Copertina
Autore Tahar Ben Jelloun
Titolo Partire
EdizioneBompiani, Milano, 2007, Narratori stranieri , pag. 270, cop.fle.sov., dim. 15x21x2,2 cm , Isbn 978-88-452-5834-3
TraduttoreAnna Maria Lorusso
LettoreAngela Razzini, 2007
Classe narrativa marocchina , narrativa francese
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Pagina 7

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Toutia



A Tangeri, d'inverno, il Caffè Hafa si trasforma in un osservatorio dei sogni e delle loro conseguenze. I gatti delle terrazze, del cimitero e del forno più importante del Marshan si danno appuntamento lì come per assistere a uno spettacolo silenzioso da cui tutti si fanno incantare. Le lunghe pipe di kif circolano da un tavolo all'altro, e i bicchieri di tè alla menta si raffreddano circondati da api che finiscono per caderci dentro, nell'indifferenza degli avventori persi ormai da tempo nelle volute dell'hascisc e di fantasticherie da quattro soldi. In fondo a una delle sale, due uomini preparano scrupolosamente la pozione che dischiude le porte ai viaggi. Uno di loro seleziona le foglie e le sminuzza con una tecnica rapida ed efficace. Nessuno dei due solleva la testa. Gli altri, seduti sulle stuoie e con le spalle al muro, fissano l'orizzonte come a interrogare il proprio destino. Guardano il mare, le nuvole che si confondono con le montagne, e aspettano l'apparizione delle prime luci della Spagna. Le seguono senza vederle, e talvolta le vedono proprio quando sono velate dalla bruma e dal cattivo tempo.

Tutti tacciono. Tutti hanno l'orecchio teso. Stasera forse farà la sua comparsa, parlerà loro, canterà loro la canzone dell'annegato trasformato in una stella marina sospesa sopra lo stretto. Hanno stabilito di non nominarla mai. Nominarla significherebbe annientarla, oltre a causare una sequela di disgrazie. Quindi, tutti si guardano l'un l'altro senza dire niente. Ciascuno entra nel proprio sogno con i pugni stretti. Solo il maestro del tè, il proprietario del posto, e i suoi servitori sono esenti dall'incantesimo, intenti come sono a preparare e a servire con discrezione le bevande, andando e venendo da una terrazza all'altra senza disturbare il sogno di nessuno.

Gli uomini li presenti si conoscono ma non si parlano. La maggior parte di loro viene dallo stesso quartiere e ha giusto i soldi per pagarsi il tè e qualche pipa di kif. Alcuni hanno una lavagnetta su cui annotano i propri debiti. Come se si fossero tutti messi d'accordo, non aprono bocca. E soprattutto non adesso, a quest'ora della giornata e in questo istante delicato in cui tutto il loro essere è teso verso un punto lontano, mentre spiano il minimo fremito delle onde o il rumore di una vecchia imbarcazione che rientra in porto. Gli può capitare di sentire, come un'eco, un SOS. Si guardano senza fare commenti. Ci sono tutte le condizioni perché lei appaia e sveli loro uno dei suoi segreti. Un cielo chiaro, un cielo quasi bianco che si riflette in un mare limpido divenuto ora fonte di luce. Il silenzio nel caffè, il silenzio sui volti. L'istante tanto atteso è quasi arrivato: tra poco parlerà!

Ogni tanto può capitare che parlino di lei, soprattutto quando il mare restituisce il cadavere di un annegato. "Si è di nuovo arricchita," dicono, "ci dovrà pure qualcosa!" L'hanno soprannominata "Toutia", una parola che non vuol dir nulla, ma tra di loro sanno che si tratta di una specie di ragno che alcune volte si nutre di carne umana mentre altre volte dispensa favori, come quando si trasforma in una voce che suggerisce loro che questa notte non è il caso di partire e che la partenza va rimandata.

Come bambini, loro credono a questa storia che li ammalia e che li fa addormentare con le spalle contro il muro ruvido. Nei grandi bicchieri di tè freddo, la menta verde è diventata nera. Le api sono tutte annegate sul fondo. E loro non bevono più questo tè, che è decantato così a lungo da esser diventato amaro. Con il cucchiaio estraggono le api a una a una, le depositano sul tavolo e si dicono: povere bestioline annegate, vittime della loro stessa ingordigia!


Come in un sogno assurdo e ricorrente, Azel vede il proprio corpo nudo in mezzo ad altri corpi nudi enfiati dall'acqua di mare, il viso deformato dall'attesa e dal sale, la pelle bruciata dal sole lacerata all'altezza delle braccia, come se il naufragio fosse stato preceduto da una zuffa. Si vede in maniera sempre più distinta a bordo di una barca dipinta di bianco e di blu, la barca di un pescatore che si fa largo con lentezza sconfinata verso il mare aperto; Azel ha stabilito che il mare che egli vede di fronte a sé ha un centro e che questo centro è un cerchio verde, un cimitero dove la corrente si impadronisce dei cadaveri per poi trascinarli sul fondo e deporli su un banco di alghe. E sa che lì, proprio in quel cerchio, esiste una frontiera mobile, una sorta di linea di demarcazione fra due acque, quelle calme e piatte del Mediterraneo e quelle furenti e impetuose dell'Atlantico. Si tappa il naso, perché a forza di vedersi davanti queste immagini ha finito per sentire l'odore della morte, un odore soffocante che gli aleggia intorno dandogli la nausea. Quando chiude gli occhi, la morte si mette a danzare attorno al tavolo a cui lui ha l'abitudine di sedersi ogni giorno per guardare il tramonto e per contare le prime luci che si accendono lì di fronte, sulle coste spagnole. I suoi amici lo raggiungono e giocano a carte senza dire una parola. Anche se alcuni di loro sono ossessionati tanto quanto lui dall'idea di lasciare il paese, un giorno, sanno, e una notte gliel'ha detto anche la voce di "Toutia", che non dovrebbero perdersi in immagini portatrici di dolore.

Azel non dice una parola a proposito del suo progetto e nemmeno del suo sogno. Si vede che è nervoso, infelice; e dicono che sia stregato dall'amore per una donna sposata. Gli vengono attribuite delle avventure con delle straniere; si sospetta che le frequenti sperando così di trovare il modo per uscire dal Marocco. Lui ovviamente nega e preferisce riderci su. Ma l'idea di prendere il largo, di montare su un cavallo dipinto di verde e di attraversare il mare dello stretto, questa idea di diventare un'ombra trasparente, visibile solo di giorno, un'immagine che naviga sui flutti a vele spiegate, non lo abbandona mai. Se la tiene per sé, non ne parla neanche a sua sorella Kenza e ancor meno a sua madre, che si preoccupa vedendolo dimagrire e fumare troppo.

Anche lui ha finito per credere alla storia di quell'apparizione che li aiuterà ad attraversare, uno dopo l'altro, la distanza che li separa dalla vita, la bella vita, o dalla morte.

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Il paese



Per la prima volta in vita sua, Azel lasciò il Marocco e salì su un aereo. Sua madre e sua sorella lo avevano accompagnato all'aeroporto. Piangevano a dirotto. Azel era turbato, a disagio per via dello spettacolo che stavano dando. Ma si rinfrancò vedendo che non erano le sole. Lalla Zohra aveva preparato una borsa piena di cibarie: dolci al miele, crépes e olive nere. Azel si rifiutò di prenderla, ma sua madre lo supplicò. Lui si vergognava. La polizia si comportò in maniera corretta, i doganieri anche. L'aereo era un po' in ritardo. La cosa lo rendeva nervoso. Gli venne voglia di rileggere la lettera che aveva scritto al suo paese il giorno in cui aveva ricevuto il visto di entrata e il permesso di soggiorno per la Spagna. Si sedette al bar, ordinò un caffè, tirò fuori il suo quaderno da scolaretto e si mise a rileggerla, il sorriso in volto. Era diffidente, temeva di venire ingannato. Di tanto in tanto interrompeva la lettura, e continuando a bere osservava le espressioni dei viaggiatori. A un certo punto un'ape si mise a volare intorno al tavolo, e lui si ritrovò a seguirla con lo sguardo. Poi si sentì un annuncio che diceva che l'imbarco era stato ritardato di mezz'ora "a causa dell'arrivo posticipato dell'aeromobile". All'improvviso ebbe voglia di sparire, di andarsene lontano da lì a leggere ad alta voce quella lettera che molti dei suoi amici avrebbero voluto scrivere.

Caro paese (sì, bisogna pur dire "Caro paese"; il re dice 'Mio caro popolo"),

oggi per me è un gran giorno: finalmente ho la possibilità, la fortuna di andarmene, di lasciarti, di non respirare più la tua aria, di non subire più le tue vessazioni e le umiliazioni della tua polizia. Parto, il cuore aperto, lo sguardo fisso sull'orizzonte, fisso sull'avvenire; non so esattamente cosa andrò a fare: tutto quello che so è che sono pronto a cambiare, pronto a vivere libero, a rendermi utile, a intraprendere cose che faranno di me un uomo che cammina con le proprie gambe, un uomo che non ha più paura, che non aspetta che sua sorella gli allunghi qualche banconota per uscire, per comprarsi le sigarette, un uomo che non avrà mai più a che fare con Al Afia, quel malvivente, quel poco di buono che traffica e che corrompe la gente, che non farà più il procacciatore di clienti per El Haj, un vecchio rimbambito che importuna le ragazze senza poi neanche andarci a letto, che non farà più lavoretti inutili, che non avrà più bisogno di mostrare il suo titolo di studio per poi sentirsi dire che non serve a niente... Me ne vado, mio caro paese, attraverso la frontiera, mi dirigo verso altri luoghi forte di un contratto di lavoro, e finalmente mi guadagnerò da vivere; la mia terra non è stata clemente né con me né con molti altri ragazzi della mia generazione, noi che abbiamo creduto che gli studi ci potessero aprire delle porte, che il Marocco l'avrebbe fatta finita col sistema dei privilegi, delle disuguaglianze, ma tutti ci hanno abbandonato e ce la siamo dovuti cavare da soli, abbiamo dovuto fare qualunque cosa pur di sopravvivere... Alcuni di noi hanno bussato alla porta giusta, sono stati pronti ad accettare qualsiasi cosa, mentre altri hanno dovuto battersi...

Ma, caro paese, io non ti lascio definitivamente, mi dai solo in prestito agli spagnoli, i nostri vicini, i nostri amici. Li conosciamo bene, per molto tempo sono stati poveri come noi, ma poi, un giorno, Franco è morto ed è arrivata la democrazia, seguita dalla prosperità e dalla libertà. Tutto questo l'ho imparato sulle terrazze dei caffè, il posto che noi marocchini abbiamo scelto per scrutare senza tregua le coste spagnole e per recitare a memoria la storia di questo bel paese. Abbiamo finito per sentire delle voci, persuasi che a forza di fissare le coste una sirena o un angelo avrebbero avuto pietà di noi e sarebbero venuti a prenderci per mano, per farci attraversare lo stretto. La follia lentamente si è impadronita di noi. È così che il piccolo Rachid si è ritrovato internato nell'ospedale psichiatrico di Beni Makada. Nessuno sapeva di quale male soffrisse, ormai non faceva che ripetere una sola parola, "Spania", e si rifiutava di mangiare, sperando di diventare così leggero da prendere il volo sulle ali dell'angelo!

O, paese mio, mia volontà tradita, mio desiderio bruciato, mio principale rimpianto! Tieni stretti a te mia madre, mia sorella e i miei pochi amici. Tu sei il mio sole e la mia tristezza, e io te li affido perché, quando tornerò, voglio ritrovarli in buona salute, soprattutto la mia piccola famiglia, ma liberaci da quei delinquenti che ti feriscono perché trovano protezione invece di trovare giustizia e prigione, liberaci da quei bruti che imparano le leggi solo per aggirarle, niente li ferma; "Il denaro," come dice mia madre, "addolcisce le cose amare"!

Io non sono un soggetto irreprensibile, sono lontano dall'essere perfetto, e non sono nemmeno del tutto onesto, non sono che una briciola in un banchetto i cui convitati sono sempre gli stessi, in cui il povero sarà sempre guardato con sospetto e la sua povertà sarà sempre vista come un delitto, un errore. "Il denaro è lì, vecchio mio, basta prenderlo," mi ripeteva spesso Al Afia. "Per non essere più povero, basta solo che tu ti decida!"

Anch'io sono stato tentato di fare come gli altri, ma una mano, la mano di mia madre, la mano di mio padre che ho conosciuto poco, mi hanno rimesso sulla retta via. Grazie a loro, non ho scelto la strada più semplice.

Ma ora devo smettere di scrivere, ho sonno. Mi immagino in aereo. Non ho paura, e sono eccitato, curioso, caro paese, di vederti dall'alto; spero che il pilota abbia la buona idea di sorvolare, solo per me, Tangeri, perché io possa dirle addio, perché io indovini chi c'è in quella capanna che si vedrà da lontano, chi soffre fra quelle pareti crepate, chi vive in quella bidonville e per quanto tempo ancora riuscirà a sopportare quella miseria.

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Abdeslam faceva il muratore. Amava costruire, mettere le pietre una sull'altra e dirsi che erano state le sue mani ad aver fatto quel lavoro. Aveva l'animo dell'artigiano. Certe case, restaurate da lui, ora valevano di più. Amava i lavori ben fatti, detestava arrivare in ritardo, ma più di ogni altra cosa amava creare nuovi spazi all'interno delle vecchie case tradizionali. Certi europei ricorrevano a lui, cosa che lo lusingava e lo rendeva ancora più esigente con se stesso e con i suoi operai.

L'immagine di Noureddine che gli sorrideva un attimo prima di salire sulla barca non lo abbandonava mai. Aveva cercato di dar vita a un'associazione contro le traversate clandestine ed era riuscito a coinvolgere molte delle famiglie che avevano perso uno dei propri cari. Si ritrovavano regolarmente alla moschea e pregavano insieme. Più concretamente, avevano chiesto alle autorità di reagire di fronte al problema e avevano osato scrivere al re supplicandolo di porre fine a questa emorragia. Con loro grande sorpresa, uno dei suoi consiglieri aveva risposto tramite una bella lettera per nulla formale. Vi erano espressi sentimenti molto umani e vi si anticipava che il re avrebbe designato una commissione per varare delle leggi che in futuro sarebbero state dibattute in Parlamento, e che era sinceramente dispiaciuto per questa situazione dolorosa per il Marocco e per la sua immagine all'estero.

Abdeslam era fiero della cosa, dal momento che l'idea della lettera al re era stata sua. Aveva chiuso Azel in una stanza affinché la scrivesse. Azel, da parte sua, non aveva alcuna fiducia nella lettera. "Pensi che il re non abbia nient'altro da fare che leggere la nostra lettera? E anche se per miracolo gli arrivasse, credi davvero che farà qualcosa, che risponderà? Tu sogni. Ha talmente tanta gente intorno che non riesce nemmeno ad accorgersi di ciò che lo circonda. Gli impediscono di vedere la realtà, e tutto perché queste persone hanno paura di perdere la loro posizione; così ogni giorno gli dicono: 'Va tutto bene, Maestà, non c'è da preoccuparsi di nulla, Maestà, Vostra Maestà desidera visitare i quartieri da cui partono i clandestini, Beni Makada, Drissia, o Hay Saddam? Ai vostri ordini, Maestà, organizziamo subito le misure di sicurezza...' Poi lo fanno aspettare qualche giorno, il tempo di ridipingere i muri, di presidiare il quartiere e via dicendo."

Era stato così che Abdeslam era diventato un militante del non partire, un avversario accanito dei traghettatori. Andava un po' ovunque a parlare a coloro che si preparavano a fare la traversata per spiegargli che avevano solo una possibilità su dieci di mettere piede in Europa. Aveva fotocopiato la lettera del re e l'aveva distribuita in alcuni caffè.

Ma che dire di fronte a coloro che gli rispondevano: "Una possibilità su dieci? È già qualcosa! È una partita a poker, una follia. In ogni caso, se restiamo qui, in questo caffè, non ci succederà niente, assolutamente niente, e fra dieci anni saremo ancora qui a bere lo stesso caffè macchiato e a fumare kif in attesa di un miracolo, un miracolo che consiste in un lavoro, un buon lavoro, ben pagato, che ci garantisca rispetto, sicurezza, dignità..."

Ad Abdeslam sarebbe piaciuto fare i miracoli, ma non era altro che un muratore, uno che aveva perso suo fratello e che ne soffriva giorno e notte.

Quando cercava di trovare degli argomenti, si metteva a balbettare. E veniva preso in giro.

"Sì, ecco, ora ci farai il tuo discorso sul paese che ha bisogno dei suoi figli, il paese che non va abbandonato perché se tutti se ne andassero non ci sarebbe più nessun paese. Sì, sì, noi amiamo il nostro paese, ma è lui che non ci ama! Nessuno fa niente per darci delle buone ragioni per restare. Hai visto come vanno le cose? Se sei ricco, mangi, bevi, vai dove ti pare, ti mostri comprensivo ed è tutto a posto, ma visto che le cose stanno così, come puoi pensare che questo paese possa essere amato?"

"Ma, merda, in fondo il paese siamo noi, sono i nostri figli e i figli dei nostri figli!"

Fu a questo punto della discussione che Azel raggiunse Abdeslam, rosso in viso per la collera.

Gli sguardi che si posarono su Azel in qualche modo lo fecero sentire a disagio. Ai loro occhi, appariva come colui che ce l'aveva fatta, anche se in una maniera inconfessabile. Pagò da bere a tutti e disse:

"Sapete, laggiù ho visto dei marocchini in miseria, dei barboni, gente senza dignità che si trascina per le strade vivendo di espedienti; non è dignitoso. Aspettate un po', ho saputo che l'Europa avrà presto bisogno di molti milioni di immigrati; verrà lei stessa a cercarvi, e allora partirete a testa alta, senza correre il benché minimo rischio."

Una voce si levò dal gruppo:

"Per questo bisogna avere un faccino carino come il tuo!"

E poi un'altra:

"È facile fare questi discorsi quando non si lavora con le proprie mani..."

Azel non rispose e si alzò, seguito subito dopo da Abdeslam.

La sera si confidò con l'amico:

"Hanno ragione, mi vergogno, ma sono sicuro che in loro c'è anche della gelosia. Avrebbero fatto come me se ne avessero avuto la possibilità. Ora le cose per me si complicano. Miguel ha appena sposato Kenza, almeno sulla carta, così lei avrà un permesso di soggiorno e potrà lasciare Tangeri. Vivrà insieme a noi a Barcellona, in attesa di trovare un lavoro e una casa. Anche mia madre spera di riuscire a raggiungerci! Ti immagini? Roba da pazzi! Vuoi che ti confessi una cosa? Non mi trovo a mio agio, e in tutta questa storia non so più neanche bene chi sono. Un falso, una menzogna su tutta la linea, passo il mio tempo a fingere, a fuggire, solo con Siham mi sento a mio agio, ma lei non è quasi mai disponibile, e poi non abita a Barcellona."

Abdeslam lo ascoltava in silenzio. A questo punto c'era una domanda che lo ossessionava, ma non sapeva come formularla.

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