Copertina
Autore Rita Bellacosa
Titolo Le inutili apparenze
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2009 , pag. 188, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x1,5 cm , Isbn 978-88-7937-439-2
LettoreGiovanna Bacci, 2009
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

I



Il sole si stagliava pigramente all'orizzonte nella calda ora del pomeriggio di giugno inoltrato. Sola e splendida, Francesca, nel fiore della giovinezza, camminava lungo la spiaggia, e pensava. Non si sarebbero potuti tradurre i suoi pensieri in qualcosa di reale, di concreto. Divagazioni per definizione.

Le onde lievi lambivano dolcemente i piedi procurandole una sensazione di immediato piacere. Laggiù, la linea del mare appariva indefinita, a tratti tremolante con lievi increspature.

Quella parte della bianca spiaggia di Capri, circondata da scogli aguzzi e fitti, appariva ora completamente deserta, priva di qualsiasi segnale che potesse ricondurre alla vita reale. Sembrava di trovarsi in un'altra dimensione, con la natura ferma e rarefatta, pur nella sua vigorosa mobilità, negli atti imperturbabili eternamente ripetuti. La calma grandezza di essa si rivelava nella solennità possente delle sue rappresentazioni, nel silenzio assordante, reboante della sua presenza.

Lei incedeva, fiera e maestosa come una leonessa, dominando la battigia con andatura sicura, mordeva i passi al pari della vita. Il caldo opprimente e afoso continuava ad infierire sulla pelle già provata dal sole e il viso tondo, dai contorni netti e ben delineati, appena dorato, proteso in avanti, procedeva come a voler fendere l'aria stagnante. I biondi capelli scendevano morbidi con ciocche consistenti e ondulate lungo le spalle ben tornite, illuminati dal sole dell'estate in piena espressione. Evocatori di luminose giornate felici, gli occhi azzurri rivolti verso l'infinito apparivano assorti, come impegnati a costruire un sogno misterioso. Indossava un leggero abitino di seta nero che le lasciava scoperto per gran parte il busto e, quasi del tutto, le lunghe gambe magre. Reggeva con una mano i sandali neri alti come usava portare e con l'altra un cappello nero a tesa larga. Amava il colore nero. «Il nero», sosteneva, «lo devi scegliere e saper interpretare. Il nero esige conversione». Prediligeva il trucco ottenuto sapientemente con polveri nei toni del marrone, discreto tranne che per gli occhi cangianti che adornava a maschera esaltandone il taglio felino e il colore simile alle acque ghiacciate dei laghi alpini. Li mostrava poco durante il giorno proteggendoli con grossi occhiali marrone scuro di forma rettangolare con larghe aste laterali.

Era bella, e lei lo sapeva bene. Pur tuttavia, le piaceva mostrare per civetteria, ma con sicura e intima convinzione, un certo imbarazzo quando un uomo le faceva notare la sua bellezza. Allora arrossiva e, liberando un timido sorriso, poggiava delicatamente la mano sulle labbra rosse e carnose come avrebbe fatto una diva ma con l'ingenuità di una bambina. Poi scappava via.

Quando si rifaceva viva, il suo imbarazzo sembrava sparito lasciando il posto a un'apparente sicurezza. In realtà, nel suo animo rimaneva presente quella debolezza infantile avvolta in un involucro nascosto, inviolabile. Apparteneva a quella categoria di donne che, pur crescendo e maturando, conservano intatto in se stesse il ricordo vivo dell'età infantile come un tempo mai scorso del tutto e che continua, conservando il suo stato di purezza.

Spesso le piaceva rivivere nel ricordo scene appartenute al tempo andato, un passato luminoso e non del tutto perduto perché recuperato dalla memoria nostalgica. Palpitante d'emozione, ritornava agli anni spensierati dell'infanzia intrisi della ricezione passiva delle nozioni, a quelli seguenti, brulicanti di ricerche consapevoli, frementi di alacri intenti, di scopi progressivamente diversi e più ambiziosi.

Ogni nuova scoperta le sembrava una conquista raggiunta, una tappa doverosa di un percorso già misteriosamente stabilito, immaginava la sua vita futura e cercava in ogni modo di protendersi verso di essa. Sapeva di volere essere la migliore, doveva essere la migliore.

Di natura vivace e memoria pronta, procurava di sapere qualcosa di ogni cosa e, di specifiche discipline, tutto il possibile, adattando il peso del sapere alle sue forze e attingendo tanto quanto la sua mente potesse contenere e assimilare. Sentiva il suo animo probo perché le sue capacità e il suo volere si equivalevano permettendole di progredire. «Sapere per essere», ripeteva, padrona consapevole di se stessa. Molto presto aveva imparato, e ne ebbe continue conferme negli anni a venire, che nella vita occorre impegnarsi a costruire il proprio futuro con dura applicazione e estenuante profusione di energie. «I lottatori esperti si tengono in esercizio con combattimenti continui. La conoscenza dissipa il dubbio e io ricerco certezze».

Di indole dominatrice, fuoco e orgoglio, offendeva la mediocrità. Illuminata dalla ragione volitiva, faceva giorno della notte riservando consapevole dignità e instancabile dedizione allo studio zelante, accumulando con animo ingordo speranza e abnegazione, con tensione emotiva e intellettuale pari a quella fisica del Discobolo di Mirone, colto nella massima contrazione che precede il lancio. «Un giorno», pensava fiduciosa, «sarò qualcuno». Risoluta tributava con pazienza e costanza ogni attimo a quel futuro di cui vagheggiava con l'inquietudine nell'animo, e passava, insieme ai suoi pochi anni e alla pallida luce della lampada marrone posta sulla scrivania antica settecentesca con ripiano di pelle nera, le parti migliori delle sue notti coltivando l'abitudine all'energia e all'impegno protratto.

Gli anni intensi, spregiudicati della giovinezza l'avevano vista orgogliosa e battagliera come un ussaro, affamata di gloria, eccellente negli studi, lodata con merito. E bella.

Quale commistione, la bellezza e l'intelligenza unite nella stessa persona. Ti fa credere di avere tutto in pugno, e non hai che sogni. Ti dici disposta a batterti, e lo fai, senza riserve, con tutta te stessa. Presto però ti accorgi che la strada è molto più impervia e difficoltosa di quanto avessi previsto. E rischi di rimanere al palo. E gli anni passano, inesorabili, e non puoi più permetterti di perdere tempo. Devi attuare tutto quello che ti sei proposta velocemente. Per goderne i risultati.

Difendi il tuo progetto, non ti arrendi, insisti con furia, vai volutamente incontro a persone e luoghi intricati di insidie velate o palesi nella spietata crudezza verbale e visiva, accettando la sfida e preparandoti a combattere gli inevitabili agguati che le regole del gioco hanno stabilito.

Il gioco del successo seduce animi temerari che, con vulcanica forza interiore e inesauribile tenacia, difendono i propri progetti decisi ad affrontare dure battaglie ad alto rischio. Se riesci vincente, pur con ferite, a liberarti dal vortice dei meri propositi iniziali raggiungendo il fine desiderato con instancabile ardore, nobiliti le pene del travaglio. Se fallisci nel tuo intento e, non accettando, rabbioso ti accanisci, giocando tutto te stesso, puoi incorrere nella follia. Arrivi a chiederti a qual fine sperimentare tali sforzi e tale pena e intanto il tempo scorre inevitabilmente fugace e il domani appare incerto e inquieta l'animo. Ti viene in mente Orazio che in un suo carme invita pensoso a cogliere l'attimo fuggente, il momento di essere felici senza pretendere troppo da se stessi considerando che, come aveva affermato Simonide di Ceo, la sorte umana è soggetta a mutamenti più bruschi e repentini del battito d'ali di una mosca.

La breve vacanza caprese stava ormai per terminare. Di lì a poco, per lei, sarebbe cominciata la grande avventura romana.

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Pagina 57

X.



La mattina Francesca appariva in piena forma, carica di energie nel suo delicato baby-doll di seta color cipria e pizzo.

Decise di recarsi al Louvre e si rese elegante e bellissima con l'intenzione di presentarsi degna della magnificenza delle grandi opere d'arte. Camminava a passo volutamente leggero nella tiepida giornata di sole lungo il Pont Neuf, il più antico e celebre ponte di Parigi, distinto in due tronchi che collegano l'Île de la Cité, il nucleo più antico di Parigi, dove sorge la Cathédrale di Notre-Dame, con le opposte rive della Senna. Notò un pittore intento a dipingere il paesaggio circostante e, più in là, un bellissimo uomo intento a guardare vagamente lontano e le venne il desiderio di conoscerlo.

Si avvicinò: «Devo andare al Louvre, come ci arrivo?».

Stéphane de Régard, alto e biondo, da pochi mesi rientrato a Parigi dopo un lungo soggiorno a Johannesburg dove il padre costruiva autostrade, lavorava nel cinema come organizzatore di festival. Evidentemente colpito dalla bellezza trafittiva di lei, «Se vuoi, ti accompagno», esclamò.

Si separarono davanti al Museo con la reciproca promessa d'incontrarsi ancora, intesi che lui avrebbe telefonato. Francesca desiderava visitare il Museo da sola, godere, senza interferenze, della bellezza dell'arte, tesa in un egoistico rapporto fisico con ogni singola opera. Non avrebbe voluto, né potuto, destinare l'attenzione su due fronti e, comunque, ogni altra figura, seppur concreta, diveniva astratta se paragonata alla solennità e all'incanto da assaporare. L'opera d'arte è viva, eterna, parlante. All'entrata fantasticò di vedere Filippo II Augusto mentre posava simbolicamente la prima pietra del palazzo che per secoli fu residenza dei re di Francia. Francesca avanzava mitigando i passi pesanti, dolce e pensierosa. Percettiva e comprensiva, nel silenzio magico dell'incontro con l'arte, la sua contemplazione si riposava e l'estasi, germogliando a poco a poco, si stemperava nell'anima illuminata dalla magnificente luce. Avvezza e competente ascoltava la parola pittorica e ricordava Eugène Delacroix che vedeva la prima qualità di un quadro nella gioia per l'occhio. Al Louvre Francesca amò Géricault, Jacques-Louis David, Manet, Renoir, Botticelli. Visitò nell'ampia sala a lei dedicata Monna Lisa, la Gioconda, chiusa nella teca di vetro, controllata da sofisticati congegni, bellissima e quieta nella sua immobilità. Le fece visita come a una fedele amica che ci offre, con la sua presenza calma, il riparo delle sue certezze. Francesca aveva imparato a godere dell'opera d'arte che offre a chi l'ammira un senso di appagamento, di gioia, come un buongustaio che gusti una squisitezza. Pianse di commozione davanti alle gigantesche tele di Nicolas Poussin, ammirò golosa gli ori degli Egizi.

Nei tempi che seguirono fu più volte al Louvre ed esso divenne per lei il luogo ideale per la meditazione e il sogno.

Nei giri parigini en plein air, nella pazza folla, con la sua bella copia di «Le Monde», le sembrava di assistere alla storia francese e, attraverso l'esposizione maestosa dei monumenti, di vedere i personaggi illustri che l'avevano rappresentata. Ecco la Bastiglia possente e massiccia, vuota di colpevoli politici; laggiù il re Luigi XVI era stato ghigliottinato e, più in là, a Place de l'Étoile, l'Arco di Trionfo voluto da Napoleone. Laggiù Antonio Canova intento a dipingere Napoleone e, più in là, Place Vendóme con la robusta colonna intarsiata, emblema del lusso parigino.

Vedeva l'ingegnere Eiffel impegnato nel progetto della celebre Tour, e i Campi di Marte, una volta vasta area riservata alle manovre militari, ora magnifico giardino con amplissimi viali ornati di aiuole, fontane e cascatelle artificiali.

Francesca fu spesso al Musée d'Orsay, sulla riva sinistra della Senna, di fronte ai giardini delle Tuileries, il monumentale parco settecentesco del Louvre. Il complesso monumentale di cui faceva parte presentava sedici ascensori e dieci scale mobili, una fornitissima biblioteca e due ristoranti con larghe vetrate che guardavano ai tetti di Parigi. Al Musée d'Orsay, Francesca fu impressionata fortemente da una gigantesca tela di Gustave Courbet al centro della quale si vedeva lo stesso pittore intento a dipingere un paesaggio e, ai suoi lati, nella fosca penombra dell'atelier, una trentina di personaggi divisi in due gruppi. A sinistra era evidenziata la massa sociale non abbiente, popolata di balordi e sfaccendati che rivelavano la propria condizione negli sguardi tristi e vagamente pensierosi. Alla destra, in simmetrica contraddizione, c'era il gruppo colto che incarnava i sogni e le allegorie con l'amore, la letteratura, la filosofia. Accanto all'artista, al centro, la Verità nuda che sovrintendeva tenera all'elaborazione dell'opera e, di fronte, un bimbo vestito miseramente che completava la Verità, innocente oltre che nuda. Francesca vedeva se stessa in quella nudità esente da malizia, priva di sovrastrutture meschine e compromessi di sorta, lontana dalla mediocrità, attratta dallo scibile e il bimbetto era la sua innocenza infantile palese in quella tela ma che lei custodiva gelosamente dentro di sé.

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