Autore Gian Luigi Beccaria
Titolo Il pozzo e l'ago
SottotitoloIntorno al mestiere di scrivere
EdizioneEinaudi, Torino, 2019 , pag. 160, cop.fle., dim. 13,5x20,7x1,3 cm , Isbn 978-88-06-24308-1
LettoreMargherita Cena, 2020
Classe critica letteraria , storia letteraria , teoria letteraria , scrittura-lettura












 

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Indice


VII Premessa


    Il pozzo e l'ago

  3 I.    Perché scrivere

  8 II.   Leggere e scrivere

 27 III.  Il lavorio sul testo

 42 IV.   Autonomie del signficante

 59 V.    Si sa sempre ciò che la mano scrive?

 70 VI.   Sulle spalle degli antecessori

 87 VII.  La continuità e la durata

105 VIII. Respiro del vero, o allontanamento?

118 IX.   Che viaggio già promesso ora ci aspetta?

141 X.    Ancora sull'"ardire", e l'energia, del mestiere di scrivere


131 Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Premessa


Ci sono ragioni imperiose che spingono a scrivere? Perché si scrive e per chi? Sono le domande di sempre. Sartre le pose in un suo libro famoso, e sono state di tanto in tanto riprese. Per chi si scrive... Non è detto che allo scrittore interessi in prima istanza rivolgersi a qualcuno o farsi capire dai piú. Anzi, qualche autore trova «inebriante» che la stragrande maggioranza rimanga estranea ai testi che lui produce (e questo «conferisce una certa libertà», confessava in una recente intervista Philip Roth. E in altra occasione: «Quando lavoro non ho in mente un particolare gruppo di persone con cui voglio comunicare»). La preoccupazione principale dello scrittore resta piuttosto il come scrivere. Non basta avere un foglio bianco, una biro, una tastiera, e cominciare. Il mestiere di scrivere è arduo, per di più faticoso. Dice Pamuk: «Il segreto dello scrittore non sta nell'ispirazione, che arriva da fonti ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza. "Scavare un pozzo con un ago"! è un bel modo di dire turco che descrive il lavoro dello scrittore». Può sembrare lieve soltanto per coloro che scrivono con eccessiva disinvoltura, come se non avessero padri letterari. È vero che oggi sono altre le fonti, enormemente espanse, non ristrette alle libresche. Sia in prosa, sia in poesia, è caduta quell'idea durata secoli secondo la quale sembrava che ci fossero piú cose dentro ai libri che fuori. Lo scrittore presupponeva o istituiva su quei testi la "competenza" del proprio lettore, costruiva il suo destinatario. Ciò è stato assolutamente vero e pacifico per tanti secoli. E non lo dico con un senso della "perdita", come se restassi attaccato all'idea che il processo di formazione di un testo debba obbligatoriamente prevedere l'assorbimento di temi e di modi del passato da assimilare e poi trasformare. Tanti terremoti e tante variazioni e distacchi dalla tradizione sono avvenuti, soprattutto nel secolo scorso. Comunque sia, la condizione di "leggibilità" del testo letterario si è basata per secoli su continuità e memoria: una memoria (dell'autore e del lettore) decisiva, che ha governato l' interpretazione, e senza quell'alludere, quel riferimento volontario dell'autore, la lettura di un testo restava incompleta, priva di risonanza. Poi, nel secolo scorso con maggiore rilievo, è avvenuto un cambiamento, e occorrerebbe spiegarlo a fondo, allargando l'indagine su uno spazio globale, non soltanto eurocentrico... uno spazio oggi enorme. Mi sono avviato perciò con titubanza a trattare del "mestiere di scrivere", costretto a parlare di pochi autori, soltanto di quelli che conosco. E mi sono mosso in modo rapsodico piú che sistematico. Non ho difatti tentato di sistemare "storicamente" alcunché, né scritto un ordinato "manuale" sulla composizione letteraria. Ho ceduto invece, piú liberamente, al piacere del riprendere riflessioni e memoria di mie personali letture. In fondo, di manuali di scrittura ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili.

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Capitolo primo

Perché scrivere?


Ho già detto altrove ciò che pensavo sull'"altrui mestiere", a favore di chi non resta per la vita autore di un solo genere, ma decide a un certo punto di cimentarsi con qualche altra forma collaterale. A me piacerebbe, perché no, potermi cimentare in un'opera di fantasia: romanzo, raccolta di versi. Ma non ne sono mai stato capace, e so che me ne asterrò per l'avvenire. Mi sono sempre mosso con maggiore agio tra le storie di parole, se dietro ad esse si cela qualche vicenda storico-culturale. Ambito questo, però, dove non c'è spazio per l'irruzione dell'immaginario e dell'invenzione. Comunque, continuo a scrivere, anche se, come tanti, mi chiedo sempre di piú il perché. Finisce col diventare una specie di vizio. Con lo scrivere bisogna sempre prendere speciali precauzioni. È un male contagioso. Porsi davanti a una pagina bianca e cominciare a riempirla «è una faccenda molto strana», annotava Maria Corti nelle Pietre verbali. Ma «d'altronde ti pare che il mondo esista se tu ne scrivi». E tu stesso esisti, se scrivi: è la «consapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria scrittura». Citavo prima Maria Corti, alla quale, credo, doveva essere venuto in mente Pessoa quando diceva che si scrive per simulare la verità ed evitare cosí di essere nulla, opinione condivisa da tanti, da Pennac ad esempio, quando in Come un romanzo annota: «L'uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale». Credo che sia anche questione di solitudine, come lo è del resto in certi casi la lettura. Ancora Pennac osservava che l'uomo «vive in gruppo perché gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun'altra, ma che nessun'altra potrebbe sostituire».

Scrivere pagine letterarie non è come comporre un manuale o altro prodotto strumentale. Non equivale a comporre un compendio di verità e d'istruzioni, un "utensile". Si entra in un ambito espressivo che va trattato con certi riguardi e distinguo, posto che la letteratura è diletto, confessione, indagine che gareggia con la filosofia, la storia, le scienze («essendo un romanziere, mi considero superiore al santo, allo scienziato, al filosofo e al poeta - che sono tutti grandi esperti di parti diverse dell'uomo vivente, ma che non colgono mai l'intero» diceva Lawrence), forma di conoscenza che apre nuove prospettive sul reale, finestra aperta sul mondo, ma anche finzione che cattura la realtà attraverso una rappresentazione discorsiva, è un io che racconta se stesso, narrazione di ricordi desideri e pensieri, evocazione o sogno di ciò che si sarebbe voluto fare o dire, di incubi e paure, turbamenti, fantasticazioni, un porre domande senza risposte. Spesso si scrive per confessare le proprie crisi intime, per cercare di risolverle (si pensi a Kafka). O ci si pone «al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla»; si trae da una debolezza il proprio sfarzo stilistico, si trova nell'ossessione la fonte dell'ispirazione stessa: abbiamo a che fare in questi casi con scrittori che quando scrivono «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano», di qui stravolgimenti, l'eccitazione verbale, gli avvitamenti retorici, le torsioni espressive, l'ossessione che si fa forma. Lo annotava Michele Mari citando Céline, Kafka, Borges, Conrad, Canetti, Manganelli, Melville, Landolfi e il loro linguaggio "marcato" e in qualche caso inattuale (l'esatto rovescio di uno Stevenson, poniamo, che «è la voce, è lo spirito di affabulazione fatto persona e poi penna»); e citava naturalmente Gadda: «questo grande introverso ci rapisce e ci spiazza in continuazione perché ogni sua parola è il trionfo di un'istrionica estroversione».

Tutto meno che diletto è la letteratura. I grandi narratori (tra i nostri, penso a Manzoni o a Svevo) hanno posto in second'ordine la letteratura che cerca un diletto della fantasia: a loro interessava la narrativa come inchiesta conoscitiva o etica, basata sulla cognizione degli uomini e delle cose, lo scrivere come impegno totale e come esperienza necessaria per comprendere la vita, per «gettare luce sull'essere dell'uomo», per «fare del romanzo la suprema sintesi intellettuale».

Ma è lo scrivere per comprendere se stessi che resta negli autori di ogni tempo l'impulso principe. Pensiamo alle pagine di Petrarca, un profondo e protratto colloquio con la propria anima. Orhan Pamuk ha scritto che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite cosí segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli»; ci tocca «esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Philip Roth afferma che la narrativa è una «complessa, camuffata lettera a se stesso». Può diventare un atto liberatorio, come era stato per Primo Levi (esplicita confessione sua) lo scrivere Se non ora quando?; e penso alla «gioia liberatrice del raccontare» (altra confessione) offertagli dalla Tregua dopo il ritorno a casa.

Il pubblico in questi casi non è piú il referente primo. Ho appena citato Svevo, scrittore che sembrava quasi metterlo da parte: per lui era l'autore «il primo destinatario delle sue pagine», voleva capirsi meglio, analizzare e scoprire se stesso. L'esercizio dello scrivere come arte in sé gli importava di meno. La sua prosa era completamente antiformalistica, priva di virtuosismi, di ogni elemento decorativo. Gli interessava lo scrivere come scavo negli angoli bui di sé e degli altri, le gelosie, gli affetti, le debolezze dell'uomo cosiddetto "normale". La sua scrittura non era attratta dalla parola che trascina, dall'onda melodica di una prosa suadente, perché in questi casi, a suo parere, la letteratura può ingannare («Ho avuto sempre una certa antipatia per la parola dolce ch'è tanto facile da vergare e che non dice niente»). La potenza espressiva di Svevo difatti non risiede nello scrivere bene, nello stile. Il bello scrivere gli pareva inautentico. In una pagina del Diario appuntava: «È un uomo che scrive troppo bene per essere sincero» (avrebbe forse sottoscritto la nota di Stendhal quando nel suo Diario, 14 febbraio 1841, appuntava: «Sono i poveri d'idee che hanno inventato lo stile»).

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Del resto, quando mai la vita dei pensatori e scrittori è stata priva di pericoli?. Socrate dovette bere la cicuta, Protagora vide i suoi libri bruciare ad Atene, Democrito, secondo la leggenda, si cavò gli occhi come Edipo per poter pensare, Platone rischiò di essere assassinato, Aristotele si rifugiò nella Calcide accusato di empietà, Pietro Abelardo patí la castrazione per le sue lettere d'amore a Eloisa (ancora nel 1930 un tribunale degli Stati Uniti vietò la circolazione di quelle lettere), Giordano Bruno fu arso vivo per la libertà del suo pensiero filosofico-religioso, Galileo processato e condannato dal Sant'Uffizio per le sue concezioni astronomiche. Secoli prima la condanna aveva raggiunto Cecco d'Ascoli, tutte le copie che si riuscirono a scovare dell' Acerba furono bruciate e l'autore nel settembre del 1327 arso vivo a Firenze, tra Porta a Pinti e Porta alla Croce. Pregiudizi e repressioni censorie hanno in Italia segnato l'età controriformistica: addirittura alcune scuole di grammatica furono considerate scuole di eresia, tant'è vero che i libri di Erasmo, l'autore degli Adagia e dei Colloquia, sono bruciati a Milano insieme a quelli di Lutero, nel gennaio 1543.

Lo scrivere, come anche il leggere, è stato insidia per i potenti, in quanto affermazione di libertà di pensiero. I proprietari di schiavi temevano che i neri scoprissero, nei libri, idee rivoluzionarie che avrebbero minacciato il loro potere, i proprietari di piantagioni impiccavano gli schiavi colpevoli di aver tentato di insegnare agli altri a leggere, i proprietari delle haciendas messicane accoglievano i primi maestri a coltellate, rispedendoli nella capitale dopo averli sfregiati in viso, nel 1981 in Cile venne proibito il Don Chisciotte perché conteneva un'apologia della libertà individuale e un attacco contro il potere costituito (nelle colonie d'America l'Inquisizione spagnola ha sempre diffidato delle opere di finzione, proibendole per secoli perché potevano tradursi in atteggiamenti di ribellione nei confronti delle istituzioni e delle consuetudini), in Afganistan il mullah Omar, capo dell'Emirato afgano dal 1996 al 2001, ha ordinato il rogo per i cinquantamila libri della biblioteca del centro culturale Hakim-Nasser-Khosrow di Pol-i Khomri. Come una grande metafora del pericolo insito nella letteratura, nel Libro nero di Orhan Pamuk si racconta di un principe che, dopo aver trascorso anni e anni a leggere, viene a un certo punto colto dal terrore di non essere piú padrone di se stesso («un sovrano, che determina il corso di milioni di vite, ha il diritto di lasciar vagare nella propria mente frasi altrui?»), e allora passa anni a bruciare tutti i libri che ha amato e che lo hanno influenzato, quasi gli impedissero di essere se stesso. Tutte le dittature - fascismo comunismo nazismo integralismi islamici, dispotismi latinoamericani - hanno odiato la letteratura, e l'hanno controllata perlomeno con la censura. Tornando a rovinosi accadimenti recenti, ricordiamo il bombardamento (1993) dei serbi bosniaci della biblioteca di Sarajevo. O il saccheggio del 13 aprile 2003 della biblioteca di Bagdad, i roghi che distruggono i libri e l'Archivio nazionale dell'Iraq: vanno perduti dieci milioni di documenti storici ottomani, gli interi archivi reali. L'identità culturale dell'Iraq è cancellata. Ci ricorda Fernando Bàez che non si aveva memoria di un simile saccheggio dai tempi dei mongoli, da quando nel 1258 i cavalieri di un discendente di Gengis Khan erano entrati a Bagdad e avevano gettato i libri nel Tigri, al punto che il fiume diventò nero per l'inchiostro che si andava sciogliendo nell'acqua. Tragiche erano state le perdite dei libri in conseguenza della caduta di Costantinopoli del 1453 per mano dei turchi, innumerevoli manoscritti andarono distrutti. Nel secolo successivo, nelle Americhe, il primo vescovo di città del Messico, Juan de Zumàrraga, nominato, dalla regina Isabella «protettore degli indios», nel 1527 fa bruciare migliaia di manoscritti indigeni perché contrari alla nuova fede. Cinque secoli dopo, la storia («magistra | di niente») si ripete: in Iraq, a Mosul, quando nel giugno del 2015 l'Isis conquista la città, migliaia di volumi di biblioteche pubbliche e private sono bruciati perché «incitano all'infedeltà e invocano la disobbedienza a Dio», il proprietario della piú antica libreria della città è arrestato perché «vendeva libri cristiani», gli jihadisti saccheggiano la biblioteca universitaria e danno fuoco ai libri, nella piazza del campus, di fronte agli studenti. E chi ha avuto la ventura di vedere prima della polverizzazione d'ogni cosa quel che era la Siria, Aleppo, o Damasco («goccia di miele che sembra scorrere nella vallata, capitale di uno splendore naturale incomparabile, veramente regina di un mondo che poco ha perduto dell'antica maestà del tempo dei grandi califfi»), è invaso da una rabbia infinita per la brutalità insensata dell'uomo distruttore, è colto dalla «tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute», come scrive Primo Levi in Lilít. Ma la storia è sempre cresciuta su carneficine, morti, roghi e rovine. Nulla di nuovo sotto il sole: «Shih Huang Ti, l'imperatore cinese incerto se distruggere o costruire, si divise equamente fra le due contrastanti passioni edificando la grande muraglia e bruciando tutti i libri». Borges diceva che il vero mestiere dei monarchi è stato costruire fortificazioni e incendiare biblioteche. Per ordine del califfo Omar gli arabi nel 642 distruggono col fuoco la grande biblioteca di Alessandria, che si dice possedesse mezzo milione di rotoli (Manguel ci ricorda il suo professore di latino che soleva dire: «Dobbiamo rallegrarci di non sapere che cosa fossero i grandi libri che andarono distrutti ad Alessandria, perché se lo sapessimo, non ci sarebbe consolazione possibile»). Anche sulle nostre piazze sono avvenuti roghi di libri: manoscritti del .cor Decameron bruciati dai savonaroliani, l' Hermaphroditus del Panormita nel 1431 bruciato a Bologna, Ferrara e Milano, e per conflitti tra Siena e Firenze il Vocabolario cateriniano del Gigli mandato al rogo. Ma bruciare libri è eterno veleno. In anni non lontani, durante il nazismo, furono dati alle fiamme i libri ritenuti immorali o «non germanici»: tragicamente celebri i Bücherverbrennungen del 1933. Nel 1914 i tedeschi avevano già bruciato la biblioteca di Lovanio. «Chi uccide un uomo uccide una creatura ragionevole, chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa», annotava il narratore britannico James Hilton.

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Qualcosa di simile può capitare nella narrativa. Anche in un romanzo, una volta scelto l'argomento, si parte da uno spunto, da un incipit generatore: un tema, una situazione iniziale. L'autore non sa ancora bene che cosa dirà dopo. Le parole del racconto è come se scivolassero lungo la pagina, per innesti graduali. Secondo Celati, era questa la caratteristica rilevante dell'amato Delfini, del suo dipingere moderno (dove la pennellata «non serve a coprire spazi di una rappresentazione prestabilita»), del suo scrivere «piano, senza progetti». La maggior parte dei narratori non segue una mappa, ma procede con una bussola. L'autore comincia a scrivere, dà vita a un testo che alla fine «ne sa più di lui», nel senso che diventa anche per l'autore stesso, di capitolo in capitolo, una sorpresa, una fonte di rivelazioni nuove, di cose inattese, che all'inizio non si potevano neppure prevedere. Specie quando un romanzo non segue (come del resto è meglio che non faccia) la rigida cronologia degli eventi, ma (come dice Philip Roth riferendosi a certi suoi modi di scrivere) si affida a blocchi più liberi, a quelli che ha chiamato «"blocchi di coscienza", agglomerati di materiale di svariate forme e dimensioni impilati uno sull'altro e tenuti insieme da associazioni mentali invece che dalla cronologia».

Ogni romanzo è in qualche modo «indipendente e sovrano» rispetto al vissuto. Contano di piú «i meccanismi interni» del narrare. Capita di rado che un narratore conosca già da principio tutta la storia che si accinge a raccontare. «Uno scrittore non fa mai dei piani esatti, diciamo cosí, perché sarebbe stolto», diceva Conrad; la storia che si sta raccontando «ha una vita autonoma, va per conto suo», lo scrittore la può controllare, ma «ha una sua natura, un suo carattere. A un certo punto fa quel che le pare». Ci sono, è vero, eccezioni, scrittori che progettano la loro narrazione nei minimi dettagli, preparano liste di personaggi, luoghi dell'ambientazione dei propri testi (penso alle indicazioni progettuali nei manoscritti di Elsa Morante; e ho già accennato a Umberto Eco che costruisce prima minutamente la trama del Nome della rosa in un quaderno dal titolo «Intreccio e fabula», costruisce spezzoni del libro che poi salda insieme). Ma in genere l'autore non sa tutto fin dall'inizio. Nel procedere scopre sempre qualcosa di nuovo. Racconta man mano la storia a se stesso, non la conosce ancora da cima a fondo, non si limita al lavoro meccanico di trascrivere, per esempio, un ricordo, ma gli importa dare una forma, uno stile e un ritmo a quel ricordo e inserirlo in ciò che sta nel già scritto sino a quel punto.

[...]

L'importante è sapere che scrivere non è ricordare, ma inventare, immaginare, ripetere una storia nell'immaginazione: come se la testa (lo diceva Wittgenstein) non sapesse nulla di ciò che la sua mano scrive. Il narratore non deve essere uno che ricorda e poi trascrive (questo il limite oggi di tanti romanzi-saga familiare). Allo scrittore non tocca trascrivere tutte le cose accadute, ma sceglierle, metterle in un ordine nuovo, assoggettandosi docile piuttosto alle parole e ai ritmi narrativi ritenuti adatti all'insieme dell'opera. Perennemente valido il precetto di Eliot, secondo il quale l'originalità dello scrittore consiste nel fermarsi piú sulla combinazione che sulla trascrizione (scrivere «è soprattutto un modo originale di radunare i piú disparati e inverosimili materiali per trarne un nuovo insieme»). Quel che conta di piú per un autore è comporre il romanzo, non averlo vissuto. Scrivere non è "trascrivere" cose di sé, cose che all'autore sono accadute o che gli sono state raccontate. I libri partono da un'esperienza personale, ma non sono la storia di una vita. Dichiara lo scrittore israeliano Appelfeld che le cose che uno ha vissuto sono già successe, e la loro "memoria" nel processo creativo è un elemento di secondaria importanza, dal momento che creare significa ordinare, scegliere, trovare un ritmo adatto al complesso dell'opera, anche quando i materiali derivano da un'esperienza concreta, da una propria vita vissuta. Alla fine quello che nasce non è una testimonianza ma una creatura indipendente. E Philip Roth in un'intervista: «Chiunque cerchi di rintracciare il pensiero dello scrittore nelle parole e nei pensieri dei suoi personaggi sta cercando nel posto sbagliato»; e aveva notato che se in un suo romanzo i lettori «non vedono altro che la mia biografia, ciò significa che sono sordi alla finzione - alla personificazione, al ventriloquio, all'ironia, sordi alle migliaia di osservazioni che costituiscono un libro, sordi a tutti gli espedienti di cui si servono i romanzieri per creare l'illusione di una realtà piú reale della nostra stessa vita». Il modo piú facile, ma sbagliato, di leggere un libro è leggerlo come confessione: diventa «come leggere il giornale della sera. Se mi infastidisco, è perché non è il giornale della sera. Shaw scrisse a Henry James: "La gente non ci chiede opere d'arte, la gente ci chiede aiuto". E vuole anche una conferma delle proprie convinzioni, incluse le proprie convinzioni su di te». Molta narrativa in cui il pregiudizio mnemonico prevale sull'idea della finzione, e sul principio compositivo non porta a risultati di particolare rilievo artistico. Un romanzo non consiste nel venire informati su come s'è svolta una storia. Non basta scrivere per bene una cosa realmente accaduta per fare un buon racconto. Tutto sommato, un fatto realmente accaduto dovrebbe essere raccontato come se non fosse mai avvenuto. Glielo rinarra l'immaginazione. Anche nella narrativa piú storicamente documentata (possiamo pensare al Napoleone di Ernesto Ferrero o al Mussolini di Antonio Scurati) resta ferma la distinzione tra storiografia, che «scrive la storia della società, non quella dell'uomo»} e romanzo, che «indaga la dimensione storica dell'esistenza umana» senz'essere «illustrazione di una situazione storica [...] storiografia romanzata». L'immaginazione ha una sua parte predominante. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole: del tutto immaginata è la reale Beatrice di Dante, idem la Laura di Petrarca o Emma Bovary di Flaubert. È indifferente che una Beatrice e una Laura storiche siano realmente esistite.

La letteratura è anche questo: un patto di finzione col lettore, creazione di una realtà fittizia. Lo scrittore può sostituire illusoriamente il mondo concreto della propria vita vissuta col mondo effimero della finzione. Certe finzioni si cristallizzano in modello: è un patto col lettore per esempio e non una realtà il motivo del manoscritto ritrovato, dal Don Chisciotte ai Promessi Sposi a Il nome della rosa (nel già citato "quaderno" preparatorio, sotto il titolo Introduzione, sta scritto per l'appunto: «Ovviamente, un manoscritto»).

La letteratura è cosa stupefacente: tutto può appartenere ad essa, il vero come l'immaginario, i fatti come le fantasie, il verificabile come l'inverificabile, il noto e l'ignoto, ciò che è accaduto e ciò che non è mai avvenuto, ciò che può essere confermato da testimoni e ciò che non lo può essere. Importante è far sí che lo scrivere non diventi un semplice "calco" del vissuto. Neppure del più intimo e soggettivo. Diceva Primo Levi che si può anche scrivere per «liberarsi da un'angoscia»: meglio è però «filtrare» la propria angoscia, «non scagliarla cosí com'è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge».

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Si usa la propria tradizione letteraria come voce da far rivivere, secondo l'idea che una pagina letteraria è scrittura inscritta in un flusso ininterrotto, scrittura intatta che per parlare nel presente e del presente si inserisce in una continuità, contiene quantità di passato, di esso si intride con rimandi sottili. Già a partire dai trovatori, dai siciliani, e da Petrarca, potenti unificatori delle formule e degli schemi, la lirica si inseriva regolarmente dentro categorie già possedute. La tradizione ha determinato a lungo una certa quota di omogeneizzazione, addomesticato quello che si scriveva dentro categorie familiari. Per secoli ogni opera, o canzoniere o prosa, ha avuto uno sguardo retrogrado. I libri si collocavano nella scia di altri testi, appartenenti allo stesso «genere», testi da cui attingere modalità formali; e anche temi, tipi e motivi erano preselezionati. Senza la Camilla dell' Eneide non ci sarebbe stata la Marfisa di Ariosto e la Clorinda del Tasso. Senza l' incipit dell' Orlando furioso «Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori, | le cortesie, l'audaci imprese io canto» Tasso non avrebbe iniziato con quell'altrettanto celebre «Canto l'armi pietose e 'l capitano...», riecheggiamenti entrambi di Virgilio che aveva iniziato l' Eneide con quell'«Arma virumque cano», formulazione impostasi a partire dall' Odissea. Gli incipit sono sempre stati «luoghi privilegiati di trasmissione e di sedimentazione mnemonica». Gli esordi hanno sempre avuto un alto grado di memorabilità: questo attacco omerico, ripreso oltre che da Virgilio anche da Catullo, era difatti diventato un docile segno di riconoscimento, un condizionamento della tradizione come «aiuto al dire».


La memoria come un aiuto del dire: da Omero in poi ogni testo è cresciuto su altri testi, i propri e quelli degli altri: a) I propri: la Vita nuova di Dante ad esempio va letta come una storia e una ricollocazione della propria poesia (un libro «della memoria» in questo senso inteso), una storia non come autobiografia, successione di eventi, ma una particolare storia che trascrive ciò che il poeta ha già scritto (poesie giovanili); b) I testi degli altri: è soprattutto da questa rete che lo scrittore si è sempre lasciato catturare e in quella ha trovato la forza per essere compreso e diffuso (per restare alla Vita nuova, essa è opera di poesia + commento, e questa scelta strutturale va calata dentro il rapporto con un pubblico educato alla lirica cortese e del dolce stile, un pubblico che immediatamente coglieva l'aggancio con le Vidas dei trovatori e le razos, le "ragioni", esposizioni tematiche di poesie).

[...]

Oggi le cose sono mutate. L'immensa foresta di classici, prossimi e lontani, e dei testi fondanti produceva in passato un mormorio di intertestualità. Ora invece la poesia ingloba di meno tessere o cadenze o temi troppo riconoscibili, troppo segnati di "memoria". La letteratura non può piú presupporre un pubblico come quello di cent'anni fa. Il linguaggio poetico di base ha adottato un registro piú "semplice" (almeno in superficie). Le tendenze odierne prediligono la vicinanza al linguaggio comune, il «non marcato», spesso il tono «grigio», talvolta «quasi pauperistico» della testura. Già con Satura di Montale, ma anche con Nel magma di Luzi, la poesia si era appropriata dei linguaggi della contemporaneità: modismi, forestierismi diffusi, registri prosastici (pur entro un congegno formale raffinato). Si era compromessa di piú col linguaggio del quotidiano. Lo si avvertiva in Sereni, Bertolucci, Caproni, Raboni, Risi, Erba, Orelli. Giudici si rivelava maestro nel comporre testi che non dessero nell'occhio («Mai dar nell'occhio - mai | bardarsi da poeta»), testi che evitassero di inoltrarsi in territori troppo "poetici" («Quattro Novembre, angolo Sebastopoli: | non lo sai, ma abitavo lí»: Inverno a Torino ). La scelta già era evidente nel Montale ultimo, che amava i componimenti poco lirici, «paginette di diario, cronache minime di un io privato», «satire di costume», il «minimalismo diaristico». Ci si era avviati nei territori del «dopo la lirica». E oggi molta poesia contemporanea va decisamente verso la prosa, opta per una forma non versificata, dall'andatura colloquiale, in cui «i versi stanno al limite della loro scomparsa».

[...]

Un segno di mutazione dei tempi lo si coglie bene nell'apprezzamento minore che si fa dei valori estetico-strutturali dei testi narrativi. Di un'opera narrativa il "lettore medio" (mi si passi la definizione approssimata) oggi ama di piú l'intrico, non le impalcature della costruzione e le raffinatezze dello stile. Io continuo a pensare, come affermava Alexandre Dumas padre, che la trama di un romanzo dovrebbe essere soltanto il chiodo su cui l'artista appende i propri quadri. Ma la realtà mi mostra che l'intreccio in gran parte dei romanzi odierni, sull'esempio delle fiction televisive, delle telenovelas, è diventato la cosa principale, mentre per i grandi narratori è quasi sempre stato un qualcosa di secondario, e il culmine dell'efficacia narrativa si è giustamente individuato nei momenti in cui il romanzo piú che correre, staziona. Ma ora il mercato mi sembra richieda sempre piú libri di intreccio, in cui abbia il primo posto la storia, non lo stile.

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Capitolo ottavo

Respiro del vero, o allontanamento?


Nelle opere letterarie ogni descrizione è sempre fondata sulla realtà, avviluppata alla realtà, ma lo scrittore la "trasforma", spesso con affondi di dettagli inattesi che circoscrivono le figurazioni, le situazioni ecc. o le allargano in modi imprevedibili. Si è per esempio più volte notato come una delle prose italiane piú nitide, sobrie e concrete come quella di Primo Levi si conceda efficacemente a continue coppie o terne aggettivali sorprendenti («pazienza pitocca», «ambiguo e mercuriale», durezza della pietra «siderale, nemica, estranea», esemplari umani «scaleni, difettivi, abnormi» ecc.), a inediti ossimori, anomalie frammezzo all'ordinato. Le prose dei grandi scrittori pullulano di audacie, di mirabili guizzi descrittivi, istantanee che con la loro corporalità e oggettività raffigurano la cosa e riescono a farcela quasi vedere, palpare. Nella Recherche la mano del duca di Guermantes sporge ciondoloni sul petto «come una pinna di pescecane»; le mani di Andrée si stendono davanti ad Albertine «come nobili levrieri, con indolenze, lunghe fantasticherie, bruschi stiramenti di una falange», quasi opera di metamorfosi (mani->levrieri), come metafora «processo di identificazione tra due termini-oggetto». Bastano geniali flash, inaspettati particolari descrittivi per accendere la pagina: come gli «occhi di fosforo o di pece liquida» dei soldati americani in Guerre politiche di Goffredo Parise, o una coppia di aggettivi («il corpo, che appariva sfatto sotto la vestaglia, come le guance, la pelle, le mani e tutta lei, era carico di sensualità polverosa e nostalgica»: Parise, Il padrone ), fotogrammi improvvisi di movimenti, come quando Arbasino coglie sul palco l'istantanea del grande «Andrés Segovia assorto e remoto, come tutto solo in una radura o in un tinello», o della pianista Clara Haskil «col nasetto a punta sui tasti, come una gallina faraona che becca i chicchi». Bastano rapidi effetti metaforici e sinestetici capaci di cogliere le cose nella loro corporalità, come nelle Trentadue variazioni, «Il lieve mormorio del collarino...» di Montale, che piazza due aggettivi di rara efficacia (cariato, acido) per descrivere la «tastiera cariata di un vecchio pianoforte che dava un suono acido di spinetta». Una corporalità colta spesso nei gesti, anche quelli minimi, e gli scrittori massimi non se li lasciano sfuggire. Nel cap. XVII dei Promessi sposi il cugino Bortolo chiede a Renzo come stia a danari, e «Renzo stese una mano, l'avvicinò alla bocca, e vi fece scorrere sopra un piccol soffio». E Fenoglio, nei Racconti, Il paese. I, coglie il Dottore nell'istantanea di un gesto, mentre fuma una sigaretta: «L'accese accuratamente e prese a tirarne boccate brevi e puntuali, mai ripetendole fin quando non s'era del tutto dissolto nell'aria il fumo della precedente». Non gli è sfuggita la fisicità del dettaglio, visivo qui, sonoro nel cap. I del Partigiano Johnny, quando ascolta da radio Londra l'inflessione siculo-inglese di un italiano che «parlava con accidentata violenza, scortecciando le parole, pareva che le schegge di quello scortecciamento rimbalzassero secche, ferenti, contro la griglia dell'apparecchio». Esempi significativi in Tozzi: «con la sua voce crepitante come fatta d'aghi», «La sua voce sembrava un legno grosso che si stronca» ecc..

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Ripeto: non si può generalizzare. Tra i narratori italiani ce ne sono alcuni di alta intensità. Ciascuno di noi può stilarne il proprio personale elenco. E non è il caso di intonare la solita geremiade sui mala tempora. È soltanto capitato che le fonti dei libri non sono piú i libri: altre "memorie" si sono fatte avanti. Il colloquio si è allargato, sparpagliandosi enormemente, spostandosi in piú luoghi e settori: lo spettacolo, il cinema, la tv, i serial, le canzoni, i fumetti, la pubblicità, i piú correnti "tormentoni" magari, il parlato banale, comune, il dialogo quotidiano, le parole che si trovano per strada, un articolo di giornale, la rete, i social network, i gerghi settoriali, giovanili, l'inglese, i termini scientifici, informatici, le parlate simildialettali... la casualità della vita che ci pulsa intorno, che fermenta attorno alle giornate di tutti. I piú dotati hanno fatto della babele un uso ideologicamente provocatorio: penso alla neoavanguardia o a successivi sperimentatori (Nanni Balestrini compose provocatoriamente pagine di spezzoni di brani giornalistici, Elio Pagliarani di frantumi di linguaggi settoriali eterogenei e di parlato; Aldo Nove ha fatto parlare in suoi personaggi con un degradato linguaggio massmediatico, televisivo-pubblicitario; Culicchia ha messo in scena i «linguaggi di maggiore moda», gergo giovanile, aziendalese, italiano anglicizzato, pubblicitario, televisivo).

Dall'allargamento delle "fonti" non nasce automaticamente "trasandatezza". Penso a Tondelli, quando comincia a scrivere (Altri libertini, 1981) con assoluta indifferenza alla ricerca formale: ampio flusso di frasi senza punteggiatura, nessun ricorso al repertorio letterario, usualità della lingua per parlare delle piccole cose d'ogni giorno, di avvenimenti quotidiani, della vita lieve dei giovani "alternativi". Penso a chi dal profilo basso e di stampo orale ha tratto materia di umori e invenzioni: Stefano Benni o Tiziano Scarpa hanno avvolto l'oralità di un umorismo sfrenato, di una parodia efficace ora del chiacchiericcio televisivo ora del gergo giovanile, ma senza rinunciare all'invenzione linguistica, alla piú vasta gamma delle neoconiazioni piú vivaci. Diventa di larga applicazione un fraseggiare ricco di forti indici gestuali, di "vivacità" attinta dal parlato. Il linguaggio narrativo si è fatto molto "ascoltato" prima che "scritto", e con soluzioni diverse, ora ristretto ora arricchito. La sintassi ha potuto ridursi tanto a un basso elementare, quanto intricarsi in vivacità parlata, evitando di precipitare verso un minimalismo stucchevole. È risultata comunque vincente la semplificazione della sintassi. Si evita il periodo lungo, la sintassi avvolgente, le frasi sono piú brevi, si introducono lunghe pause, frequenti a capo. Si amano le sequenze paratattiche, le aggiunzioni lineari, la frequenza dei punti fermi, le frasi scandite, a blocchi brevi, costruiti per mera successione con periodi monofrasali. Penso, fra i tanti esempi che si possono citare, alla prosa di De Carlo, alla sua sintassi «elementare, asciutta fino alla scarnificazione». La dimensione orale resta alla base del comporre anche quando la frase prende movenze colte (vedi Cristina Campo). Paolo Nori dice di scrivere «come si parla»: di qui punteggiatura in funzione ritmico-prosodica, e tutti i più consueti fenomeni della sintassi del parlato (tema sospeso, che polivalente, ci pleonastico, ridondanza pronominale, concordanze a senso, foderature, topicalizzazioni di ogni tipo). Ma la realizzazione efficace del registro piú "parlato" che "scritto" è arte difficile. Hanno dato le prove piú notevoli nel saper recuperare movenze del parlato Tabucchi e Del Giudice. O Gianni Celati, quando intrideva con grande inventiva la sua pagina di originalissima, dissacrante oralità onomatopeica. È davvero un'arte non facile la reinvenzione dell'oralità, il ricalco del parlato ma con "sprezzatura", con un'aria negligente, il riprendere le possibilità del parlato senza calcarlo come dal vero, come se si avesse in tasca un registratore. La simulazione del parlato è pratica molto ardua. Nel restituire l'emozione dell'oralità allo scritto, uno dei maestri è stato Céline, capace di ricostruire la catena fonica dell'oralità non come «trascrizione al magnetofono di un qualsiasi cicaleccio»: i suoi personaggi non parlano nei libri come parlerebbero nella realtà, ma il parlato diventa reinvenzione ritmica, discorso scritto che finge i modi del discorso normale. Il parlato-scritto non va riprodotto cosí com'è ma anch'esso inventato, manipolato. La sua teatralizzazione scritta, se non è "ricostruita", letterariamente vale poco. Lo scrittore non dovrebbe mai riprodurre semplicemente quello che sente.

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