Copertina
Autore Gian Luigi Beccaria
CoautoreBertinetto, Bertone, Coletti, Firpo, Loporcaro, Magris, Mengaldo, Ricuperati, Segre, Simone
Titolo Tre più due uguale zero
SottotitoloLa riforma dell'Università da Berlinguer alla Moratti
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, , pag. 200, cop.fle., dim. 138x210x17 mm , Isbn 978-88-11-74044-5
CuratoreGian Luigi Beccaria
LettoreLuca Vita, 2004
Classe politica , scuola , universita'
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Indice

Gian Luigi Beccaria
L'antico e il nuovo:
le scienze umanistiche e la scuola                7

Claudio Magris
Verso l'addio. La mia università scomparsa       21

Cesare Segre
Professionalità. L'arte e la tecnica             26

Massimo Firpo
La perdita del passato.
Cultura umanistica e scuola                      31

Pier Vincenzo Mengaldo
Riforma e facoltà di Lettere                     43

Vittorio Coletti
Berlinguer e donna Prassede                      51

Giuseppe Ricuperati
Le cicale e le formiche, ovvero
la sconfitta di un'ape ingegnosa                 60

Giorgio Bertone
Sulle riforme e sui riformatori                  86

Michele Loporcaro
Una buona scuola o la società dello spettacolo:
da che parte stanno i progressisti italiani?    107

Raffaele Simone
Il futuro del dimenticare                       132

Pier Marco Bertinetto
Nuove Mete, Nuovi Miti (Istruzioni
Psico-Pedagogiche per sentirsi à la page)       157

 

 

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Gian Luigi Beccaria


L'ANTICO E IL NUOVO:
LE SCIENZE UMANISTICHE E LA SCUOLA



Non sono tra i più titolati a parlare del passato, non sono un classicista. Ma sono un italianista che si è da sempre interrogato sulla validità dell'antico nel moderno, perché il nuovo senza l'antico non si capisce, resta privo di senso. Affermando ciò non faccio altro che ribadire un'ovvietà, un'ovvietà che oggi purtroppo non è più tale: il ruolo di ogni cultura del passato (non solo quella classica), come strumento formativo e indispensabile, è infatti messo in forse da scelte e da progetti per la scuola non condivisibili. La perdita della memoria storica sta investendo non soltanto la classicità, ma l'intero passato. Tra un po' anche il Novecento, «il secolo scorso» come già diciamo, non tarderà ad allontanarsi al pari delle altre antichità. La scuola sta esiliando i «classici», che finiranno per essere espulsi dalla coscienza della nazione. Improvvidi riformatori di ieri e di oggi (alcuni li vedrei meglio a dirigere catene di supermercati, piuttosto che occuparsi di scuola), tutti affannati a inseguire (com'è giusto) il «nuovo», stanno chiudendo lo scrigno che contiene i tesori del passato. Pensano a una scuola totalmente appiattita sull'oggi.

Ma come potranno i giovani capire l'oggi senza l'ieri! Non coglieranno nulla, neppure il senso delle parole. Il passato diventerà un territorio perduto, la scuola non lo riconquisterà più, passeggeremo nelle nostre città d'arte, tesori a cielo aperto, come ignari, noi che abitiamo un paese benedetto dagli uomini, dove è concentrato più della metà del patrimonio artistico e archeologico mondiale. Come è possibile che si sia giunti a pensare di mortificare o addirittura potare drasticamente lo studio dell'antichità greco-romana, il medioevo, l'età moderna, per concentrarsi sul solo presente? E questo è accaduto in una paese come l'Italia, che in quei secoli e millenni affonda le radici della sua identità storica e culturale.

La mia è una delle tante voci inascoltate. Si aggiunge alla preoccupazione generale, all'acuto malessere dovuto a scelte culturali, linee di tendenza che reputo sbagliate, e che toccano soprattutto le facoltà umanistiche, in particolare la facoltà di Lettere, nella quale insegno e che meglio conosco.


Una delle proposte consuete, che di tanto in tanto ci viene rivolta è questa: viviamo nell'età dell'informatica, aggiorniamoci, ormai possiamo fare a meno di imparare anticaglie come il greco antico e il latino! Ci sono cose ben più interessanti e utili da coltivare!

Affermazioni dissennate, eppure oggi largamente condivise.

La prima difesa del passato, la più ovvia, è tutta linguistica, e si riferisce, proprio in una nazione tecnicamente avanzata come la nostra, alla lingua tecnica e scientifica. Perché l'immenso serbatoio del lessico scientifico non è un enorme cumulo di termini opachi, isolati tra di loro, o collegati soltanto nell'ordine alfabetico, ma c'è un mastice che li tiene insieme, ed è in gran parte greco o latino (radici, suffissi, suffissoidi, prefissi, prefissoidi). Il greco è largamente comune a lingue di struttura diversa. Intride sia le lingue neolatine sia le lingue germaniche. Il grecismo è un mezzo di collegamento e di unione tra le differenti lingue tecniche, giuridiche, filosofiche, è una sorta di collante della comunicazione universale, è la radice che funge da elemento di base per formare le parole colte. Un governatore della banca centrale greca, Xenophon Zolotas, nei suoi discorsi di chiusura del Congresso Monetario Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, vinse facilmente una scommessa, quando, come aveva promesso, riuscì a parlare greco facendo un discorso in inglese, in due riprese, 26 settembre 1957 e 2 ottobre 1959. Soltanto le forme grammaticali non erano di origine greca, lo era tutto il resto.

Stesso discorso potremmo ripetere per il latino. Oltre a segnare l'identità linguistica di un'Europa che lo ha parlato ininterrottamente per circa una ventina di secoli (la politica, la scuola, la religione), il latino offre, insieme con il greco, le matrici dei linguaggi scientifico-tecnologici, gli elementi componenziali dei loro termini, cosicché i neologismi che tecnica e scienza sfornano giorno dopo giorno, grazie a quelle lingue antiche si presentano come parole semanticamente trasparenti. Sono lingue che hanno collaborato e collaborano tuttora a normalizzare il valore e l'uso dell'inglese scientifico mondializzato, hanno dato e danno coerenza interna ai vari settori della terminologia, evitano che essi si accrescano per aggiunte arbitrarie e occasionali. E questo non è poco.

Se la scuola contribuirà a tagliare quelle radici, sarà compiuta un'azione gravissima della quale ci dovremo pentire sul piano della trasparenza lessicale e della comunicazione generale.

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Infine, c'è la propensione verso l'impegno utilitaristico, il fatto che tutto deve essere in funzione del lavoro e della ricerca di risultati pratici immediati. Il che porta a privilegiare materie di consumo spicciolo come le lingue (in senso pratico, l'inglese dunque), la psicologia (applicata), l'informatica (intesa come la capacità di utilizzare un computer, e non - come dovrebbe - la conoscenza dei principi sui quali si basa il funzionamento della macchina o dei programmi), e materie di consumo a svantaggio di quelle discipline che non chiamano il giovane a specializzarsi ma lo aiutano alla riflessione storica o estetica o filosofica o letteraria. Discipline, queste ultime, che hanno favorito sino a ieri la maturazione di uno spirito critico, e l'educazione alla libertà, alla pluralità, alla tolleranza, acquisti e «valori» che non vorremmo venissero a mancare al mondo che le nuove generazioni abiteranno: sono le discipline che insegnano a pensare, ed è poi ciò che conta.

Invece, la formazione generale dell'uomo sembra ora un'operazione antieconomica, superata dai tempi. Va sopportata come un retaggio del passato. La scuola deve formare un individuo fornito di competenze. È la logica dell'impresa: assumere l'uomo in base alle sue competenze. La scuola avrebbe soltanto un valore strumentale. È addestramento professionale. La formazione della personalità non interessa più. Ci prepariamo, scriveva Ceronetti, a «fabbricare dei mostri, docili verso i mercati finanziari», a far nascere il bimbo manager, aggiungeva Michele Serra, a vedere la scuola come «una specie di colossale corso di inserimento aziendale». Non la pensiamo più come un luogo di cultura e di ricerca, ma una sorta di «lunghissima anticamera davanti alla porta del capufficio. Una precocissima spietata selezione del personale».

E questo dovrebbe succedere sin dalle prime classi? Sostenere che i ragazzini devono confrontarsi subito con un mondo fatto di cultura scientifica, settoriale e tecnologica è una scelta profondamente sbagliata, una specificità statunitense più che europea: «sarebbe un'inutile ridondanza collocare questo mondo al centro dell'insegnamento, giacché esso fa già parte dell'ambiente in cui viviamo e sa diffondere molto bene la propria pedagogia. Al contrario, la scuola dovrebbe fare da contrappeso alla pressione di tale universo, insegnando tutto ciò che esso di solito non propone» (Marc Fumaroli).

La domanda fondamentale è: la scuola serve per formare dei cittadini o degli impiegati intelligenti? La scuola è «un campo d'energia, uno stato generatore di potenzialità, l'apertura a molteplici possibili» (Massimo Cacciari)? La scuola sosta in quei felici territori del «gratuito» che sanno farla diventare uno straordinario campo di esercitazione per l'ingegno e l'intuito, la scuola è il luogo delle passioni, il momento delle emozioni... oppure deve limitarsi semplicemente a trasmettere lo «stato» delle tecniche, a informare su quanto è utile per essere degli «occupati»? È un corso di orientamento per scopi concreti e precisi, è tutta al servizio del contesto tecnico-economico, è soltanto scuola-informazione, è scuola-azienda, buona per un addestramento pratico?

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Ora è il tempo della velocità. E tutto scorre frenetico, sempre più in mano alle immagini. Ma lo schermo piccolo che le produce e di cui siamo da cinquant'anni assidui frequentatori, sta trasformando lo «stile conoscitivo», nel senso che contribuisce a cancellare i concetti, ad atrofizzare la nostra capacità astraente. Molto è stato scritto in proposito, e io non sono titolato a emettere previsioni, apocalittiche o tranquillizzanti. So soltanto che il nuovo homo videns quel che apprende non lo ricava più, come in passato, dall'attenzione per lo spessore della scrittura e del libro. Il libro non è più «l'emblema del sapere e della conoscenza» (Raffaele Simone). Concentriamo soprattutto la nostra attenzione su flash del momento presente, udiamo tutti le stesse parole, vediamo le stesse immagini. Ci sentiamo più gruppo, comunità globale. Ma è cultura di gruppo che sedimenta di meno. Nell'imperante frantumazione prodotta dalla velocità dello zapping, sbricioliamo il mondo, lo facciamo diventare perfettamente permutabile e compresente. Andiamo incontro alla perdita delle differenze, all'incapacità di riconoscere i contorni e i rilievi dello spazio e del tempo. Annulliamo le gerarchie di valore. Ogni oggetto, fatto, discorso, immagine, che acquista senso solo per il fatto di apparire (di imporsi alla presenza in quel momento), compare nella contiguità con importanza pari agli altri: dati rilevanti e dati effimeri, o marginali, affiorano indifferenziati nel valore, proprio per la loro presenza simultanea.

Non vorrei essere frainteso. Il mio discorso non sottintende alcuna opposizione alla modernità, non è quello di un lodatore del buon tempo antico. Dice soltanto che a queste pressioni del moderno, che tende a confondere in una purea universale indifferenziata ciò che conta molto e ciò che conta meno, la scuola ha il dovere di reggere, coltivando innanzi tutto il dibattito, la discussione critica, anche il dissenso, sottolineando insomma la differenza. È ancora compito della scuola dare al cittadino i mezzi, gli strumenti per analizzare la realtà sociale nei suoi diversi aspetti, dall'etica, alla politica, ai cammini della tecnologia. Non contribuisca lei, per prima, a mortificare tutti quegli strumenti e quei documenti e quei saperi che ci possono aiutare, ancora, a superare il pericolo di una posizione acritica, di una cultura semplificata e omologante, non contribuisca a farci smarrire ancor di più lo spessore della memoria e il senso della differenza.

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La filologia è dunque un antitodo al pressapochismo, alla manipolazione, alla fretta, ai rapidi flash momentanei. La civiltà acustico-visiva, la modernità insomma, sta facendo sparire dalla nostra vita ogni residuo momento di indugio; nessuno sfugge più al flusso di messaggi che proliferano nei media, e i linguaggi della velocità e della vitalità si sono risolti in spettacolo continuato, in straripante accumulo di messaggi decentrati, trasgressivi, effimeri, anche piacevoli, oppiacei... Ma rispetto a chi vede, chi legge deve di necessità fare attenzione a un testo, deve capire, e anche faticare, perché spesso deve tornare sui suoi passi, per riletture, riesami, gestendo da solo il proprio movimento di comprensione. Ce lo ha già spiegato Quintiliano, illustrando i vantaggi della lettura sull'audizione, o quelli della rilettura, che permette di possedere il testo: la lettura che indugia nella continua ripetizione «ammorbidisce» e «sminuzza» il testo come fa la masticazione con un cibo, e dunque meglio lo digerisce e lo assimila.

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Grazie ai libri riusciamo a vivere al di là del solo (esclusivo) e immediato presente. Alla memoria personale aggiungiamo la memoria collettiva, e l'intrico delle due «allunga la nostra vita, sia pure all'indietro» (Umberto Eco), il che non è soltanto ricerca di emozioni del o nel passato, ma simulazione potente di vita. Memoria non vuol dire soltanto ricordo di fatti, battaglie, guerre e paci, ma di ciò che gli uomini da Omero a oggi hanno scritto, cioè fantasticato, sentito, patito, sognato, immaginato, e del linguaggio con cui hanno tramandato patimenti, amori, e questa memoria fa sì che «sappiamo intimamente chi siamo» (Raffaele La Capria).

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Michele Loporcaro


UNA BUONA SCUOLA O LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO:
DA CHE PARTE STANNO I PROGRESSISTI ITALIANI?



Parlare di scuola, e di istruzione a tutti i livelli, non è mai fare un discorso accademico. È un discorso politico. Per questo è importante chiarire bene quali siano le implicazioni politiche oggettive di questa o quella posizione, rispetto a temi come: si deve studiare la storia, a scuola? E le lingue classiche? E la propria lingua madre, si deve (si può) studiarla di per sé, o bisogna invece subordinare questo studio a fini di utilità pratica diretta?

Bisogna chiedersi, anzitutto, a chi giova, in Italia, tagliare i ponti con la nostra tradizione culturale, eliminare dai programmi scolastici di ogni ordine e grado lo studio delle lingue classiche, ma anche lo studio dell'italiano in sé considerato ( suo iure si sarebbe detto una volta, in certi circoli), eliminare lo studio della storia e di tutte le materie di taglio storico. La risposta è evidente. Perseguire questa linea è, oggettivamente, collaborare all'istaurazione di una società in cui sempre meno spazio ha non solo la cultura ma, con essa, la capacità di riflessione autonoma e il senso critico; che sono poi le condizioni necessarie per un libero dibattito democratico in una società civile. Nel mondo moderno, dibattito democratico pubblico e quel che oggi continuiamo a chiamare, forse solo per abitudine, società civile non sono un dato naturale ma un prodotto storico: sono nati con l'illuminismo, con la messa in questione del principio d'autorità assoluta, del potere per grazia divina, e con l'affrancamento del valore dell'intelligenza dalla dipendenza politica ed economica. Qui sta l'origine della sfera pubblica borghese (Habermas) e, con essa, delle moderne democrazie.

Per chi persegue un programma politico anti-progressista - diciamo, semplificando, reazionario-totalitario - l'affrancamento del valore dell'intelligenza e della riflessione dai rapporti di potere è disfunzionale. Al contrario, per il progressista è questo l'obiettivo più alto. Portare cerchie sempre più ampie della popolazione a partecipare di queste capacità di riflessione e di discussione, dunque a entrare a pieno titolo nel dibattito della sfera pubblica: è questo l'obiettivo strategico primario di ogni politica di tal segno. Il che dovrà tradursi in pratica attraverso il miglioramento dell'istruzione scolastica. In parole povere: una politica reazionario-totalitaria deprimerà la scuola, una politica progressista l'esalterà. Lo si è visto bene in alcune fasi storiche. Fra Sette e Ottocento, la democrazia americana, fondata da intellettuali illuministi, ha rappresentato l'esempio più chiaro di un tentativo in questa direzione: larghissima diffusione della stampa, alta scolarizzazione e i tassi di alfabetizzazione più alti nel mondo occidentale dell'epoca. Dell'America di allora si diceva che anche il contadino, arando, leggesse Omero. Nell'America di allora i dibattiti politici pubblici, popolarissimi, duravano sette ore: intorno un'atmosfera festosa (banchi da fiera, spaccio di alcolici e dolci), in platea un religioso silenzio. Prosegue Neil Postman, dopo aver descritto questo quadro: «l'America fu fondata da intellettuali [...] per liberarsene le ci son voluti due secoli e una rivoluzione nei mezzi di comunicazione».

La società statunitense, così come la nostra società italiana, all'inizio del Duemila sono ben diverse da quella progettata dai costituenti americani, in cui il contadino leggeva (se non proprio Omero, leggeva il giornale) e ferveva il dibattito pubblico. Per molti aspetti tecnologici la società è progredita, e c'è chi ha visto in questo stesso progresso tecnologico la chiave delle trasformazioni socio-politiche che si sono prodotte. La riflessione della scuola di Francoforte o di altri pensatori europei (Guy Debord) così come la sociologia americana (Marshall McLuhan, in parte, e soprattutto Neil Postman) hanno messo in guardia, in particolare, dall'influsso dei mezzi di comunicazione audiovisivi sulla sostanza del discorso pubblico. Nell'Italia del Duemila dobbiamo constatare che avevano ragione. La sostituzione del video al libro sta cambiando il nostro vivere associato, poiché l'uomo è animale politico e vive la sua dimensione associativa entro un «ambiente simbolico» che ne forma il carattere e la cultura. E avere intorno, sin dalla scuola, dei libri non è lo stesso che avere intorno, sin dalla culla e poi anche a scuola, dei video.

Il progresso tecnologico non si può arrestare. Si può però gestire. Vale per la natura: serve oggi una riflessione sullo sviluppo sostenibile, mentre l'effetto serra mostra come sia irrazionale un'acritica lode dello sviluppo in quanto tale. E vale per la cultura: il progresso tecnologico va gestito con una politica culturale. Qui entra in gioco la scuola. O meglio, deve entrare in gioco, per un programma politico di segno progressista. La scuola deve sottoporre il progresso tecnologico a vaglio critico. Deve dare ai cittadini gli strumenti per analizzare la realtà sociale nei suoi diversi aspetti: la politica come la tecnologia. Questi strumenti sono la capacità di riflessione autonoma e il senso critico, che non possono venire da un'educazione schiacciata sul presente. Serve la storia, come ammaestramento per relativizzare e poter analizzare e, se del caso, criticare il presente. Per un programma politico di segno totalitario-reazionario, invece, è funzionale una scuola che si allinei pedissequamente ai cantori acritici del progresso tecnologico.

Verso dove stiano andando le nostre società «democratiche» è evidente: gli esperti di comunicazioni di massa - quelli, s'intende, indipendenti, non a libro paga dei networks televisivi - discutono solo su quale delle due grandi utopie negative del XX secolo, se quella di Orwell o quella di Huxley, descriva in maniera più calzante il punto d'approdo verso cui ci dirigiamo a vele spiegate. Rispetto a questa deriva, le posizioni politiche sono oggettivamente nette: un programma reazionario-totalitario la favorirà con ogni energia, un programma progressista s'impegnerà con tutte le forze per scongiurarla e cercare di invertire la tendenza. Se ne deduce che se un governo di destra con tendenze autoritarie propone un modello di scuola imperniato sulle «tre i», internet, inglese, impresa, agisce lucidamente, in modo ponderato e funzionale al proprio progetto politico. Una scuola così concepita, avvicinando ai media visuali, allontanerà dal libro e deprimerà in tal modo la sensibilità culturale, la coscienza della storia e delle specificità culturali; nel nostro caso, la coscienza della specificità della storia e della cultura italiana. Una scuola così prepara un mondo in cui si parla una lingua sola, radicalmente semplificata, e prepara non cittadini responsabili, parte di un'articolata società civile, ma futuri dipendenti di un'impresa, semplici sudditi di un potere economico i cui interessi si fondono con quelli dello stato. In questa fusione, lo sappiamo, l'Italia contemporanea (anzi, l'«azienda Italia») conduce oggi un esperimento d'avanguardia, ai massimi livelli. Un esperimento a cui, in Europa, guardano con preoccupazione non solo tutti i progressisti ma anche i moderati liberali (la destra non totalitaria): basta leggere quel che ne scrivono quotidianamente giornali conservatori come la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» o la «Neue Zürcher Zeitung», che solo davanti a un popolo di teledipendenti mal scolarizzati possono esser fatti passare, grazie al megafono di una tv sottratta al controllo democratico, per fogli sovversivi comunisti.

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