Autore Stefano Benedetti
Titolo Sognando Messi
SottotitoloLa verità sulle scuole calcio
EdizioneDissensi, Viareggio, 2016 , pag. 88, cop.fle., dim. 13x20x0,7 cm , Isbn 978-88-9664-362-4
LettoreDavide Allodi, 2016
Classe bambini , sport , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


PREFAZIONE                                          7

L'AMORE PER IL CALCIO                              13

QUANDO È CORRETTO INIZIARE DA PICCOLI              19

L'AFFARE "SCUOLE CALCIO"                           26

GLI ISTRUTTORI                                     33

IL DIRIGENTE ACCOMPAGNATORE                        45

I GENITORI                                         48

PARERE DEGLI ESPERTI                               59

COME HANNO FATTO GLI ALTRI                         65

SOLUZIONI                                          68

RITORNO AL PASSATO                                 80


 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE



Le riflessioni riportate qui di seguito sono il frutto di un'inchiesta involontaria, nel senso che riguardano la mia esperienza durata all'incirca 10 anni come dirigente accompagnatore in varie società di calcio, durante la quale ho potuto osservare da vicino l'ambiente "scuole calcio" della capitale. A distanza di alcuni anni, raccogliendo in un contenitore immaginario tutte le vicende a cui ho assistito, mi sono reso conto che possedevano un legame molto stretto con le sorti del calcio "che conta" e a mio avviso hanno causato (e continuano a farlo perché la realtà non è cambiata, anzi è peggiorata) la situazione disastrosa in cui versa il calcio professionistico. Ho potuto constatare che le scuole calcio attuali, presentano tutte alcuni denominatori comuni: l'assoluta inadeguatezza del personale tecnico, l'improvvisazione nei metodi di allenamento copiati di sana pianta dagli allenatori affermati e soprattutto il profitto economico come unico principio guida.

Non si è trattato qui di mettere in discussione il calcio praticato in tenera età. Sotto accusa è l'azione a dir poco scorretta perpetrata ai danni dei bambini, perché le scuole calcio nate negli ultimi 25 anni hanno come unico scopo il business. Con questa bussola gli imprenditori del calcio giovanile si sono orientati nel mondo degli affari provocando grossi danni, in primo luogo ai bambini e, secondo poi, a tutto il movimento calcio. Fino alla fine degli anni '80, quando ancora questa nuova realtà imprenditoriale non era radicata nel territorio, il calcio professionistico poteva contare su numerosi talenti nati nel nostro Paese e i successi internazionali della nazionale e delle squadre di club ne erano la testimonianza. La nazionale italiana che vinse il mondiale nel 1982, battendo squadre del calibro di Argentina, Brasile e Germania, aveva grandi giocatori in campo. Casuale fu invece la vittoria nel 2006 perché frutto di sorteggi fortunati e di una particolare situazione psicologica che la squadra visse. Si trattava infatti dell'ultimo baluardo sano nel mare della corruzione e degli scandali di "Calciopoli".

Il calcio giovanile, come anche tutti gli altri sport, funzionava quando ad organizzarlo e a gestirlo era chiamato lo Stato attraverso le scuole, con personale altamente qualificato e senza scopo di lucro.

Nel presente testo vengono spesso citati gli anni '70. Il continuo parallelismo con quegli anni vuole mettere in risalto differenze sostanziali tra il mondo del calcio di oggi, con la sua risonanza mediatica, e quello di quell'epoca. Nella tesi più importante, spesso proposta, secondo la quale "sport è uguale a gioco", sta il cuore del problema. "Gioco senza regole e senza tattiche, cambiando disciplina quando se ne ha voglia", questo è il parere di tutti gli esperti del campo ed è questo l'unico modo per andare realmente incontro ai desideri dei bambini. Tuttavia, ciò si scontra con il sistema odierno dello sport per i più piccoli fatto di tattiche, schemi, ruoli definiti, fin dalla tenera età. Questo provoca danni importanti sia alla psiche che al fisico del bambino, vittima di un trattamento di livello professionistico. Le sciagure create dalle moderne scuole calcio non si fermano ai bambini, ma si ripercuotono in modo visibile su tutto il calcio italiano. Guardando la formazione della nazionale maggiore di oggi, si fa fatica ad individuare un nome che accenda la fantasia della gente; sono perlopiù sconosciuti e se si fa un confronto con la squadra che appunto trionfò nel mondiale del 1982, piena di campioni, ci si rende immediatamente conto di quanto sia cambiato, in peggio, il calcio giovanile in Italia. È ancor più preoccupante il fatto che non sono previsti cambiamenti sostanziali per i prossimi dieci anni. Luca Valdiserri, uno dei più validi giornalisti del nostro Paese che si occupa di sport, segue con particolare attenzione il calcio giovanile e tutte le prestazioni delle nazionali minori e, sostiene che all'orizzonte non si scorge nulla di incoraggiante. Questo significa che se nelle nazionali giovanili dalla under 15 alla under 21 non ci sono talenti particolari, passerà un periodo lunghissimo prima che si possa avere una nazionale maggiore degna del passato. Alla base di questa mediocrità c'è senz'altro in buona percentuale la dissennatezza della conduzione delle scuole calcio in Italia.

Sono inclusi nella critica i genitori di oggi, che danno un contributo fondamentale alla riuscita del successo finanziario delle scuole calcio, perché condizionati dal gigantesco apparato mediatico allestito per promuovere il calcio come panacea di tutte le sofferenze umane. Noi genitori non siamo in grado di criticare in modo costruttivo la montatura creata ad arte intorno a questo sport e che trasforma un evento piuttosto marginale, se paragonato alla nostra esistenza, in un fenomeno di vitale importanza. Raggiungendo queste proporzioni, il calcio offusca ogni altro tipo di impegno, cancellando così la possibilità che ogni individuo possiede di intervenire in modo costruttivo nella realtà, attraverso la politica o l'impegno sociale. L'essere assorbiti quasi completamente dalle vicende legate al calcio e ai suoi protagonisti, non fa altro che alimentare il degrado culturale, il disimpegno sociale e il qualunquismo più banale. Quel che è peggio, non abbiamo al momento anticorpi efficaci per contrastare questa "patologia". Non esiste una controcultura che faccia chiarezza sulla questione, capace di ricacciare nel suo alveo di appartenenza una manifestazione che è solo sportiva e chi ne subisce maggiormente le conseguenze sono i bambini. Al contempo, la gestione imprenditoriale del calcio giovanile ha privato i bambini del sogno di calcare i campi da gioco in età matura, come coronamento dell'impegno profuso sui prati, come giusta ricompensa degli interminabili pomeriggi trascorsi al parco giocando partite infinite, mettendo in mostra doti tecniche e di fantasia, liberi di esprimersi senza condizionamenti alcuni. Questo è ciò che un tempo formava i campioni che si impegnavano al massimo per prendere parte ai campionati "veri", quelli con i due punti in palio, dove non importava se la categoria era quella dei giovanissimi o degli allievi regionali, l'importante era essere arrivati a tanto. Ora, scaraventati in campo a 5 anni, i bambini hanno un impatto privo di emozioni con il calcio. Il campo da gioco, le porte regolamentari, gli spogliatoi, i palloni di cuoio, le divise ufficiali, gli scarpini non rappresentano una meta da raggiungere con il sacrificio e l'impegno, bensì qualcosa che si ottiene d'ufficio, grazie all'esborso economico spesso ingente dei genitori. Così facendo, in assenza di una programmazione seria che affonda le sue radici nel rigore professionale e nell'entusiasmo dei partecipanti, solo il raro concatenarsi di eventi favorevoli potrà guidare un bambino su diecimila all'affermazione nel professionismo. Di conseguenza, sarà molto difficile ottenere in futuro risultati confortanti e si continuerà a comprare una quantità sempre maggiore di calciatori stranieri, ormai massicciamente presenti anche nelle squadre primavera. Questa sarà la prova della sconfitta del modus operandi della gestione del calcio giovanile in Italia. E il paradosso è che la maggior parte dei Paesi dai quali si prendono i giovani calciatori stranieri non ha scuole calcio!

Non possiamo aspettarci inversioni di tendenza nell'immediato, né da parte delle istituzioni statali né tantomeno da una cultura sportiva "politicamente corretta" delle persone. Eppure, l'unica speranza risiede come al solito nella gente, nella moltitudine, che è sempre stata il motore della storia e che se adeguatamente motivata, correttamente informata e organizzata, può sovvertire qualsiasi consuetudine, sia essa di carattere sociale, politico, economico, artistico, o sportivo.

In queste pagine il concetto di calcio giovanile è stato a più riprese inserito in un discorso più ampio che riguarda di volta in volta l'economia, la politica, la filosofia. È doveroso, e soprattutto onesto, trattare qualsiasi tipo di argomento inserendolo in un contesto più largo ed attuale. Una delle più grandi falsità che ci vengono propinate dai media, attraverso l'etere o dagli schermi delle televisioni, è quella che la politica non deve entrare nello sport. Trattare di sport, ma in particolar modo di calcio, come fenomeno a se stante non è corretto nei confronti della gente, poiché si mente sapendo di mentire, e si rende il mondo del calcio intoccabile. Scorporarlo dalla realtà che tutti noi viviamo quotidianamente, gli conferisce una sorta di immunità, per mezzo della quale tutto è permesso. Il calcio e i suoi protagonisti vengono così esclusi dai valori morali: partite truccate, bilanci falsati, abuso di farmaci, stipendi faraonici, sono solo alcune delle immoralità a cui la gente qualunque assiste senza indignazione. È come quando apprendiamo dai vari resoconti televisivi, fatti di cronaca agghiaccianti, come le morti in massa nel mare o per l'effetto di una bomba; non ci sentiamo più chiamati granché in causa perché ci siamo abituati: le barbarie fanno parte della nostra vita. Stessa cosa accade per il calcio: che quasi la totalità dei calciatori percepiscano stipendi annui al di sopra del milione non ci provoca alcuno sdegno, nemmeno se lottiamo per arrivare dignitosamente alla quarta settimana. Questo accade perché il calcio è un mondo a parte, decontestualizzato. Spetta a tutte le persone di buon senso ricondurlo all'interno delle dinamiche sociali per constatarne le ingiustizie e le nefandezze. Come ci raccontano i grandi filosofi del diciannovesimo secolo, non possono essere divisi la parte dal tutto, il soggetto dall'oggetto, l'individuale dal collettivo.

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Pagina 54

Le mamme e i papà di oggi, ossia quelli della mia generazione, hanno avuto la possibilità di "cambiare il mondo". Le condizioni sociali, politiche ed economiche mondiali erano favorevoli ad un profondo mutamento della società. La partecipazione alla politica attiva da parte della gente negli anni '60 e '70 era una pratica molto diffusa, le persone, attraverso le proprie organizzazioni politico sindacali di riferimento erano in grado di incidere sulla realtà. L'arte e la cultura erano parte integrante della vita dei popoli; la socialità e lo stare insieme erano qualcosa di tangibile e non di virtuale come ora. Insomma, c'erano tutti i presupposti per un cambiamento radicale. Opportunità che i nostri genitori non avevano avuto, perché avevano vissuto la guerra e in quel contesto non avrebbero potuto fare meglio. Questo li aveva segnati duramente da tutti i punti di vista e li aveva preparati ad apprezzare ogni cosa in tempo di pace. La situazione politico-economica della nazione era in evoluzione e tutta una miriade di attività fioriva in ogni campo. Naturalmente, crescere figli in un contesto del genere era senz'altro meglio che farlo oggi. I nostri genitori avevano pochi ma saldi riferimenti ideologici, sapevano apprezzare la libertà, avendo vissuto il fascismo, sapevano apprezzare il benessere, avendo patito la fame, riuscivano a comprendere l'enorme importanza della cultura avendo un grado di scolarizzazione molto basso. Di certo questo non valeva per tutti, ma sicuramente per la grande maggioranza della popolazione italiana. Su queste solide basi educavano i propri figli, senza eccedere in attenzioni, lasciando spazio all'iniziativa personale pur restando vigili sempre sul loro operato. Tra l'altro non avendo la preparazione culturale dei figli, i nostri genitori lasciavano a noi spesso l'iniziativa ritenendo di non essere in grado di dare consigli utili considerando la propria inadeguatezza ai tempi. Noi ci trovavamo ad essere liberi ed indipendenti e nella maggior parte dei casi senza tradire la loro fiducia. Poi le cose cambiarono: crisi economica, disoccupazione e al contempo grandi organizzazioni operaie, lotte studentesche, importanti tensioni sociali. A noi spettava il compito di rendere strutturale e dare continuità al periodo florido che era seguito alla fine della seconda guerra mondiale e che si era inceppato negli anni '70. Un compito ben più arduo da svolgere rispetto a quello dei nostri genitori. E noi non siamo stati in grado di portarlo a termine. Possedevamo un livello culturale sicuramente molto superiore, ciononostante tutta questa consapevolezza delle necessità, tutta questa visione globale delle questioni, tutta questa saccenteria, spesso ostentata ma non reale, non ci ha permesso di forgiare le armi per permetterci di incidere sui massimi sistemi né tantomeno sulle questioni di "piccola entità", come quella di comprendere ciò che è bene e ciò che è male per i nostri figli. Sulla base di queste veniamo valutati per il nostro compito genitoriale e le scelte nel campo delle attività sportive non ci fanno fare una bella figura. Per essere delle persone perfette sarebbe necessaria la saggezza dei nostri genitori unita al nostro livello culturale, la fiducia che essi riponevano in noi e la conseguente discrezione unita alla nostra maggiore capacità di comprendere i pericoli del mondo attuale. Aver avuto delle esperienze analoghe a quelle che i nostri figli si apprestano ad avere non significa sostituirsi a loro sempre e comunque. Va salvaguardata la loro capacità di scegliere perché, a differenza di noi genitori, i bambini non sono stati ancora manipolati, non c'è stata altra invasione dei loro cervelli se non quella operata da noi. Se riuscissimo ad avere una visione più ampia nel campo delle attività sportive da svolgere, senza fermarci alle esigenze personali che sono quelle di affidare a terzi i nostri figli perché abbiamo tante cose da fare, se riuscissimo a fare astrazione del bombardamento mediatico scatenato intorno al calcio e se riuscissimo a pensare allo sport come ad una pura e semplice attività fisica da svolgere dovunque ed in qualsiasi modo forse saremmo più vicini alle vere esigenze dei nostri bambini. Capita che, se lasciati liberi di fare ciò che vogliono, suddividano il tempo libero in parti uguali tra calcio, "nascondino", corse in bicicletta e molto altro, tutto rigorosamente svolto in aree pubbliche attrezzate o meno. Al rientro a casa abbiamo sempre bambini sfiniti ma allegri e di buon umore, senza frustrazioni, né invidie o paure. Quando commettiamo l'errore di affidare i nostri piccoli di 4, 5 o 6 anni a degli estranei che non sanno se i nostri figli soffrono di gelosia verso un fratello o una sorella, se hanno incubi la notte, se soffrono "pavor nocturnus", se non gestiscono la negazione, se hanno difficoltà a manifestare le proprie emozioni, i propri stati d'animo, a nulla vale la nostra presenza sugli spalti a vigilare su allenamenti e partitelle, perché avendo condotto lì i nostri figli non siamo il personale più qualificato per proteggerli, ci siamo macchiati di una sorta di peccato originale che ci rende inadatti a valutare la qualità del lavoro da parte di questi "mister" improvvisati. Il nostro egoismo e il nostro egocentrismo non ci consentono di essere lucidi nelle decisioni che riguardano la gestione del tempo libero e ovviamente, in questo, le istituzioni non ci danno una mano. Non c'è "un'alternativa pubblica" all'inadeguatezza del privato.

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Pagina 60

«L'attività motoria nei bambini è gioco e divertimento e deve seguire le loro inclinazioni e i loro desideri - commenta Maria Cristina Maggio, pediatra all'Università degli studi di Palermo - Gli adolescenti che abbandonano lo sport sono almeno il 33 per cento e molti hanno iniziato precocemente, anche verso i 3 anni. Non è indispensabile garantire loro una continuità nello stesso sport, ma trasmettergli l'amore verso questo stile di vita, senza gare o tattiche da seguire. I bambini che fanno sport hanno un maggiore senso di benessere, autostima, rendimento scolastico e rispetto delle regole, anche facendo danza per un anno e poi nuoto o cambiando ancora. Che il proprio figlio chieda di cambiare sport di continuo non è un fallimento e va assecondato perchè è invece indice di grande curiosità, desiderio di sperimentare e voglia di confrontarsi».

Consultando questi pareri assolutamente pertinenti e degni di nota si può notare che non viene mai presa in considerazione la possibilità di un'attività al di fuori dei centri organizzati, non viene mai associato il concetto di sport a quello di spazio pubblico, anche se lo si sottintende perché, se vengono vietate gare o tattiche, automaticamente si esclude lo "sport a pagamento". Sembra assolutamente superata la forma mentis che avevano i nostri genitori quando noi, attuali cinquantenni, eravamo bambini. Se un genitore di quella generazione pensava alla bicicletta, immediatamente immaginava il proprio figlio in sella su e giù per le rudimentali piste ciclabili dell'epoca. Se pensava al calcio, vedeva il bambino correre per ore su un prato in compagnia di altri bambini. Se pensava ai pattini, si figurava suo figlio volteggiare sulla pista di pattinaggio in cemento all'interno dello stesso parco. Anche questo significava a tutti gli effetti avere a cuore l'attività sportiva per i propri figli tanto quanto i genitori di adesso, ma per loro lo sport era quello, pura attività fisica senza implicazioni economiche, senza obblighi tattici, senza impegno ossessivo, senza agonismo esagerato. Per quello c'è sempre tempo.

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