece sembriamo dei provinciali. Abbiamo venduto l'anima. Finiamo talvolta di essere più inglesi degli inglesi. Citavo il caso delle insegne cittadine con quegli inutili genitivi sassoni, del tipo Jeans' West, che dà il senso non voluto di 'West dei jeans' e non già, come si vorrebbe, 'jeans del West'. Usiamo falsi anglismi che nessun inglese si sognerebbe di usare. Soltanto noi abbiamo autogrill, autostop, camper, o spider. Cargo (attestato dal 1919) in italiano è abbreviazione di cargo boat, cargo plane ('nave' o 'aereo da carico'), mentre in inglese significa soltanto e sempre il carico trasportato. Sono pseudoanglismi beauty-case o beauty, slow food, footing (in inglese significa soltanto 'basamento, fondamento'; si usa invece jogging). Usiamo montgomery 'cappotto', dagli anni Cinquanta, ma in ingl. è duffel coat: il passaggio al nome comune del nome proprio di un generale inglese si è compiuto soltanto da noi, non in Inghilterra. Uno pseudoanglismo è tight, che gli inglesi chiamano morning coat; e body vuol dire soltanto 'corpo, cadavere' e non una guaina attillata, slip soltanto 'sottoveste', o qualsiasi indumento che si possa indossare con facilità, trench (da trench coat) significa soltanto 'trincea' e non impermeabile con cintura, smoking è in Gran Bretagna dinner jacket, in America tuxedo, tuxedo coat, o tuxedo jacket, golf uno sport e non un capo di abbigliamento, a Londra non si può ordinare un toast o un baby whisky, né cercare nei negozi l'ampio giaccone che denominammo eskimo (in inglese significa soltanto 'eschimese'), i fighters non sono affatto i tifosi violenti degli stadi, il replay calcistico nel senso di 'moviola' è soltanto italiano, e nessun inglese o americano capirebbe immediatamente che il personal è un computer; quelli che noi chiamiamo gli hackers in inglese sono detti i crackers, non esiste il fotoreporter (c'è solo reporter 'giornalista', oppure photographer), e optional è soltanto aggettivo, né si può dire «i big», sostantivo, e relax è soltanto verbo, e non si può dire un thrilling, né fare di dancing un sostantivo, e non dà senso andare in tilt («in tilt il traffico aereo»), e flipper è soltanto una parte, l'aletta che spinge la pallina, non il tutto, il gioco o la macchina. Da noi tutto è diventato top: oltre a 'indumento femminile', significa anche 'indossatrice' («noi top», noi modelle), ogni segreto è top, e le nostre strade sono piene di insegne come top line, top bar ecc.; ma in inglese top significa 'vetta, cima'. A scuola (ce lo ricorda ancora Giorgio Calcagno) imparavamo tra le prime cose la differenza tra race horse 'cavallo da corsa' e horse race 'corsa di cavalli'. Perché allora dobbiamo confondere le pensioni minime con le pensioni per i bambini (babypensioni), e il bambino che uccide con l'uccisore di bambini, tant'è che diciamo baby killer quel che dovrebbe essere in realtà un killer baby? Ma baby è una parola che in Italia è diventata un prefissoide di serie, la mettiamo in ogni salsa (sui giornali babyboom, babygang, babysquillo, babyboss): addirittura il pollo alla diavola, che in piemontese dicevamo al babi, perché 'spaccato' e appiattito a mo' di rospo, è diventato talvolta, nel menu di alcuni ristoranti torinesi, un pollo al baby. Stiamo esagerando. Siamo più inglesi degli inglesi.

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In linea generale, va ribadito che ogni posizione rigorosamente puristica è linguisticamente e culturalmente improduttiva. Il forestierismo per lo più arricchisce, non impoverisce, né inquina. Sono ricorrenti in ogni storia linguistica le manifestazioni di insofferenza verso il 'prestito' straniero: il purista ha sempre considerato il neologismo, in specie il forestiero, inelegante, brutto, materia estranea da evitare. Anche in Inghilterra, prima che l'inglese diventasse la lingua più aperta alle influenze esterne, si temevano i contatti (lamentava con accorati accenti la corruzione della propria lingua Paul Greaves nell'introduzione alla Grammatica Anglicana, 1594). Le lingue in realtà crescono sporcandosi con le parole che prendono a prestito dalle altre. Non è possibile isolare un momento in cui l'italiano sia stato 'puro'. Cosa vuol dire puro? Esser misti è un pregio non un difetto. Giardino è francese, umorismo pure (giunto attraverso l'inglese), ragazzo arabo, cultura tedesco, costituzione inglese. L'inglese è una lingua straordinariamente ricca proprio perché ha inglobato prestiti in quantità da lingue di tutto il mondo. Parallelamente ha subìto una profonda ibridazione «annacquando i propri originari connotati germanici in un prolungato bagno romanzo», e non si è affatto infiacchito, anzi l'intensa ibridazione «ha molto contribuito a fare di questa lingua lo straordinario strumento di conquista che oggi è divenuto». L'inglese non risulta affatto 'lontano' dalle lingue romanze, la base latina è larga. Sono innumerevoli gli apporti del latino. Ricordo alla svelta street da strata, wall 'muro' da vallum 'palizzata', cheese da caseus, wine da vinum, cup da cuppa 'grande vaso di legno', pillow da pulvinus, kitchen da coquina, dish 'piatto, vassoio' da discus, per il costume romano di portare apparecchiate, già servite, le vivande davanti al convitato e portar via il vassoio con gli avanzi a fine pasto; cook 'cuoco' (ted. Koch) e to cook 'cuocere' (ted. Kochen) sono prestiti dal lat. volg. cocus, lat. coquus, coquere. E tra i toponimi, numerosi sono gli ibridi germano-latini, a cominciare dall'aeroporto di Gatwick, composto di gat (da goat 'capra') e wick, da vicus 'villaggio' o 'fattoria', come in Cowick, Chiswick, Honeywick, Bewick, Fenwick. Poi, con la rinascenza l'inglese attinge direttamente (o indirettamente tramite il francese) dal latino. Ed è pure colmo di greco, quel greco che già secoli addietro aveva aiutato il latino a diventare una lingua universale supplendo (soprattutto nel campo della filosofia) alla egestas patrii sermonis. Dopo aver saccheggiato gran messe di vocaboli dalle lingue classiche e neolatine, l'inglese è così risultato particolarmente vicino agli orecchi europei. Non ci si presenta del tutto 'straniero'. Si pensi che il 27% del vocabolario inglese è di origine francese. A chi parla lingue romanze, l'inglese pare effettivamente più 'trasparente' del tedesco.


Leopardi nello Zibaldone ammoniva che rifiutare parole forestiere, quelle 'necessarie' e insostituibili, significa volersi isolare dal mondo: «Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua nuova significazione (per forestiera o barbara ch'ella sia), quando la nostra lingua non abbia l'equivalente, o non l'abbia così precisa, e ricevuta in quel proprio e determinato senso; non è altro, e non può esser meno che rinunziare o sbandire, e trattar da barbara e illecita una nuova idea e un nuovo concetto dello spirito umano». Non si potrebbe dir meglio. E prima di lui Machiavelli nel Discorso intorno alla nostra lingua scriveva: «Non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza aver accattato da altri».

La lingua è un bene comune, un bene sociale e culturale, ma non è come l'ambiente, che va protetto perché non vi si scarichino immondezze inquinanti, non è il monumento da tenere sotto vetro, come l'Ara Pacis Augustae, perché all'aria si deteriora. Non vive nel museo. Vive per le strade, nelle accademie e nei porti di mare, nei libri e nelle canzoni, nel mercato rionale e nel congresso scientifico. La sua 'babele' rispecchia la comunità composita di cui è espressione. Tutte le grandi lingue sono miste. Le lingue che hanno un più alto livello civile e culturale sono proprio quelle che possiedono un vocabolario molto composito, una complessità raggiunta attraverso i contatti più diversi con altri popoli e altre lingue. La forza dell'inglese, lingua germanica, sta appunto come dicevo nell'aver incorporato latinismi, grecismi, francesismi in gran numero. Non c'è purismo in Gran Bretagna. Tantomeno negli Stati Uniti. Non c'è neppure un'Accademia, come in Spagna, in Francia; o come la nostra Accademia della Crusca. Osservava già Machiavelli nel citato Discorso: «le lingue non possono essere semplici, ma conviene che sieno miste con altre lingue». Se poi la mistura avviene incorporando anche nella forma i forestierismi, allora ciò è segno di forza, non di cedimento. Continuava Machiavelli: «Ma quella lingua si chiama d'una patria, la quale convertisce i vocaboli ch'ella ha accattati da altri nell'uso suo, et è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro: perché quello ch'ella reca da altri lo tira a sé in modo che par suo».

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6.3 Ancora i libri, e il leggere

Oggi la difficoltà sta nel saper scegliere. Leggere, etimologicamente, vuol dire per l'appunto 'scegliere'. Viene dal latino legere, che significava 'raccogliere', indi 'riunire', infine 'scegliere' (significato che si potrebbe spiegare con un legere oculis, vale a dire 'raccogliere [le lettere] con gli occhi'). Dunque leggere da «scegliere», scegliere tra i libri, che sono tantissimi. Le librerie ne traboccano.

Ma non bisogna leggere qualsiasi libro. Sarebbe meglio leggere innanzitutto i grandi libri, quelli che non è possibile scorrere frettolosamente, tanto per leggere. Bisogna «sapersi controllare», suggeriva Virginia Woolf in un saggio del 1926, Come si legge un libro?: «Non dobbiamo sprecare le nostre energie per incapacità o ignoranza; e spruzzare acqua per tutta la casa per innaffiare un mazzo di rose; dobbiamo impiegarle con precisione e determinazione, sui libri giusti». E quali sono i libri giusti? Ne abbiamo a disposizione una quantità enorme. Da dove cominciare? Riavvolgersi nel culto dei «classici»?

Flaubert suggeriva di leggere non come fanno i bambini, solo per divertimento, o come fanno gli ambiziosi, solo per far bella figura, oltre che per istruirsi, ma di «leggere per vivere», se è vero che i libri offrono una risposta alle domande che ci germogliano dentro. La letteratura non dovrebbe ridursi a svolgere funzioni oppiacee, di puro stimolante delle emozioni: meglio, come diceva Nietzsche, il «grande stile». La letteratura di basso profilo, i libri di poco conto, e che oggi sono in vertiginoso aumento, anche se non li si legge, poco importa. Invece, chi non legge libri di peso è destinato ad avere un dialogo limitato alle sole occasioni della sua vita: tutto appiattito sul suo presente, si priverà di quegli incontri comunicativi importanti che i libri consentono con momenti e spazi lontani, e tempi diversi dai nostri. Grazie ai libri riusciamo a vivere non esclusivamente l'immediato presente. Non restiamo imprigionati nelle sue maglie. Il libro è il pensiero vivente di una persona, separata da noi dallo spazio del tempo, e ci parla. Alla memoria personale aggiungiamo la memoria collettiva, e l'intrico delle due «allunga la nostra vita, sia pure all'indietro [...] in qualche modo nel corso della nostra vita noi possiamo rabbrividire con Napoleone per un levarsi improvviso del vento dell'Atlantico su sant'Elena, gioire con Enrico IV per la vittoria di Azincourt, soffrire con Cesare per il tradimento di Bruto». L'edificio che raccoglie i libri, una biblioteca, è veramente il luogo dove i morti aprono gli occhi ai vivi (ce lo ha ricordato Gianfranco Ravasi in un articolo su «Avvenire» del 16 febbr. 2005, citazione di una frase incisa sul frontone della biblioteca pubblica di Murcia). Una biblioteca è la vittoria della memoria sull'oblio. Harold Bloom osserva che l'io interiore è frutto della memoria: noi pensiamo perché impariamo a ricordare le migliori letture che abbiamo fatto. Agostino è stato il primo a insegnarci che i libri, da soli, nutrono il pensiero, la memoria e la loro fitta rete di interazioni nella vita della nostra mente: «La sola lettura non basterà a salvarci o a renderci saggi, ma senza di essa veniamo a cadere in quella forma di vita-nella-morte che è l'odierno abbattimento del livello culturale, in cui l'America - come in tutte le altre cose - è al primo posto nel mondo».

Gli uomini passano, i monumenti cadono in rovina, ma tutto ciò che l'umanità ha pensato, concretizzato, fantasticato, sentito e intuito sta nei libri. Nei libri dei filosofi, nei saggi degli storici, ma anche nei componimenti poetici o libri di narrativa, che ci fanno percepire il mondo presente e ricostruire il passato. Da essi riceviamo il dono dell'ubiquità. La loro finzione narrativa è simulazione potente di vita vera e di emozioni. Grande consolazione è il sapere che tutto sta nei libri, nella loro presenza fisica. «Noi non sappiamo - scrive Andrea Zanzotto - se esiste un paradiso, ma sappiamo che esiste il Paradiso scritto da Dante, e quello c'è di sicuro: è là per tutti, basta che si abbia l'amorosa e paziente volontà di entrarci». È vero che «il verbo leggere non sopporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni verbi: il verbo amare, il verbo sognare». Non puoi dire ama! sogna! leggi! Ma quale grande risultato se si riuscisse a scuola a inculcare quanto a noi pare ovvio, e i più giovani ancora non sanno, l'idea cioè che non occorre loro fare tutte le esperienze per sentirsi pienamente realizzati! Una persona deve fare, nella sua breve vita, soltanto le esperienze che si sente di fare, ma soprattutto ha da tenere in conto che le migliaia di altre sono tutte descritte nei libri, e così a fondo, a tutto tondo... basta leggerle!

[...]

Quel rito descritto nella lettera di Machiavelli a Francesco Vettori (10 dicembre 1513), dove parla della sua giornata di litigi e di gioco: «Quivi è l'hoste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a trichetrach, et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano». Ma poi la sera, arriva il mondo 'altro' della lettura: «Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito condecentemente, entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte».

[...]

I libri: «Per loro tramite - lo scrive Olof Lagercrantz in un aureo suo volumetto -, la mia vita subì una dilatazione. Essi mi facevano vedere ciò che io non ero in grado di vedere da solo, e incontrare personaggi che vivevano più intensamente e drammaticamente di quanto facessi io. Erano creature di un mondo diverso e più elevato. Si prendevano cura di me e mi permettevano di stare presso di loro e di essere attivo, ricco, povero, buono e malvagio come loro». Coi libri capita come con gli amici: un'amicizia, o un amore, spesso ti sorprende. Un libro importante che incontri ti deve stordire come un pugno nello stomaco, non te lo devi aspettare. Si apre da quel momento la valorizzazione di uno spazio privato, il tempo lento del leggere in spazi sottratti alla giornata (Daniel Pennac ricorda la sua lettura di Guerra e pace «che si svolse di notte, alla luce di una lampada tascabile, e sotto le coperte tirate su come una tenda in mezzo a un dormitorio di cinquanta sognatori, russatori e sussultatori»). Il testo diventa occasione e luogo di un incontro con temi attesi che lo scrittore sembra aver raccolto e portato alla luce per te, dopo singolare incubazione. Postillava Montale: «La poesia è l'incontro di una possibilità storicamente giunta a portata di mano con l'uomo nato per farla sua». Incontro che è un riconoscimento attraverso indizi, impressioni, reminiscenze, che ti orientano, e innescano una sintonizzazione (gli «inneschi di senso»)" che non ci abbandona più, perché il «classico» farà da quel momento parte della nostra biblioteca come ha fatto parte della nostra vita, dopo quell'esercizio di modestia e prova di riconoscimento di sé che è stata la lettura. Da quel momento abiterà l'invisibile mondo della nostra libertà, che nella sostanza è popolata soltanto dai libri e dalle persone care. La biblioteca personale riempie la vita e la memoria di chi ha letto.

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6.4 Come leggere?


[...]


Ora il panorama è cambiato, non solo con l'arrivo dei testi in rete, modificabili, appesi a uno schermo, totalmente labili. Vedi soltanto come è cambiata la narrativa. Il romanzo ora si lascia scrivere, l'autore sembra non voler dominare più, come in passato faceva, la realtà ma esserne dominato, ogni racconto, ogni fenomeno sociale si lasciano adeguatamente rappresentare soltanto dalla loro propria lingua, per cui l'autore come faber sembra stia per diventare una figura d'altri tempi. La stessa comunicazione, che ci sta abituando a un numero limitatissimo di parole base, che ama cibarsi di «residui», di frasi fatte, ci sta abituando al luogo comune, che disturba sempre di meno. Anche nella narrativa il rilievo dello stile e il lavoro sullo stile non costituisce più la preoccupazione prima. È diventato accettabile un più neutro «grado zero», o il flusso che simula l'oralità, come viene viene. Il contagio dello stereotipo dilaga. Prevale l'indifferenziato, l'indistinzione, il decostruito. Ciò segna il tramonto del faber che dicevo, e la conseguente indifferenza per la durata, tutti evidentissimi aspetti dell'oggi, che si accompagnano intanto con l'esperienza sempre più accelerata della velocità, che distrae da se stessi, dall'indugiare con attenzione e lentezza. «Il culto della velocità - scriveva Cocteau - sopprime l'artigianato a tal punto che la pazienza e l'abilità manuale, indispensabili per creare il lusso, non si trovano più in quelli che adattano dei congegni per quest'uso. Leggere fu un artigianato. Cade in disuso. Si ha fretta. Si saltano le righe. Si cerca la fine della storia. È dunque normale che la fretta preferisca il ricordo dei fatti che permisero le opere, alle opere stesse [...]. Anche per questo capita che si preferisca la conversazione ai testi perché la si può ascoltare con orecchio distratto e non richiede alcuno sforzo».

La velocità: ora tutto chiede di essere consumato rapidamente. Anche il libro. La stessa sua memorizzazione e archiviazione globale, l'incameramento in memoria artificiale, porta a velocizzarlo all'estremo. Sono velocizzate le forme di contatto, di reperimento, di interrogazione, di fruizione dei dati. Ora si aprono orizzonti di perfetta simultaneità del sapere, abbiamo a disposizione una biblioteca immensa. Dentro di essa è più arduo ritrovare i libri esemplari che noi dotavamo di un qualche senso definitivo. Comunque, reti e autostrade elettroniche ci portano a casa ciò che vogliamo. Meno emozioni, ma informazioni tante: le citazioni esemplari, gli intrecci intertestuali, i modelli narrativi, le figure retoriche, le forme metriche e stilistiche che ci servono; c'è meno bisogno di percorrere con curiosa lentezza le pagine dei libri, i quali, scomposti e misurati, dopo la cura informatica non hanno più bisogno di essere 'letti'. Basta un clic e hai a disposizione l'intera Bibliotheca Teubneriana Latina, ora in edizione elettronica: in un solo cd-rom, duecento autori, più di cinquecento opere. Per l'italianistica, ora il laureando frettoloso ha già imparato a 'scaricare' dalla LIZ i nostri classici, senza bisogno più di indugiare a leggerli. Il che gli fa spesso dimenticare che un testo si possiede soltanto attraverso una lettura integrale e non parcellizzata in concordanze. Certo, la LIZ è una benedizione, di una comodità singolare, agevola le ricerche sulla lingua italiana, e con rapidità sorprendente. Nel piccolo argenteo cd della LIZ 4 trovo racchiuse 1000 opere della nostra letteratura, dalle origini a Pirandello e D'Annunzio (a quando il Novecento intero?). Posso soddisfare ogni curiosità. Mi trovo squadernata davanti agli occhi una enorme biblioteca digitale.

[...]

Dicevo che occorre assolutamente una strategia di ricerca da parte di chi interroga il mezzo. Il ricercatore deve prendere l'avvio da acquisizioni e ipotesi già presenti nella sua mente, perché quel formidabile mezzo «per dare il meglio di sé richiede un interlocutore che unisca sapere e creatività a capacità di formalizzazione», altrimenti la grande potenza del computer, la stupenda possibilità di interrogazione che ci è permessa, si risolverà alla fine in un ammasso informe di dati tra i quali annegherà il pensier nostro, e non riusciremo a districarci da quel mare di materiali, che senza una qualche illuminazione di intelligenza critica e di cultura bruti rimarranno. Illuminazione, cultura storico-estetica che, ancora, ti offrono le scienze umanistiche, ti porgono i libri, ti dà la lettura meditata e lenta. Il mito dell'informatica, accettato senza analisi critica, questo accesso illimitato all'informazione priva della saggezza per interpretarla, porta a pensare che la massa dei dati sia equivalente alla ricostruzione critica. Abbaglio enorme.

Occorre distinguere nettamente tra disponibilità e uso. I dati a disposizione non ci danno, da soli, il dominio del testo, che soltanto raggiungiamo dopo la lettura attenta e continuata delle pagine nella loro integrità. Il dato, quello che si riceve in rete, va contestualizzato, reinterpretato, usato dentro il testo.

[...]

Detto questo, che esistano criteri per definire buona o cattiva una lettura è bene non credere. Addirittura, scriveva Calvino in un passo celebre di Se una notte d'inverno un viaggiatore, cap. XI, dedicato ai vari tipi di lettori, c'è chi parte per la tangente, dopo poche righe è come se non ce la facesse a seguire le parole dell'autore, si stacca dal testo, e, captato un pensiero proposto nella pagina che ha sott'occhi, una domanda, un interrogativo, un'immagine, il suo pensiero principia a rimbalzare di immagine in immagine, in un percorso fantasioso, che ha pure il suo bello, ma che dimentica il testo, il libro che ha tra le mani, da esso si allontana, lo perde di vista. Il testo non è che uno stimolo, presto dimenticato, per le proprie fantasie. C'è invece chi legge in modo frammentario e discontinuo. L'oggetto della lettura si sbriciola in un materiale puntiforme e pulviscolare, e nella dilagante distesa della scrittura quel lettore si ferma su dei segmenti minimi, su qualche accostamento di parole, su qualche metafora curiosa o ardita, su peculiarità lessicali e sintattiche che gli si rivelano di una densità di significato molto concentrata e gli paiono evidenziare, riassumere la bravura, l'originalità dello scrittore.

Un altro modo di leggere è rileggere («Ancora, ancora', diceva il bambino che eravamo un tempo. Le nostre riletture di adulti nascono dallo stesso desiderio: incantarci di una permanenza e trovarla ogni volta così ricca di nuovi incanti»). Ogni volta il libro che già si conosce è un libro nuovo. E questo succede perché il lettore è una persona che lungo gli anni ha continuato a cambiare, e ogni volta che rilegge vede cose nuove che prima non s'era accorto che ci fossero. Chi ha riletto il Don Chisciotte o I promessi sposi può anche non aver compiuto nella seconda lettura un progresso rispetto alla prima, né penetrato di più nello spirito del testo, ma certamente l'emozione precedente non si è ripetuta più allo stesso modo, sul medesimo passo, è cambiato il punto di vista con cui ha affrontato la rilettura.

C'è poi il lettore per il quale la lettura è un arricchimento, un'aggiunta a quel libro complessivo e unitario che è la somma delle sue letture. La nuova lettura entra in rapporto con le altre, diventa un corollario, una glossa, o uno sviluppo o una confutazione. E c'è poi un leggere come didattica, come 'operazione doverosa', come pratica dunque dell'insegnamento. E ancora, un leggere come «attività», per sviluppare la propria intelligenza critica. E c'è infine un leggere come scienza, con tutto il suo rigore e i suoi metodi. Da un modo abbandonato e innocente di leggere, che comporta un suo evidente «carattere euforico», quasi «attività voluttuaria», «una delle grandi vie d'accesso all'Immaginario», a un modo controllato, professionale di leggere, freddo e distaccato. Ma sul piano della critica professionale ora stanno tornando in auge letture meno 'scientifiche', più libere, che dopo brevi indugi sull'opera rinviano immediatamente a quanto sta 'intorno' all'opera stessa. E qui, soltanto qui, dovrei manifestare le mie perplessità. Perché l'elogio in queste pagine del tempo lento e attento ha come scopo non tanto sotteso quello di professare una strenua fede per la filologia, per la lettera del testo, oggetto che va interrogato, meditato in modo autonomo. Una buona lettura, così come una buona analisi, ha da tenere sempre ben fermo il primato del testo, custodito e osservato con scrupolo, ponendo attenzione agli aspetti e al manifestarsi della lingua. Se lo scrittore è un paradigma del linguaggio figurale, della retorica, di quella specifica tecnica di cui è riconosciuto come privilegiato titolare, il commento filologico-linguistico di un testo è indispensabile, 'irrinunciabile', è quello che ferma con sicurezza un'impronta formale, un gesto stilistico memorabile e peculiare, collegato a sua volta ad altri analoghi di contemporanei e di classici del passato, così da stendere nodo a nodo una rete di lettura chiusa attorno all'oggetto che si commenta. Un commento adeguato all'oggetto non deve puntare sul 'fuori', direttamente, ma è meglio che esplori il 'dentro' del testo, e proprio in grazia di questa marcia centripeta riesce talvolta ad aprire sul fuori dei colpi d'occhio inattesi. Si tratta qui di dibattito già largamente approfondito nei decenni addietro. Non voglio perciò riprendere la discussione se la peculiarità di uno scrittore sia meglio comprensibile, passibile di descrizione, e valutabile, a seconda se si guarda al testo o all'extratesto. Negare l'extratesto significa rinunciare a raggiungere la pienezza del significare, sorvolare sul testo significa rinunciare a conoscere.

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