Autore Walter Benjamin
Titolo Costellazioni
SottotitoloLe parole di Walter Benjamin
EdizioneEinaudi, Torino, 2018, Piccola Biblioteca 707 , pag. 210, cop.fle., dim. 13,5x20,8x2 cm , Isbn 978-88-06-23878-0
CuratoreAndrea Pinotti, Maurizio Guerri, Giovanni Gurisatti, Stefano Marchesoni, Antonio Somaini
LettoreCristina Lupo, 2019
Classe filosofia












 

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Indice


VII Introduzione di Andrea Pinotti
 IX Elenco delle abbreviazioni delle opere benjaminiane


    Costellazioni

  3 1.  Allegoria
  7 2.  Arti e media
 11 3.  Aura
 15 4.  Choc
 19 5.  Citazione
 23 6.  Città
 27 7.  Collezionismo
 31 8.  Conoscibilità e leggibilità
 35 9.  Critica
 39 10. Ebbrezza e hashish

 43 11. Esperienza
 47 12. Estetizzazione della politica, politicizzazione dell'arte
 51 13. Facoltà mimetica
 55 14. Fantasmagoria
 59 15. Flâneur
 63 16. Gesto
 67 17. Gioventú
 71 18. Idea, origine, fenomeno originario, monade
 75 19. Immagine
 79 20. Inconscio ottico

 83 21. Infanzia
 87 22. Innervazione e training
 91 23. Jetztzeit
 95 24. Lingua
 99 25. Materialismo antropologico
103 26. Medium e Apparat
107 27. Melanconia
111 28. Memoria, ricordo, rammemorazione
115 29. Mito
119 30. Montaggio

123 31. Narrazione
127 32. Nichilismo messianico
131 33. Nuda vita
135 34. Passage
139 35. Raccoglimento e distrazione
143 36. Riproducibilità
147 37. Sogno e risveglio
15, 38. Storia
155 39. Storicità della percezione
159 40. Tecnica

163 41. Traduzione
167 42. Valore cultuale e valore espositivo
171 43. Violenza

175 Bibliografia
203 Gli autori
205 Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Introduzione


Fra i patrimoni che il Novecento filosofico ci ha lasciato in eredità, il pensiero e l'opera di Walter Benjamin sono senza ombra di dubbio fra i piú produttivi e fecondi. La sua saggistica, fulminea e penetrante, ha spaziato dalla critica letteraria alla teologia, dalla teoria dei media alla filosofia della storia e della politica, dall'estetica delle arti visive alla teoria dell'architettura e della città. Punto di convergenza di tradizioni eterogenee - pensiero romantico e morfologia di ascendenza goethiana, messianismo ebraico sui generis e marxismo eterodosso, neokantismo e teoria critica francofortese, nonché le numerose suggestioni provenienti dalle avanguardie artistiche e letterarie (prima fra tutte il Surrealismo) -, la riflessione di Benjamin ha trovato espressione in una molteplicità di generi, che vanno dalla dissertazione all'aforisma, dal verbale di esperimenti con l'hashish al montaggio di citazioni, dalla recensione al racconto autobiografico. Le sue scelte stilistiche sono state altrettanto varie e talora apparentemente incompatibili, spaziando dall'approccio sociologico all'evocazione esoterica. Questa natura ibrida del suo pensiero e della sua scrittura ha esercitato una potente attrazione su un pubblico altrettanto ibrido di lettori e interpreti, che si sono accostati e continuano ad accostarsi alle sue opere provenendo da percorsi e ambiti disciplinari differenti: lettori e interpreti affascinati, ma spesso anche disorientati e qualche volta sconcertati da un autore difficilmente riconducibile a un'etichetta storiografica convenzionale.

Il presente volume si propone di offrire uno strumento per orientarsi nel territorio, sempre stimolante ma spesso impervio, della riflessione di Benjamin. Il libro è articolato in quarantatre voci - ordinate alfabeticamente, da «Allegoria» a «Violenza» -, a formare un vero e proprio lemmario benjaminiano. Ciascun lemma espone in modo sintetico un concetto fondamentale dell'elaborazione teorica del filosofo tedesco, avendo cura di ricostruirne lo sviluppo storico nel corso della sua breve ma intensa parabola intellettuale, e di segnalare i relativi passi salienti all'interno del corpus dei suoi scritti (quelli pubblicati in vita e quelli, assai numerosi, rimasti inediti e resi disponibili solo dopo la sua morte).

In ogni lemma i lettori troveranno, evidenziati da asterischi (*), i rinvii ad altri lemmi presenti nel volume, in modo da consentire di tessere una fitta rete di relazioni e rimandi reciproci: cosí, solo per fare un esempio, «Inconscio ottico» rimanda alle voci «Medium», «Storicità della percezione», «Riproducibilità», «Immagine dialettica», «Sogno e risveglio», «Choc», «Esperienza», «Innervazione e training», «Montaggio». A sua volta, ciascuna di queste voci rinvia ad altre presenti nel volume, invitando il lettore ad aprire piste differenti e ad intersecare percorsi alternativi, secondo i suoi interessi, esigenze e sensibilità: un'operazione che è possibile intraprendere muovendo a piacere da un lemma qualsiasi dell'elenco. Ogni voce, infine, si chiude suggerendo possibili approfondimenti bibliografici, che permetteranno di estendere quella rete alla storia degli effetti e delle interpretazioni del pensiero benjaminiano.

Nella Premessa gnoseologica allo studio sul dramma barocco tedesco Benjamin ebbe a scrivere che «le idee si rapportano alle cose come le costellazioni si rapportano alle stelle»: nella congerie di punti luminosi irrelati che splendono nella volta celeste le configurazioni astrali fungono da cruciale strumento di orientamento che trasforma il caos in cosmo. Ispirandosi a questa immagine, il lemmario che qui proponiamo offre la possibilità di proiettare - come in un planetario - sulla volta del pensiero benjaminiano le costellazioni che disegnano i tratti fondamentali dell'esperienza della modernità cosí come è stata esplorata da uno dei suoi primi, e piú acuti, pionieri: una modernità che, lungi dall'essere stata archiviata dalle derive post-moderniste, non cessa di interpellare criticamente il nostro presente.

ANDREA PINOTTI

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Pagina 27

7. Collezionismo


Per Benjamin il collezionismo fu al contempo una pratica di vita e una figura del pensiero. In varie fasi della sua vita e a seconda delle circostanze (aggravatesi dopo l'emigrazione forzata, in quanto ebreo e comunista, dalla Germania nazista nel marzo del 1933), Benjamin si abbandonò a quella che egli stesso riconobbe come la «mia mania di collezionista» (Diario moscovita, 1926-27; ...), che lo afferrò fin dall'infanzia:

Ogni pietra trovata, ogni fiore raccolto, ogni farfalla prigioniera era per me già l'avvio di una collezione e, in generale, tutto ciò che possedevo era per me un'unica collezione. «Mettere a posto» avrebbe demolito un edificio pieno di spinose castagne, di carte stagnole, di cubetti da costruzione, di cactus, di monetine di rame, che erano astri del mattino, tesori d'argento, bare, alberi totemici e stemmi araldici (Infanzia berlinese intorno al millenovecento, 1932; ... ).

Cosí, agli oggetti tipici del collezionismo infantile - francobolli (...), cartoline (...), figurine (...), farfalle (...), le medaglie dorate delle scatole di sigari (...) - Si aggiunsero in età adulta i libri per bambini (cfr. per l'elenco Benjamin 1981, 79-117) e i libri di malati di mente (...), nonché i disegni e le illustrazioni (...).

Appassionato visitatore di collezioni altrui (soprattutto le piú improbabili), avvertiva con gli altri collezionisti un'elettiva affinità, che gli consentiva una facilità nei rapporti umani altrimenti per lui difficile da conseguire: «Con nessuno riesco a entrare in contatto meglio che con un collezionista» (lettera a Gretel Adorno, inizi di aprile 1939; GB VI, 248). Di uno in particolare, Anton Maria Pachinger, annotò ammirato nei materiali del Passagenwerk che una volta si era chinato all'improvviso «per raccogliere ciò che aveva cercato per settimane: l'esemplare difettoso di un biglietto di tram, che era stato in circolazione per un'ora soltanto» (...). Forse per aneddoti come questi Benjamin prediligeva, fra le molte definizioni dei collezionisti, quella che li contrassegna come «adoratori del caso», «fisiognomici convinti che non vi è nulla che possa capitare alle cose di tanto stravagante, imprevedibile, inavvertito da non lasciarvi le sue tracce» ( Gabriele Eckehard, Il libro tedesco nel periodo del barocco, 1930; ...).

Il nesso fra collezionismo e fisiognomica viene piú volte ribadito: per la sua peculiare capacità di scorgere lati inediti e inappariscenti delle cose (anche, e soprattutto, di quelle piú umili e marginali), il collezionista è annoverato, insieme al flâneur, al falsario, al giocatore, al dandy, fra gli «strumenti di studi fisiognomici» che dovevano guidare Benjamin nella descrizione del volto della modernità visto nello specchio della Parigi del XIX secolo (...).

Nella polarità di vicinanza e lontananza, che informa la concezione benjaminiana della costitutiva storicità della percezione, il collezionismo appare preso in una strutturale dialetticità: da un lato, il passato che gli oggetti collezionati evocano allo sguardo amoroso del collezionista lo trasforma in «un mago che attraverso di essi guardi nella loro lontananza» ( Elogio della bambola, 1930; ...). Dall'altro, - in virtù del suo «tête à tête con le cose» (...) e della sua intima adesione fisiognomica a esse - il collezionismo viene annoverato fra le «manifestazioni profane della "vicinanza"» (...); i collezionisti sono «persone dall'istinto tattile» (...).

Ma tale adesione non deve essere scambiata per un'accettazione incondizionata dello stato delle cose. Piuttosto il contrario. Il gesto del collezionista interviene con decisione a scardinare un ordine costituito, consolidato nelle tradizionali tassonomie, per ricomporre i frammenti in un ordine nuovo, regolato dalla logica sui generis che governa la sua collezione, nella quale ogni oggetto è monade che sintetizza in sé tutto il mondo cui apparteneva:

La vera, misconosciutissima passione del collezionista è sempre anarchica, distruttiva. [...] Per il collezionista, in ciascuno dei suoi oggetti è presente il mondo stesso. E lo è in modo ordinato. Ordinato però secondo un contesto sorprendente, incomprensibile al profano (Elogio della bambola, 1930; ...).

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Pagina 59

15. Flâneur


All'interno del variegato bestiario umano che popola la «Parigi, capitale del XIX secolo» e í suoi passages - dandy, oziosi, prostitute, cocottes, letterati, feuilletonistes, collezionisti, apaches, giocatori, bohémiens, cospiratori -, il flâneur occupa una posizione centrale, tanto da meritare una sezione apposita sia ne I «passages» di Parigi (1927-40; ...), sia nel saggio La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire (1938; ...). Ma l'arte metropolitana della flânerie - da flâner, «andare a zonzo, bighellonare per passatempo, passeggiare, gironzolare oziosamente» - è presente ovunque negli scritti di Benjamin sul flâneur Baudelaire (cfr. Su alcuni motivi in Baudelaire, 1939; ...), ed è a tema in tre recensioni che, tra il 1926 e il 1929, egli dedicò all'amico-flâneur berlinese Franz Hessel (...). Non è un caso se fu proprio in collaborazione con Hessel, e stimolato da Le paysan de Paris del flâneur surrealista Aragon (1926), che Benjamin, nel 1927, stese il primo abbozzo del Passagenwerk (...). Né bisogna dimenticare che egli esercitò la flânerie in prima persona, come dimostrano le sue esperienze di «fisiognomica» della città riportate in Napoli (1924; ...), Mosca (1927; ...), Weimar (1928; ...), Marsiglia e San Gimignano (1929; ...).

Benjamin tuttavia non indugia in apologie letterarie del flâneur, ma ne indaga la dialettica storica, ne fa cioè una immagine dialettica della modernità che, a Parigi, viene colta nel suo passare attraverso la soglia tra società premoderna e moderna, generando quella fantasmagoria borghese in cui rientra anche il flâneur, nel suo ambiguo rapporto con la strada, Ia folla, la merce. In ciò egli si distingue nettamente dal Man of the Crowd londinese di Edgar Allan Poe (1840). Da un lato, infatti, il flâneur parigino è magicamente attratto dal traffico incessante dei boulevards, dalla folla elettrizzante e movimentata, dalle merci vestite a festa dalla moda e dalla réclame, e desidera immergersi in tutto ciò; dall'altro, però, al di sotto di questa precoce société du spectacle, intuisce un alcunché di angoscioso, ripugnante e spaventoso: la nascita, dissimulata dalla nouveauté, di una società di massa sempreuguale, anonima, barbarica, succube di nuove forme di dominio. Se per un verso la folla lo attira a sé, per l'altro

la coscienza del suo carattere inumano non lo ha perciò mai abbandonato. Egli diventa suo complice, e quasi nello stesso istante se ne distacca. Si mescola largamente con essa per fulminarla improvvisamente nel nulla con uno sguardo di disprezzo (...).

Il flâneur coglie la corrispondenza tra «l'esperienza dello choc fatta dal passante nella folla» e quella «dell'operaio addetto alle macchine» (...): in entrambi i casi il «meccanismo sociale» di anestetizzazione soggiogante ha prodotto automatismi e uniformità nei modi di vestire, di comportamento, di espressione. L' alter ego negativo del flâneur è rappresentato, qui, dal «giocatore d'azzardo» (...), addetto alla roulette come l'operaio alla macchina: comune a entrambi è la cupa dedizione a un'attività riflessa, vana, vuota, che liquida ogni esperienza vitale nel «tempo infernale» della ripetizione coatta.

È quindi un disprezzo tipicamente dandystico (cfr. Barbey d'Aurevilly 1844) contro il conformismo di una «vita da automi» a spingere il flâneur a trovare riparo nell'eterotopia del passage, le cui atmosfere sospese, i ritmi rallentati, gli consentono di contrapporre fieramente il proprio otium al negotium dilagante. «Ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza», come lo definisce Baudelaire (1863), il flâneur-dandy, conducendo la sua «tartaruga al guinzaglio» per il passage, protesta con la sua personalità contro l'affarismo, il culto del progresso, la laboriosità da «catena di montaggio» che si sono ormai impadroniti della sua città (...).

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Pagina 83

21. Infanzia


Numerose e complesse sono le riflessioni dedicate da Benjamin al mondo dell'infanzia, ai suoi soggetti (i bambini) e ai suoi oggetti (i giocattoli e i libri per l'infanzia), e alla peculiare esperienza che lega gli uni agli altri. Il suo approccio alla dimensione infantile non è tuttavia ingenuamente idealizzante; è, piuttosto, aperto anche ai «lati crudeli, grotteschi, feroci», all'«elemento dispotico, disumano» della sfera infantile (Antichi giocattoli, 1928; ...).

Quanto ai giocattoli, ogni loro aspetto è degno per Benjamin di considerazione: dalle modalità produttive ai condizionamenti delle corporazioni, dalle prime specializzazioni professionali (comparse nel XIX secolo) alle prime rivendite all'ingrosso, dalle tecniche ai materiali, dai formati ( Storia culturale del giocattolo, 1928; ...) alle differenze delle tradizioni nazionali ( Giocattoli russi, 1930; ...). Sarebbe tuttavia fuorviante interpretare il giocattolo come un oggetto esclusivamente infantile: costruito perlopiù dagli adulti per i bambini, esso parla dei desideri e dei sogni non solo dei secondi ma anche (e forse di più) dei primi, e costituisce un terreno nel quale si dispiega il «rapporto dialettico» fra le generazioni ( Giocattolo e gioco, 1928; ...). Lo stesso Benjamin ebbe a incarnare tale dialettica, dedicando ai bambini alcune conversazioni radiofoniche proprio su questo tema ( Passeggiata berlinese tra i giocattoli I e lI, 1930; ...).

Quanto alla letteratura per l'infanzia, Benjamin nutrí per essa una profonda passione, intrecciatasi inscindibilmente alla sua inclinazione per il collezionismo: la sua ricca collezione di libri per bambini (originatasi dalla biblioteca della madre, e dunque dalla raccolta dei libri che egli stesso aveva letto da bambino), ora conservata all'Institut für Jugendbuchforschung dell'Università di Francoforte (...), doveva offrirgli la documentazione per un lavoro di ampio respiro su questo tema, di cui tuttavia ci rimangono solo le poche pagine dello scritto Sguardo sul libro per l'infanzia (1926; ...).

Attraverso i libri per bambini (soprattutto tramite l'efficace interazione di parola e immagine nel libro illustrato) si veicolano saperi e conoscenze generazionali ( Raccolta di filastrocche francofortesi, 1925; ...; Abbecedari di cento anni fa, 1928; ...), ma anche modelli pedagogici e ideologici rispetto ai quali Benjamin esercita una vigilanza critica ( Pedagogia coloniale, 1930; ...), pervenendo a delineare i tratti fondamentali di un approccio educativo alternativo a quello capitalistico-borghese ( Una pedagogia comunista, 1929; ...; Programma di un teatro proletario di bambini, 1929; ...).

Il rapporto del bambino con i propri giocattoli e con i propri libri si fonda su due tratti decisivi: l'«ancora una volta», «l'oscuro impulso alla ripetizione», attraverso la quale instancabilmente vengono iterati i piaceri ludici della vittoria, ma anche smussati i traumi e gli choc di esperienze potenzialmente pericolose ( Giocattolo e gioco; ...). E la relazione al corpo proprio, molto piú sensibile rispetto all'adulto nel cogliere analogie e somiglianze e nel dispiegare in tutta la sua potenza la facoltà mimetica. Cosí, se nel leggere i bambini operano «sempre cosí: incorporando, non immedesimandosi» ( Letteratura per l'infanzia; ...), anche nel giocare il loro relazionarsi agli oggetti può essere adeguatamente compreso solo a patto di correggere un «radicale errore»: quello che

consiste nel supporre che il contenuto rappresentativo del suo giocattolo determini il gioco del bambino, poiché in realtà capita piuttosto il contrario. Il bambino vuole trainare qualcosa e diventa cavallo, vuole giocare con la sabbia e diventa fornaio, vuole nascondersi e diventa ladro o gendarme. [...] Quanto piú i giocattoli sono attraenti nel senso abituale, tanto meno sono adatti a giocare; quanto piú l'imitazione è esplicita, tanto piú portano lontano dal gioco vivo. [...] L'imitazione - cosí può essere formulato questo concetto - ha la propria sede naturale nel gioco, non nel giocattolo (Storia culturale del giocattolo; ...).

Quanto piú il giocattolo è dettagliato e precisato nelle sue componenti e nelle sue funzioni, tanto piú esso limita la fantasia creatrice del bambino, che al contrario si alimenta di materiali informi, di scarti residuali, che vengono salvati dalla distruzione e dall'oblio e risignificati in una vera e propria operazione di montaggio.

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34. Passage


È difficile sottovalutare la rilevanza attribuita da Benjamin al passage, che egli ritiene essere «la piú importante architettura» del XIX secolo, ponendolo al centro di quello che avrebbe dovuto essere il capolavoro della sua vita: il Passagenwerk, l'opera colossale (piú di mille pagine nell'edizione italiana) su I «passages» di Parigi (OC IX), che Adorno defini «il vero e proprio chef d'œuvre di Benjamin, una cosa di immensa portata teoretica, una concezione geniale» (lettera a Max Horkheimer dell'8 giugno 1935; ...). Il fatto che tale opera, cui Benjamin lavorò dal 1927 al 1940, sia rimasta allo stato di torso (due Exposés aforistici, frammenti e materiali raggruppati per temi, progetti di stesura) la rende ancora piú affascinante e aperta all'interpretazione - tanto piú se si tiene conto della regola che l'autore si diede per il suo allestimento:

Questo lavoro deve sviluppare al massimo grado l'arte di citare senza virgolette. La sua teoria è intimamente connessa a quella del montaggio. [...] Adottare nella storia il principio del montaggio. Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Scoprire, anzi, nell'analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell'accadere totale (...).

È questo statuto monadologico a fare del passage il «fenomeno originario» del XIX secolo, giacché Benjamin vi coglie micrologicamente l'espressione visiva del carattere economico, sociale, culturale di un'epoca nel suo essere «soglia», anzi «passaggio» dalla fase premoderna a quella moderna della società capitalista, nel periodo in cui la città, e in particolare la «Parigi, capitale del XIX secolo», si appresta a diventare un grande meccanismo al servizio della merce e del consumo di massa.

Che cosa sono i passages di Parigi nella loro età aurea, tra il 1822 e il 1847? La descrizione di un contemporaneo, riportata da Benjamin nell' Exposé del 1935, recita:

Questi passages, recente invenzione del lusso industriale, sono corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti rivestite di marmo, che attraversano interi caseggiati [...]. Sui due lati di questi corridoi, che ricevono luce dall'alto, si succedono i piú eleganti negozi, sicché un passaggio del genere è una città, anzi un mondo in miniatura (AC 372).

Il passage è quindi il luogo aurorale della «fantasmagoria» capitalista (i «capricci teologici» della merce illustrati da Marx nel Libro I del Capitale, 1867, ..., e ripresi da Lukács in Storia e coscienza di classe, 1923; ...), cioè di quella trasfigurazione cultuale-feticistica dell'oggetto-merce nell'idolo di un nuovo rituale collettivo, che, passando per la société du spectacle di Debord (1967) e la société de consommation di Baudrillard (1974), giunge, nelle sue estreme propaggini, fino agli attuali shopping center dilaganti dentro e fuori le nostre metropoli (...).

Da «archeologo» della modernità, Benjamin è però interessato alla dialettica storica del passage: nato come intérieur mercantile di lusso per un pubblico d'élite, esso incontra il proprio compimento - e il proprio limite - nel «grande magazzino» (il primo, il Bon Marché, nasce nel 1852), che, con la sua organizzazione razionale e il suo pubblico di massa, si contrappone al passage come sua «forma degenerata», mero show della merce-standard, che induce il consumatore ad abbandonarsi «alle sue manipolazioni, godendo della propria alienazione da sé e dagli altri» (Exposé del 1935, ...). Nondimeno, proprio in virtú della sua crisi determinata dal dilagare dei grands magasins, il passage - con un ribaltamento che ne fa una tipica immagine dialettica - acquista una potenzialità utopica ed eversiva: abbandonato da boutiques e ateliers alla moda, cui si sostituiscono bottegucce di antiquari, collezionisti, rigattieri, piccoli artigiani, ecc., il passage si trasforma nell' inconscio della metropoli, eterotopia onirica in cui le cose (e le soggettività) scartate e rimosse dal super-mercato appaiono trasferite «in un mondo migliore, [...] libere dalla schiavitú di essere utili» (381). Fu per questo suo acquisito carattere «anarchico» e underground che il tardo passage - frequentato per lo piú da una bohème di marginali assortiti - ispirò sia il Paysan de Paris di Aragon (1926), capolavoro del Surrealismo, sia Addio alla Lindenpassage di Kracauer (1930). Quando Benjamin annota: «Il padre del Surrealismo fu Dada, sua madre un passage» (...), intende sottolineare quel nucleo sovversivo del passage che le avanguardie avrebbero dovuto portare a realizzazione politica, da un lato risvegliandosi dalla fantasmagoria capitalista, dall'altro scatenando le energie rivoluzionarie riposte nell'inconscio di quella stessa fantasmagoria.

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