Copertina
Autore Tahar Ben Jelloun
Titolo Ospitalità francese
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 1998 [1992], Tracce , pag. 156, cop.fle., dim. 140x210x14 mm , Isbn 978-88-89212-09-7
OriginaleHospitalité française [1984]
EdizioneSeuil, Paris, 1984
TraduttoreStefania Papetti
LettoreGiovanna Bacci, 2006
Classe politica , sociologia , storia contemporanea , paesi: Francia
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Indice

  7  Prefazione all'edizione italiana

     Ospitalità francese

 13  Introduzione
 15  I.    Le leggi dell'ospitalità
 29  II.   Un razzismo profondo ed epidermico
 53  III.  Un razzismo tranquillo e popolare
 65  IV.   Sull'indignazione selettiva
 73  V.    Un'immagine miserabilista
 81  VI.   I vecchi e i nuovi
117  VII.  Gli Stati mercanti
131  VIII. Il mito del ritorno
143  IX.   Gli esteti del silenzio
151  Conclusione

 

 

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Pagina 13

Introduzione



Il 22 settembre 1981, ero invitato ad Antenne 2 midi. In teoria, dovevo parlare di letteratura. Il giorno prima fui informato che Bernard Langlois avrebbe condotto il suo programma all'aperto, a Vénissieux. I giovani maghrebini che vivevano in quei complessi edilizi erano all'epoca oggetto di una campagna che li presentava come piromani e vandali (durante l'estate furono incendiate automobili di lusso e rotti dei vetri). Non volevo partecipare a quella trasmissione. Ne avevo abbastanza di essere «l'arabo di servizio» e di passare per «lo specialista» dell'immigrazione, tanto piú che nessuno mi ha mai designato come il portavoce della comunità maghrebina. Tuttavia, l'idea di trovarsi a confronto con dei giovani che avevano fatto parlare di sé i giornali in quella periferia lionese mi mise in uno stato di eccitazione in cui la curiosità si mescolava a una sorta di apprensione. Stavo per assistere a una violenta presa di parola.

Molto prima che iniziasse il programma, sul posto prescelto per la trasmissione si riversarono un centinaio di giovani maghrebini, arrivati là decisi a parlare, a dire alla Francia quello che non è abituata a sentire, decisi a rettificare l'immagine che la stampa aveva diffuso di loro.

Da giornalista accorto, che si rende conto dell'eccezionalità della situazione, Bernard Langlois si lasciò sopraffare. Il che portò a uno dei migliori momenti della televisione francese: dal fondo dei corpi in cui erano seppellite, scaturirono parole piene di violenza, di grida e di emozione. Il microfono era nelle loro mani, e nessuno osava toglierglielo. Soltanto il sindaco comunista, apparentemente disgustato da quella confusione, abbandonò la scena denunciando i «provocatori».

Io ero là, in disparte, inquieto e turbato. Quegli sguardi sorridenti e vivi, quelle voci strappate al cemento, dissero ai francesi, in diretta, in maniera spontanea e inconsueta, l'erosione dell'anima, l'usura del corpo, destino di una generazione condannata all'oblio e alla brutalità dell'epoca.

Una tale disperazione appena nominata, intravista per qualche minuto sulle immagini di edifici per metà abbandonati, travolta come un'onda di polvere da un vento furioso, racchiusa nei corpi che gesticolano, gridano, per paura di non essere sentiti, suscitò in me un sentimento d'impotenza, di collera e di nausea. Misurai l'estensione del dolore e l'estremo abbandono in cui era stata seppellita quella generazione che non scelse l'esilio. Allo stesso tempo, la trasmissione testimoniava una cosa evidente: la Francia della crisi e della chiusura ha ben altre urgenze cui badare; non ha né il tempo né la voglia di vedere e di comprendere il dolore che abita in quei volti impazienti. Oggi come ieri, lo stesso sguardo si volge altrove.

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Pagina 46

Si è giustificato l' odio inconscio che in ciascuno di noi segue alla paura. Ma poiché non si è fornito anche il coraggio fisico, la paura e l'odio si scatenano sugli esseri inferiori, sui piccoli: immigrati, bambini (questa è una novità)... » ("Le Monde", 3 agosto 1983).

In realtà, non è una novità: i bambini si sono trovati sul cammino della paura e dell'odio. Di solito, è il padre che si cerca di eliminare. Se, oggi, questi si troverà su quello stesso cammino, potrà difficilmente evitare il fuoco dell'uomo esasperato, perché quell'uomo, è da decenni che prepara il suo fucile, è da anni che i vicini gli portano i proiettili, l'olio per lucidare l'arma, il sostegno morale, l'incoraggiamento e perfino un inizio di decolpevolizzazione, è da anni che ogni tiratore eventuale o candidato al tiro viene preparato dagli uni e dagli altri, dalla stampa locale o nazionale, dai discorsi degli uomini politici, da una noncuranza generalizzata, tutto un insieme di elementi, di gesti e di pensieri, tutto un pezzo della storia francese, che veicola in maniera evidente o velata una quantità non trascurabile di razzismo anti-arabo. Cosí, l'uomo che spara non è un uomo solo. Non sono dieci, non sono cento, ma migliaia; persone perbene, né troppo cattive né troppo buone; cittadini come ce ne sono ovunque; un po' miserabili, che forse disprezzano se stessi senza mai confessarlo, ma che hanno dentro di sé abbastanza odio da sparare contro un bambino, abbastanza paura da credersi minacciati e abbastanza imbecillità da partecipare, con il loro silenzio, al linciaggio simbolico di quel ragazzino, per poi l'indomani riprendere il lavoro come se tornassero da una festa non troppo riuscita.

L'identità pesa su ognuno e secerne un'angoscia simile a un veleno che corrode il corpo: le persone hanno paura di non somigliare piú all'immagine che si fanno di se stesse, di non corrispondere piú all'immagine che la storia e quelli che la manipolano fabbricano per loro. Cosí, ci sono dei profili che non devono in nessun caso confondersi con altri. Si insegna loro che il profilo maghrebino ha delle caratteristiche – e dei geni! – strane e malsane! Ecco cosí una riserva di odio alimentata quotidianamente da tutto l'ambiente circostante; certe persone perbene aspettano guardando tranquillamente la televisione. Non sono cattive; il loro gesto è al di là della cattiveria; viene da lontano, da cosí lontano che sarebbe ingiusto accanirsi contro di loro! Si aggiungono a una lunga tradizione. Non furono esasperati e scandalizzati, durante l'inverno 1982, dagli scioperi nel settore automobilistico portati avanti principalmente dagli immigrati nella Renault-Flins e nella Citroën-Aulnay? La stessa CGT si è vista scavalcata. E non si sentirono qua o là commenti carichi di insinuazioni razziste? Si credette durante quell'inverno di sentire Charles Maurras che denunciava, il 6 ottobre 1920, «l'orribile canaglia degli ebrei d'Oriente [che infestano] i diversi Arrondissements. Portano i pidocchi, la peste, il tifo, in attesa della Rivoluzione» ("L'Action française").

Ecco quanto affermava, su "Le Monde" dell'11 febbraio 1983, il presidente del Fronte nazionale, Jean-Marie Le Pen: «Alcune minoranze nazionali straniere armate e organizzate minacciano la sicurezza interna ed esterna dei francesi». Egli ha denunciato anche la forte concentrazione di immigrati nel settore automobilistico il quale, disse, «come si è visto negli altri Paesi, fa un po' da caserma della rivoluzione».

Cosí, gli immigrati hanno a poco a poco preso il posto degli ebrei nell'ingiuria e nei discorsi razzisti. Sessantatre anni separano le due dichiarazioni: lo stesso disprezzo, lo stesso razzismo, tuttavia con una piccola differenza: nemmeno un militante di estrema destra osa riconoscere pubblicamente il suo razzismo anti-immigrato. Forse la legge «1 luglio 1972», che punisce le discriminazioni e gli atti di razzismo, votata all'unanimità, serve a qualcosa. Come quel militante del Fronte nazionale che era il numero due sulla lista per le elezioni municipali a Dreux, Jean-Pierre Stirbois, il cui slogan elettorale recitava: «Due milioni di disoccupati, due milioni di immigrati! La Francia ai francesi!». Egli proponeva di rimandare gli immigrati nei loro Paesi; questi disoccupati, questi sfaccendati, questi delinquenti... «non sono i padroni in casa nostra!». Razzista? «Assolutamente no!», risponde ("Le Monde", 11 febbraio 1983).

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Pagina 62

Lottare contro il razzismo, significa correre il rischio di non piacere al proprio elettorato, denunciare gli atteggiamenti e le reazioni quasi naturali della propria società. È un lavoro che non è necessariamente popolare e la cui redditività non è immediata.

L'insicurezza economica favorisce e inasprisce i sentimenti xenofobi. Il ruolo di un grande partito operaio sarebbe quello di impedire che la diffidenza e la paura giungano a rendere ancora piú profondo l'abisso tra francesi e immigrati. Si tratta di uno scivolamento verso il razzismo, di una deviazione verso l'odio che una mobilitazione di grande portata, di quelle che il PC riesce a provocare, dovrebbe arrestare. È possibile lottare contro la disoccupazione pur conducendo una campagna contro il razzismo e contro le manipolazioni politiche che alcuni non esitano a intraprendere pubblicamente. Perché la disoccupazione colpisce anche gli immigrati; e la loro insicurezza è ancora piú grave, dato che alla fine di un certo periodo dovranno rientrare nei loro Paesi, senza lavoro, senza risparmi, e inoltre con la colpevolezza di un fallimento. E anche perché è stato provato diverse volte che i posti di lavoro liberati dagli stranieri non vengono tutti ripresi dai francesi.

Il sociologo Edgar Morin ha segnalato quanto fosse disonesto fare degli immigrati, in questi tempi di crisi, i capri espiatori: «Già, il malessere dell'insicurezza economica e il disagio dell'insicurezza fisica hanno trovato il loro unico capro espiatorio: gli immigrati. E a questo proposito, bisogna anche notare un fenomeno provvisoriamente confortante. Almeno fino all'elezione-test di Dreux, l'odio e il furore razzisti sono rimasti confinati nel campo delle opinioni e dei comportamenti privati. Non riuscivano a esprimersi sul piano politico, dove l'ideologia umanistica ereditata dalla Rivoluzione francese, poi dai principi socialisti, respinge, proprio nel settore privato, l'atteggiamento razzista. Nel 1981, lo stesso partito comunista non aveva potuto beneficiare del razzismo ambientale di una parte del suo elettorato popolare, e le sue provocazioni contro i nuclei nordafricani non avevano prodotto alcun risultato. Tuttavia, le elezioni di Dreux ci indicano che il razzismo affettivo popolare può operare una congiunzione con il razzismo ideologico-politico dell'estrema destra. Quest'ultima è ancora incapace di proporre un mito della salvezza, ma è senz'altro capace di coltivare il mito del capro espiatorio» ("Le Monde", 11 ottobre 1983).

Quello che Edgar Morin chiama «il razzismo affettivo popolare» è stato da lungo tempo coltivato nelle menti dalla maniera stessa di insegnare la storia recente della Francia: si è tralasciato di decolonizzare l'immaginario di una grande parte dei francesi. Come annullare questa immagine: coloro che ancora ieri erano dominati, oggi si trovano nelle fabbriche e nei cantieri? Le stesse reazioni, gli stessi comportamenti di disprezzo e di ignoranza sono stati ereditati di generazione in generazione. Paradosso: il maghrebino rimasto nel suo Paese continua a mantenere con la Francia e con i francesi un rapporto affettivo in cui la stima è mista a una certa irritazione, ma mai al rancore. L'algerino ha un rapporto piú forte e piú complesso con l'ex colonizzatore di quanto non lo abbiano il tunisino e il marocchino. Rimane tuttavia il fatto che la delusione è generale; non c'è piú lo stesso senso né la stessa qualità dell'ospitalità — in un'accezione molto larga — da una parte e dall'altra del Mediterraneo. L'algerino, in particolare, ha tutte le ragioni storiche per non amare la Francia e i francesi. Le ferite sono ancora vive; eppure la memoria araba, quella del popolo in ogni caso, non le mostra affatto. In seguito agli omicidi di maghrebini in Francia, non c'è nel Maghreb né vendetta né spirito di rivincita. Ci sono tutti gli elementi per alimentare un razzismo antifrancese. Eppure, nessuno si azzarda a utilizzarli. È una questione di civiltà.

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Pagina 81

VI. I vecchi e i nuovi



Due generazioni, una stessa ostilità

Il razzismo antimaghrebino non si riempie di sfumature. Non fa differenza fra algerini, marocchini, tunisini, arabi e berberi, giovani o vecchi. Al limite, è questo che provoca all'interno di queste comunità una solidarietà sentimentale come all'epoca del colonialismo in cui i tre popoli del Maghreb erano uniti.

Se i problemi sono praticamente gli stessi per la generazione passata, la cui immagine e il cui destino rimangono legati alla guerra d'Algeria, essi si pongono in maniera diversa ed esigono nuove soluzioni per la generazione che viene a torto chiamata seconda e che è piuttosto «la generazione spontanea della rottura».

Il razzismo diretto contro i vecchi si sfiata nelle sue argomentazioni ripetitive e ossessive. È spesso giustificato dagli stereotipi classici che riguardano l'aspetto, il fisico. È lo stesso procedimento dell'anti-semitismo: difetti del corpo, comportamento subdolo, turbamento dell'ordine culturale e religioso, ecc.

Questa popolazione svolge suo malgrado la funzione di specchio nei confronti della società francese. Le rimanda l'immagine devastata dell'intolleranza e del malessere sullo sfondo di conflitti e di scontri fra le culture. A causa di questa funzione, raramente riconosciuta, la parola dell'immigrato non viene ascoltata. Non succede spesso che lo si inviti a esprimersi. A ogni modo, la maggior parte dei francesi non manifesta premura di ascoltare ciò che l'immigrato può dirgli. Quelli che hanno la pretesa di ascoltare la loro parola, la alterano e se ne impossessano per fonderla nei propri discorsi.

Gli autori di Situations migratoires lo fanno notare molto bene: «Ciò che si crede di sentire dagli immigrati quando si cerca di ascoltarli, non è la loro parola, ma soltanto il suono dell'impatto di questa parola con le nostre istituzioni e niente altro. In altri termini, si è visto come, per esempio, in fabbrica, l'apparato sindacale tenti di canalizzare le espressioni degli immigrati per farle entrare in un ordine teorico, costitutivo, che è quello della lotta di classe, sul quale esso si fonda. Parola di portavoce, parola selvaggia o parola dell'individuo assoggettato che viene ascoltata, ma pur sempre parola, una baraonda, un sincretismo, una reinterpretazione».

Al limite, niente è veramente formulato. Talvolta, si viene a sapere che un vicino, che non sopporta gli odori della cucina o la musica di una festa familiare, prende il fucile e spara contro gli arabi. Si esprime. Manifesta qualcosa di vago ma allo stesso tempo di preciso: quella comunità di stranieri lo disturba con la sua maniera di vivere — nulla di molto preciso —, quindi egli decide, freddamente oppure sotto l'impulso della collera o della demenza, di eliminarla fisicamente o simbolicamente.

L'esasperazione è al massimo. Quando lo stesso gesto si ripete per le stesse ragioni in altre parti del Paese, non è piú una questione da individuo a individuo — non è piú un fatto di cronaca isolato ed eccezionale —, ma è una questione che concerne l'insieme di una società.

I sociologi hanno trovato una spiegazione molto comoda e che è stata adottata da tutti, compresi i partiti di sinistra come il PS o il PCF. Si tratta della famosa soglia di tolleranza: a partire da una certa percentuale (dal 10% all'11%) di stranieri in uno spazio abitato, i rischi di una non-tolleranza verso l'Altro sono reali e possono sfociare in drammi. Cosí, per evitare reazioni di violenza razzista, occorre dosare bene lo spazio. Qui si insinua una perversità inattesa: ci sarebbero degli stranieri meno stranieri degli altri. Cosí, gli immigrati che appartengono alla sfera della civiltà giudeo-cristiana come i portoghesi, gli spagnoli o gli italiani sarebbero meglio tollerati di quelli che provengono da una cultura troppo diversa, come la cultura musulmana (arabi e turchi). Può darsi che gli immigrati europei si adattino meglio degli altri. Essi si sentono anche meglio accettati.

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VIII. Il mito del ritorno



Prima degli anni Settanta, chi parlava di ritorno, e, soprattutto, chi ne faceva un problema? C'era un flusso migratorio piú o meno variabile; alcuni arrivavano, altri rientravano definitivamente nel Paese a causa del logoramento, a causa della nostalgia, quel desiderio di invecchiare e di morire al paese.

Si è cominciato a parlare di ritorno – massiccio o individuale – con la crisi economica del 1973, e alcuni, in particolare, brandirono lo slogan della disoccupazione aggravata dalla presenza degli immigrati sul suolo francese.

A partire dal 1977, e dopo il blocco dell'immigrazione (1974), si tentò di mettere a punto una politica di assimilazione delle etnie latine – esse sono meno straniere, cioè meno strane e meno diverse – e di rifiuto delle etnie considerate non assimilabili, cioè difficilmente recuperabili. Stranamente, saranno i portoghesi e gli spagnoli ad accettare il «milione» di ritorno e non i maghrebini di cui ci si voleva sbarazzare, a causa di tutto il passivo storico mal digerito da certi responsabili (il 70% dei beneficiari era di origine europea!).

Per i maghrebini, il problema del ritorno è complesso, per quanto è denso di valori simbolici e affettivi. All'infuori del caso del ritorno volontariamente deciso, quindi preparato e soprattutto articolato secondo un'immagine positiva – si torna perché si è terminato un lavoro e si è riusciti in qualcosa –, il ritorno provocato o forzato è vissuto come un fallimento personale e un'umiliazione dell'identità della comunità alla quale si appartiene.


cen Cifre e uomini

Di immigrati ce ne sono molti. Troppi, secondo alcuni. Il 1983 sarebbe stato l'anno di tutti i fantasmi. Il numero degli immigrati è quasi raddoppiato: da 3600000 secondo un'inchiesta di "Libération" del 9 settembre a 6 milioni secondo "Minute".

Il ministero degli Interni si è anch'esso sbagliato nei suoi calcoli: da una cifra a un'altra, 159999 stranieri erano spariti, cancellati da un tratto di penna o svaniti sotto il peso degli archivi. Che importa! Il bollettino ufficiale li ha ritrovati, e rende pubblica la seguente cifra: 4459068 stranieri in Francia al 31 dicembre 1982 (866595 algerini, 492669 marocchini, 212909 tunisini). Quanto a "Minute", è straniero colui che non è bianco; cosí i francesi originari dei dipartimenti e dei territori d'oltremare che vivono nella Francia metropolitana sono considerati degli immigrati...


Per prima cosa, è psicologicamente difficile, quando si è vissuto per vent'anni e piú in una società, anche se ci si è vissuto male – e al limite soprattutto se ci si è vissuto male –, ritornare al proprio paese e trovarsi di fronte a quelli che, rimasti sul posto, non sono in grado di comprendere un tale ritorno. Viene vissuto come una frattura, una brutale rottura in un ordine, una perturbazione dalle conseguenze gravi. Poi, il ritorno forzato è un'ingiustizia politica. L'immigrato è trattato secondo la vecchia tradizione del rapporto Nord-Sud, Paesi ricchi-Paesi poveri, quella dello scambio iniquo. L'immigrato diventa un'astrazione, un elemento quantificabile in un'analisi economica. Oggetto intercambiabile, manipolabile, che si rimanda indietro dopo che si è logorato. Se soltanto le autorità del suo Paese avessero considerato il suo ritorno e preparato il terreno per un reinserimento, per mettere fine a una vita senza dolore e senza ferite supplementari. Poiché niente è stato fatto né da una parte né dall'altra, il ritorno – un nuovo sradicamento violento quanto la partenza per l'emigrazione, se non in certi casi piú violento – si è imposto in termini autoritari. Non si tratta di un semplice spostamento — l'altro termine del viaggio.

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