Autore Erica Benner
Titolo Esser volpe
SottotitoloVita di Niccolò Machiavelli
EdizioneBompiani, Milano, 2017, Overlock , pag. 496, cop.fle.sov., dim. 15x21x3 cm , Isbn 978-88-452-8387-1
OriginaleBe Like the Fox. Machiavelli's Lifelong Quest for Freedom
EdizioneAllan Lane, London, 2017
TraduttoreLorenzo Matteoli
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe biografie , citta': Firenze , storia moderna , paesi: Italia: 1500 , storia letteraria












 

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Indice


    Personaggi                                            5


    Prefazione                                           11

 1. L'importanza della buona fede                        25

 2. Non accettare imposizioni autoritarie                33

 3. Non farti ingannare dalla finta gloria               41

 4. Guardati dai dottori                                 57

 5. Non aver paura dei giganti                           71

 6. Come parlare dei principi                            81

 7. Riconquista la tua libertà                           95

 8. La strada per il paradiso                           115

 9. Sei accecato dall'avidità del presente              153

10. Costruisci dighe e argini                           189

11. La fortuna arride ai giovani impetuosi              225

12. Come vincere                                        267

13. Conosci te stesso e controlla le tue speranze       307

14. Sii come la volpe                                   339

15. Fa' finta di essere stupido                         369

16. Immagina una vera repubblica                        395

17. Non mollare mai                                     425

    Epilogo                                             457


    Note                                                461

    Bibliografia                                        477


 

 

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PERSONAGGI





FAMIGLIA MACHIAVELLI



NICCOLÒ MACHIAVELLI, secondo cancelliere della repubblica di Firenze dal 1498 al 1512; poeta, commediografo, storico, analista e scrittore politico.

BERNARDO E BARTOLOMMEA MACHIAVELLI, i suoi genitori.

PRIMAVERA, MARGHERITA E TOTTO MACHIAVELLI, sorelle e fratello di Niccolò.

MARIETTA (CORSINI) MACHIAVELLI, moglie di Niccolò.

BERNARDO, LUDOVICO, PIERO, GUIDO, BACCINA e TOTTO MACHIAVELLI, figli di Niccolò e Marietta.

MENCIA, servetta di Bartolommea.

NICOLÒ DI ALESSANDRO MACHIAVELLI, cugino più giovane e vicino di casa di Bernardo Machiavelli padre.




AMICI DI NICCOLÒ MACHIAVELLI



BIAGIO BUONACCORSI, fedele aiutante di Niccolò nella cancelleria.

AGOSTINO VESPUCCI, collega di ufficio e amico nella cancelleria, membro della famiglia patrizia Vespucci, esperto di arte, editore del primo lavoro pubblicato da Machiavelli.

FILIPPO CASAVECCHIA, collega e amico.

FRANCESCO VETTORI, eminente patrizio fiorentino, titolare di importanti incarichi nella repubblica e sotto i Medici, corrispondente fraterno di Machiavelli per tutta la vita.

CIRCOLO DEGLI ORTI ORICELLARI, Cosimo Rucellai (nipote di Bernardo Rucellai), Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni, Battista della Palla.

FRANCESCO GUICCIARDINI, avvocato, storico ed eminente figura politica nel governo dei Medici dopo il 1512.

JACOPO FALCONETTI, ricco uomo d'affari di umili origini che mette in scena una spettacolare produzione della commedia di Machiavelli Mandragola.

BARBERA SALUTATI RAFFACANI, giovane cantante e musicista di cui Machiavelli si innamora in età avanzata.




LA CASA DE' MEDICI



LORENZO detto IL MAGNIFICO, signore di Firenze dal 1469 al 1492.

GIULIANO, fratello minore di Lorenzo, ucciso nella congiura dei Pazzi del 1478.


I figli di Lorenzo

PIERO, figlio primogenito ed erede di Lorenzo, signore di Firenze dal 1492 al 1494.

GIOVANNI, nel 1513 divenne PAPA LEONE X.

GIULIANO, nominato duca di Nemours nel 1515 da Francesco I di Francia.


I figli di Piero

LORENZO DI PIERO, nominato duca di Urbino dallo zio Leone X, signore di Firenze dal 1513 al 1519. Sposa Madeleine de la Tour dalla quale ha una figlia, Caterina de' Medici, che diventerà regina di Francia, moglie di Enrico II di Valois.

CLARICE, sposerà Filippo Strozzi al quale darà ben dieci figli.


Altri

ALFONSINA ORSINI DE' MEDICI, moglie napoletana di Piero, madre di Lorenzo di Piero de' Medici e per lui reggente di Firenze dal 1515 al 1519.

GIULIO DE' MEDICI, figlio del Giuliano ucciso nella congiura dei Pazzi, nel 1523 divenne PAPA CLEMENTE VII.

ALESSANDRO E IPPOLITO DE' MEDICI, cugini, figli rispettivamente di Lorenzo di Piero e di Giuliano di Piero.




ALTRI PROTAGONISTI A FIRENZE



LA FAMIGLIA PAZZI, ricchi banchieri che organizzano il 26 aprile 1478 la congiura contro i Medici, appoggiata da papa Sisto IV Della Rovere, nella quale viene ucciso Giuliano, fratello di Lorenzo il Magnifico.

BARTOLOMEO SCALA, cancelliere sotto i Medici e amico di Bernardo Machiavelli, padre di Niccolò.

GIROLAMO SAVONAROLA, frate domenicano di Ferrara che con i suoi sermoni domina Firenze tra il 1492 e il 1498 quando viene condannato a morte come eretico.

BERNARDO RUCELLAI, patrizio grande oppositore del governo popolare della Signoria (1498-1512), apri ai più importanti letterati del tempo i suoi giardini, detti Orti Oricellari, dove Machiavellí avrebbe partecipato tra il 1515 e il 1520 ai dialoghi che originarono i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio e L'arte della guerra.

GUIDANTONIO VESPUCCI, patrizio fiorentino, avvocato e amico e alleato politico di Bernardo Rucellai.

TOMMASO SODERINI, patrizio fiorentino, anziano uomo di stato nei primi anni della signoria di Lorenzo il Magnifico e del suo governo.


I figli di Soderíni

PAOLOANTONIO SODERINI, sostenitore del governo popolare e di Girolamo Savonarola.

PIERO SODERINI, eletto primo gonfaloniere a vita nel 1502.

FRANCESCO SODERINI, vescovo di Volterra e in seguito cardinale, protettore e mentore di Niccolò Machiavelli.


Altri

PAOLO VITELLI, capitano di ventura, comanda l'esercito mercenario di Firenze nel 1498-1499, accusato di tradimento e condannato a morte dal governo della repubblica popolare della Signoria.

FILIPPO STROZZI (IL GIOVANE), erede della famiglia di banchieri, sposa Clarice de' Medici.




FUORI FIRENZE



Gli italiani

CATERINA SFORZA RIARIO, signora di Forlì e Imola in Romagna, alleata della vicina Firenze.

IL POPOLO PISANO, si ribella contro il dominio di Firenze nel 1494 e inizia una lunga ed estenuante guerra che finirà solo nel 1509.

VITELLOZZO VITELLI, fratello di Paolo e suo luogotenente, in seguito alleato di Cesare Borgia, che, accusandolo di tradimento, lo farà uccidere a Cesena.


I francesi

CARLO VIII DI VALOIS-ORLÉANS, re di Francia, i cui eserciti attraversano l'Italia e si fermano intorno a Firenze nel 1494.

LUIGI XII DI VALOIS-ORLÉANS, re di Francia, successore di Carlo VIII, alleato e più importante difensore della repubblica di Firenze.

GEORGES D'AMBOISE, cardinale, consigliere capo di Luigi XII.

FLORIMOND ROBERTET, un altro consigliere di Luigi XII.

FRANCESCO I DI VALOIS-ANGOULÉME, re di Francia, successore di Luigi XII.


I papi non fiorentini e loro parenti

SISTO IV (Francesco della Rovere), sospettato di essere istigatore della congiura dei Pazzi a Firenze.

ALESSANDRO VI (Rodrigo Borgia), corrotto e nepotista.

CESARE BORGIA, figlio di Alessandro VI e da lui nominato comandante degli eserciti papalini, nominato duca di Valentinois da Luigi XII.

GIULIO II (Giuliano della Rovere), noto come il Papa Terribile per le sue disposizioni bellicose, ostile a Firenze.

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PREFAZIONE



Nell'inverno del 1538 un inglese che viveva in Italia andò a Firenze. Il cardinale Reginald Pole era un devoto fedele della chiesa di Roma al tempo nel quale la Riforma minacciava di sconvolgere la cristianità. Si era autoesiliato dal suo paese natio dopo essersi opposto al divorzio di Enrico VIII da Caterina di Aragona e si era trasferito in Italia.

Insieme ad altri suoi affari in Firenze, il cardinale Pole aveva una missione personale. Una decina di giorni prima della sua partenza aveva incontrato Thomas Cromwell, un uomo di modeste origini che era ora il più intimo consigliere del re. Cromwell non aveva mai perso l'occasione – o così sembrava a Pole – per incoraggiare tutti i desideri lascivi e blasfemi di Enrico. Pole era convinto che fosse stato proprio questo ambizioso consigliere del re a progettare il divorzio del monarca e a mettere l'Inghilterra contro la chiesa; aveva ordito l'assassinio di preti e di nobili – e aveva sempre trovato pretesti ipocriti per giustificare i suoi misfatti. Pensando ai guai che lo avevano allontanato dalla sua patria, Pole non vedeva l'ora di procurarsi un libro sull'arte di governare che Cromwell aveva molto lodato quando si erano incontrati. L'autore del libro era un cittadino di Firenze. Era morto dieci anni prima per cui Pole non avrebbe potuto incontrarlo di persona. Ma se il cardinale avesse potuto leggere quel libro avrebbe potuto capire cosa pensava Cromwell e cosa consigliava a Enrico e quindi capire cosa stava succedendo alla sua povera Inghilterra.

Dopo essersi procurato una copia del libro, Pole cominciò a leggerlo prima incuriosito e poi inorridito. "Avevo appena incominciato a leggere il libro," scrisse più tardi, "quando vi riconobbi la mano di Satana. Anche se il nome dell'autore era quello di un uomo e lo scritto era chiaro ed elegante." Il testo del fiorentino esponeva con crudo realismo tutte le dottrine che sembravano dominare l'azione politica di Cromwell. I principi, diceva, dovevano fondare il loro potere sulla paura piuttosto che sull'amore. Siccome vivevano in un mondo pieno di bugie e di violenza non avevano altra scelta se non la pratica della doppiezza. Il principe più abile nell'inganno sarà quello che avrà più successo. In breve, dichiarò Pole, il libro tanto ammirato da Cromwell era "pieno di cose che avevano l'orrendo fetore della malvagità di Satana". Chiaramente il suo autore "è un nemico della razza umana". Il libro che aveva tanto scandalizzato il cardinale Pole era Il principe e il suo autore era Niccolò Machiavelli.

Scandalizzato e incuriosito, Pole era deciso a scoprire tutto quello che poteva dell'uomo che aveva scritto quelle cose. Machiavelli, venne poi a sapere il cardinale, aveva a suo tempo provocato grande irritazione nella famiglia dei Medici, signori di Firenze. Nel 1512, un anno prima di scrivere la sua opera più importante, il nuovo governo dei Medici lo aveva estromesso dalle cariche che aveva occupato per quasi quindici anni al servizio della Signoria, lo aveva poi imprigionato e torturato perché sospettato di complottare contro i Medici. Pole aveva appreso queste scarse notizie biografiche interrogando i suoi ospiti fiorentini sul loro concittadino. Quando esprimeva il suo pensiero sul libro "questi giustificavano l'autore rispondendo all'accusa con l'argomento che lo stesso Machiavelli aveva usato quando gli erano state fatte le medesime obiezioni". Così scrisse il cardinale.

La risposta di Machiavelli, dicevano i fiorentini, era che non tutto nel Principe era espressione delle sue personali opinioni. Aveva scritto piuttosto quello che pensava sarebbe piaciuto al principe e in particolare al signore dei Medici al quale aveva dedicato il volumetto: Lorenzo di Piero de' Medici, un giovane uomo con forte propensione alla tirannia. Ma, sempre secondo gli anonimi ospiti di Pole, lo scopo di Machiavelli non era solo quello di ottenerne i favori con l'adulazione: aveva infatti un obiettivo molto più sinistro. Questo autore, quanto mai scaltro, non si faceva illusioni sulla utilità dei suoi perfidi insegnamenti. Infatti era sicuro che qualunque principe li avesse messi in pratica avrebbe suscitato immediatamente l'odio popolare che lo avrebbe poi travolto. E questo, dicevano gli amici fiorentini del cardinale Pole, era precisamente quello che voleva Machiavelli. Il suo disegno era di "scrivere per un tiranno quelle cose che piacciono ai tiranni, provocando in questo modo la sua rapida fine per effetto della sua stessa volontà". In altre parole l'insegnamento più terribile del libro era ironico. L'autore con la maschera del consigliere premuroso, perfettamente cosciente della follia dei suoi consigli, sperava di convincere i potenti e trascinarli alla loro rovina.

Questa spiegazione chiariva anche qualcosa che aveva disturbato Pole durante la lettura del Principe. Sebbene Machiavelli fosse chiaramente uomo di eccezionale intelligenza, alcune delle sue massime sembravano dimostrare, secondo il cardinale, una grossolana stupidità. Sembrava ovvio a Pole che un principe che conquista il potere con il terrore non sarebbe mai stato personalmente sicuro né sarebbe stato sicuro il suo controllo sul governo. Machiavelli nel Principe sostiene di privilegiare la dura realtà politica rispetto agli ideali etici. Ma, come manuale per conquistare il potere, i suoi consigli erano palesemente distanti dalla realtà. L'autoproclamato realismo di Machiavelli, che costituiva il punto forte del libro, era in effetti un falso. Thomas Cromwell, Enrico VIII e l'Inghilterra erano le sue prime vittime. Cromwell, secondo Pole, aveva compreso Il principe al suo valore nominale e si era bevuto le sue dottrine diaboliche credendo che fossero espressione di grande saggezza, così facendo era caduto pari pari nella trappola di Machiavelli. Se lo scrittore fosse stato ancora in vita si sarebbe fatto delle grandi risate di fronte a questo risultato. Sul quale peraltro non c'era molto da ridere. L'Inghilterra nel 1539 era già molto avanti sulla strada del disastro, e altri re cristiani avrebbero presto seguito Enrico se fossero, loro o i loro consiglieri, caduti nell'inganno di Machiavelli. "Fate attenzione governanti," avvertì Pole, "guardatevi da questo scrittore ambiguo. Perché lo scopo dei suoi insegnamenti è quello di agire come una droga che porta i principi alla follia esponendoli all'aggressione della loro stessa gente con la violenza selvaggia del leone e l'astuzia della volpe."


Pole fu il primo di molti lettori a demonizzare Niccolò Machiavelli e ad associare il suo nome con le disoneste pratiche di uomini come Thomas Cromwell. Il principe come veleno politico e il suo autore come una scaltra volpe, il Vecchio Nick emissario di Satana che distrugge regni a sangue freddo e massacra la vera religione: queste immagini di Machiavelli e dei suoi scritti presto svolsero un importante ruolo nelle guerre di propaganda provocate dalla Riforma. Gli avversari di questo demoniaco Machiavelli erano per la maggior parte uomini di religione, sia cattolici che protestanti. I nemici che denunciavano come discepoli di Machiavelli sfidavano i tradizionali rapporti tra chiesa e stato. Alcuni erano devoti cristiani come Cromwell, che cercava di indebolire il rapporto con la chiesa di Roma. Altri volevano una politica nuova e più secolare.

Alcuni di questi interlocutori del XVI e XVII secolo contrattaccavano difendendo il fiorentino contro la campagna di fango dei suoi oppositori. In questo modo un Machiavelli assai diverso – allo stesso tempo uomo e umano – si associava sulla scena politica al suo malvagio doppio. I suoi sostenitori trovavano il Machiavelli non diabolico principalmente nei suoi Discorsi e nelle Istorie fiorentine, libri molto più solidi del sintetico Principe. Questo Machiavelli era un convinto repubblicano e un promotore della democrazia. Il suo scopo, si diceva, era difendere il rispetto della legge contro papi e tiranni corrotti. Cercava inoltre di promuovere il rigore morale e di non comprometterlo con le volgari realtà della politica. In verità va detto che la sua etica si basava su scrittori dell'antichità come Livio, Plutarco e Senofonte piuttosto che sulle Scritture della cristianità, infatti si divertiva a ridicolizzare le vuote banalità morali del suo tempo. Non aveva mai voluto separare la politica dalla moralità. Voleva semplicemente inquadrarla in chiari termini di umanità.

Ma come si poteva conciliare questa immagine di un Machiavelli virtuoso con quello che scriveva nel Principe? I suoi difensori rispondono che il Machiavelli del Principe è un maestro dell'ironia, un abile dissimulatore che offre consigli che sa benissimo essere imprudenti. Su questo, ma solo su questo, erano d'accordo con il cardinale Pole. Ma mentre Pole pensava che Machiavelli si nascondesse dietro la simulazione per poter avvelenare la mente dei principi e condurli alla pazzia, i suoi ammiratori pensavano invece che lo facesse solo per smascherare i loro inganni e le loro inconfessabili ambizioni di potere. Quando scrive che il papa Alessandro VI "non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini" (Il principe, 18), Machiavelli sembra ammirare la pervicace duplicità del pontefice – mentre invece denuncia la sua ipocrita pretesa di pietas. Quando Machiavelli descrive in quale modo Cesare Borgia accusò il suo stesso precettore facendolo poi tagliare in due pezzi ed esporre nella piazza di Cesena accanto al coltello insanguinato, dà ai suoi lettori una immagine mostruosa di quello che possono fare i principi per mantenersi al potere – e prova come la vera intenzione dello scrittore nel Principe sia quella di denunciare la perversione tipica del governo dei principi. Il suo scopo era di avvertire la gente che vive nelle libere repubbliche sui rischi che si corrono quando si affida il proprio destino a un solo uomo. Se gli scritti di Machiavelli sembrano orribili ai preti e ai monarchici questo è dovuto al fatto che nessun altro aveva mai strappato con tanta audacia il velo di moralismo che i principi usano per nascondere i loro imbrogli.

[...]


Come il cardinale Pole – i cui commenti non avevo ancora letto – presto cominciai a dubitare che Machiavelli credesse effettivamente a tutti i consigli che dava. Molti anni dopo aver composto Il principe scrisse a un suo caro amico che "da un tempo in qua, io non dico mai quello che io credo, né credo mai quel che io dico, et se pure e' mi vien detto qualche volta il vero, io lo nascondo fra tante bugie, che è difficile a ritrovarlo". Ebbi la sensazione che la saggezza politica alla quale teneva di più non fosse quella delle massime più provocatorie come "È meglio essere temuti che amati". Con queste affermazioni sembrava volesse entrare nel cervello dei suoi lettori: irritarli, confonderli, farli pensare e pensare ancora agli esempi che proponeva.

[...]


Nel mio tentativo di comprendere l'ambiguità di Machiavelli ho trovato utile collocarlo nel suo mondo, nella famiglia, fra gli amici, i colleghi e i concittadini, per ascoltare i loro discorsi, le loro battute, i problemi seri, quello che potevano o non potevano dire alla gente. Machiavelli scriveva per tutti, ma scriveva anche per committenti particolari. Durante tutta la vita matura fu impegnato in politica anche quando venne licenziato dai pubblici uffici. In politica svolse soprattutto il ruolo di riformatore: voleva convincere individui o gruppi, capi politici, giovani delle classi dirigenti fiorentine, il pubblico di Firenze, papi e principi di altre città italiane a cambiare i loro modi di pensare e di agire. Con alcuni di questi interlocutori poteva parlare con franchezza, con altri doveva stare più attento. La sua corrispondenza diplomatica è una chiara documentazione dell'abilità di Machiavelli nell'arte difficile e pericolosa della persuasione politica. Come funzionario pubblico che doveva trattare con re, contesse, papi e nobili fiorentini aveva imparato a muoversi con prudenza, a impiegare il giusto linguaggio con le diverse controparti, a criticare senza urtare. Non sorprende che abbia usato queste abilità nello scrivere Il principe e gli altri suoi lavori.

Gli scritti di Machiavelli e dei suoi contemporanei offrono un patrimonio di documentazione che mi è stato molto utile per ricostruire la dialettica di quel mondo. Ma siccome volevo descrivere un Machiavelli diverso dalla sua immagine storica corrente – uno che usa l'ironia per difendere la sua rigorosa moralità e per difendere la legalità – ho cercato un modo che fosse il più diretto e immediato possibile per farlo. Volevo che i miei lettori sentissero il linguaggio di Machiavelli, í suoi modi di scrivere, parlare, pensare e giudicare: in breve, volevo fare in modo che fosse lui a parlare di se stesso. Apprezzando la coerenza di una vita intera, dalla giovinezza alla maturità attraverso i trionfi e le catastrofi della sua vita, i lettori avrebbero avuto la possibilità di vedere Machiavelli come lo videro i suoi primi ammiratori, e invece di dipendere dalla mia parola avrebbero avuto abbondanti prove e documenti con i quali formarsi la loro personale opinione su di lui.

Così, nei limiti del possibile, ho cercato di presentare gli avvenimenti dal punto di vista di Machiavelli, un punto di vista fondato su un'ampia base di suoi scritti.

[...]


Gli argomenti trattati negli scritti di Machiavelli hanno una fantastica varietà: vanno dal personale, alla politica, alla religione. Le sue conversazioni erano sempre legate agli avvenimenti contingenti, ma abbracciavano problemi che suscitano dibattito vivace oggi come cinquecento anni fa. Come mai la gente si lascia incantare dalla retorica truffaldina e dalle apparenze? A cosa serve l'educazione? Perché i vincitori dovrebbero sempre preoccuparsi della giustizia? In cosa consiste la vera grandezza? Quando devi batterti fino alla morte per le tue idee e quando devi lasciar perdere? Come fa la gente a essere libera in un mondo dominato da poche grandi potenze e da macroscopiche ineguaglianze?

Le domande che pone Machiavelli e le risposte che dà sono spesso sorprendenti. Quando ascoltiamo direttamente la sua voce invece di credere alla sua reputazione "machiavellica" ci rendiamo conto di un carattere forte, assolutamente amichevole, ma spesso in contrasto con i suoi concittadini, ferocemente deciso a cambiare il mondo corrotto nel quale viveva e convinto che ogni individuo, per quanto debole e reietto, può fare la sua parte per cambiare le cose al meglio. Per tutta la vita ha cercato di convincere gli individui ad assumersi la responsabilità di uomini liberi che possono sempre sperare di influenzare il corso degli eventi. Mai arrendersi. È una tipica posizione di Machiavelli – anche se non si trova scritta nei suoi manuali di consigli. Ha vissuto lottando contro enormi difficoltà per difendere la fragile libertà della sua Firenze. Nessun fiorentino, e forse nessuno al suo tempo, ha combattuto più duramente di Niccolò Machiavelli per la libertà repubblicana. L'impegno appassionato lo distingue fra i contemporanei, che preferirono cercare il successo e la sicurezza personale garantita dal potere del principe, piuttosto che conquistarsi una vita libera affrontando gli inevitabili rischi personali. Grazie alla sua capacità di ridere di se stesso anche quando la situazione era grave, e spesso veramente lo era, la storia della sua battaglia per la libertà non scade mai nella banalità. Verso la fine della sua vita, nel suo tipico stile, autoironico e spavaldo, Machiavelli firma la lettera per il suo amico Francesco Guicciardini: "Niccolò Machiavelli historico, comico et tragico."

Spero che il ritratto dipinto delle pagine seguenti riesca a illustrare tutti questi aspetti del mio soggetto, così spesso frainteso dalla letteratura critica conforme.

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Pagina 57

4.
GUARDATI DAI DOTTORI



Nella tarda mattinata della domenica 26 aprile 1478 si celebra la messa grande nella cattedrale di Firenze, la chiesa di Santa Maria del Fiore, circa diecimila persone si sono riunite sotto la grande volta, visitatori stranieri e cittadini di Firenze di ogni classe sociale. Lorenzo de' Medici entra e si avvia verso i posti d'onore vicino all'altare seguito dal fratello minore, il venticinquenne Giuliano. Giuliano è amatissimo dalla gioventù maschile e femminile della città, un apprezzato elemento equilibratore alle tendenze autoritarie sempre più evidenti del fratello. Il ragazzo d'oro, come lo chiamano quelli più vecchi di lui. Non è sposato, ma la graziosa Fioretta Gorini è già all'ottavo mese di gravidanza in attesa del figlio, il futuro papa Clemente VII, con il quale, anni dopo, avrà molto a che fare Niccolò Machiavelli. Il prete sta cantando la messa all'altare, ma tutti si girano per guardare i rampolli della prima famiglia cittadina. Due giovani elegantemente vestiti, più o meno coetanei di Giuliano, camminano al suo fianco stringendolo con affetto. Buoni amici. Gli osservatori che sanno li riconoscono come Bernardo Bandini e Francesco Pazzi.

Quando, anni dopo, Machiavelli racconta questi momenti drammatici, quello che trova più sconvolgente, al limite del grottesco, è la gentile ipocrisia dimostrata da tutti i protagonisti fino alle prime furiose pugnalate. Francesco Pazzi e Bernardo Bandini erano stati incaricati dai congiurati di condurre la vittima al luogo del suo assassinio, erano andati a prendere Giuliano al palazzo dei Medici "e con prieghi e con arte nella chiesa lo condussono", con dimostrazione di falsa amicizia. Facendo finta di abbracciare amichevolmente Giuliano i congiurati cercavano di accertarsi che la vittima non portasse armi sotto il mantello. "È cosa veramente degna di memoria," nota Niccolò, "che tanto odio, tanto pensiero di tanto eccesso si potesse con tanto cuore e tanta ostinazione d'animo da Francesco e da Bernardo ricoprire." Infatti mentre Francesco e Bernardo accompagnavano Giuliano alla sua morte "per la via e nella chiesa con motteggi e giovinili ragionamenti lo intrattennero". Ancora più assurdo era il fatto che Giuliano e suo fratello non prendessero precauzioni, pur essendo perfettamente al corrente di quanto la grande famiglia dei Pazzi e molti altri dentro e fuori Firenze odiassero il regime dei Medici – compreso il papa Sisto IV. "Sapevano Giuliano e Lorenzo lo acerbo animo de' Pazzi contra di loro, e come eglino desideravano di torre loro l'autorità dello stato, ma non temevono già della vita." Ritenevano infatti che se i loro avversari avessero voluto abbattere il regime lo avrebbero fatto con una manovra politica e non con la violenza. "E per ciò anche loro, non avendo cura alla propria salute, di essere loro amici simulavano." Una lezione memorabile sull'uso e sui pericoli delle finte amicizie per un ragazzo di nove anni, l'età di Niccolò quando, e se, in seguito sentì raccontare la storia.

Nella folla festosa si sente un orrendo rantolo di agonia. Bernardo per primo pugnala al petto Giuliano, poi Francesco Pazzi "gittatosi lo empié di ferite; e con tanto studio lo percosse, che, accecato da quel furore che lo portava, se medesimo in una gamba gravemente offese". Machiavelli non rinuncia mai a questo genere di ironia così frequente nelle cose degli uomini: quando si aggrediscono gli altri accecati dalla rabbia spesso si tende a fare del male anche a se stessi.

Giuliano è morto. I presenti dichiarano anche di aver visto qualcuno avventarsi sul collo di Lorenzo con un coltello. Poi Lorenzo sparisce circondato da una folla di amici che lo conducono in sacrestia dove si chiudono per sicurezza. Quando sentono che fuori è tornata la calma lasciano di nuovo uscire Lorenzo, che è solo lievemente ferito.


Nel giro di poche ore la notizia della congiura si diffonde per tutta la città. Assassini, traditori. Migliaia di persone danno l'assalto alle case dei Pazzi, Francesco è trascinato nudo fuori dal suo letto e impiccato a una alta finestra del palazzo della Signoria. Vicino a lui dondolano i cadaveri dell'arcivescovo di Pisa e di altri. Jacopo Pazzi cerca di fuggire in esilio. Presto viene catturato e riportato a Firenze, quindi condannato e impiccato quattro giorni dopo l'assassinio di Giuliano. Il corpo di Jacopo viene in un primo momento sepolto nella tomba di famiglia. Ma poco tempo dopo viene scomunicato, il suo corpo strappato dalla tomba viene sepolto fuori dalle mura della città insieme agli altri banditi dalla chiesa. Poi una banda di sudicia teppaglia, che gira per le strade di Firenze, estrae di nuovo dalla fossa il cadavere e lo trascina per le strade facendogli suonare per macabro scherzo la campana del portone del palazzo dei Pazzi ormai deserto. Alla fine, stanchi del gioco sconcio, buttano il cadavere nel fiume Arno cantando 'Jacopo nuota nella corrente dell'Arno'. Il corpo orrendamente martoriato viene visto passare sotto i ponti dell'Arno a Pisa.

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Pagina 71

5.
NON AVER PAURA DEI GIGANTI



I fiorentini sono conosciuti in tutta l'Europa e nel Levante come maestri nel proteggersi con l'ambiguità delle parole. Dopo aver visitato Firenze in quell'epoca un mistico ebreo di nome Alamanno scrisse in ebraico che tutti fiorentini sono tendenzialmente portati a comunicare con messaggi contraddittori. Parlano in due modi: con la saggezza delle loro voci e con i movimenti delle loro braccia, e i movimenti contraddicono le parole; questo per non essere colti in fallo nei loro discorsi. Parlando con sottintesi e allusioni proteggono prudentemente il loro pensiero e nascondono la verità nel loro cuore.

I fiorentini più educati, quelli con i quali Alamanno aveva intrattenuto le sue saponose conversazioni, avevano imparato l'arte dell'ambiguità dagli scrittori antichi, molti dei quali erano stati solo da poco riscoperti e ampiamente studiati nell'Europa occidentale. In un saggio intitolato Come il fanciullo debba ascoltare i poeti, Plutarco, un greco che viveva al tempo dell'impero romano — uno degli autori preferiti di Niccolò Machiavelli — dice che i giovani lettori "dovrebbero fare molta attenzione se il poeta suggerisce in qualche modo che i sentimenti da lui espressi sono anche per lui sgradevoli".

Niccolò scopre molto presto le tentazioni dell'uso ambiguo della parola e dello scrivere. "Né sia alcuno," ci dice, "che s'inganni, per la gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare dagli scrittori: perché quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua" e indebitamente impressionati dalla durata dell'impero romano, e tutto questo "non permetteva che gli scrittori parlassono liberamente di lui [Cesare, N.d.R.]" (Discorsi, I, 10). Alcuni fra i più grandi poemi e storie dell'umanità, tra i quali anche le opere del poeta Virgilio e dello storico Livio, vennero scritti quando gli autori potevano essere mandati in esilio, o peggio, se anche solo si limitavano a criticare i potenti del tempo. Invece di restare in silenzio gli antichi scrittori trovarono modi ingegnosi per criticare le autorità e la corruzione della società "fra le righe". Non potendo criticare Cesare per la sua potenza i critici esprimevano indirettamente la loro disapprovazione. Machiavelli sarebbe diventato uno dei più grandi maestri dell'ambiguità, un artista delle parole camaleonte.

Per il momento, dopo aver imparato i fondamenti di latino, va a studiare presso il prete Paolo da Ronciglione, un maestro molto stimato che tiene le sue lezioni presso lo Studio, l'università di Firenze. Ser Ronciglione insegna anche ai figli di alcune delle famiglie più importanti della città, fra le quali alcuni dei vicini dei Machiavelli a Santo Spirito: i Capponi, i Vettori, e i Guicciardini. I ragazzi Guicciardini sono troppo giovani per frequentare le stesse classi di Niccolò, ma in qualche momento della sua carriera scolastica il giovane Machiavelli è compagno di Niccolò Capponi, figlio di uno degli uomini politici più vigorosi e schietti della città, frequenta anche Francesco Vettori, giovane serio con inclinazioni letterarie, tutti e due di qualche anno più giovani di lui.

Per quanto uguali a scuola, fra Niccolò e i suoi compagni ci sono enormi differenze di censo e stato sociale. In una città della dimensione di Firenze basta una passeggiata di mezz'ora per vedere dove vivono i suoi amici. Nella tradizione repubblicana la maggior parte dei grandi palazzi degli ottimati sono nel centro della città, non nella periferia; non sono circondati da giardini cintati o da mura come i palazzi della nobiltà in altri luoghi. I palazzi fiorentini non sono fortezze; neppure sono stati progettati per stupire i passanti, a eccezione dell'elefantiaco palazzo Pitti. In genere sono larghi solidi edifici quadrati, bene inseriti nell'ambiente urbano circostante, senza pretese. Sono comunque molto più importanti della residenza dei Machiavelli, per non parlare delle case dei cittadini più poveri. I ragazzi che ci vivono hanno ben altre prospettive di carriera. Prima ancora di compiere vent'anni hanno già viaggiato a Londra o nel Levante come apprendisti nel commercio di famiglia o agenti delle loro banche. Dopo qualche anno di esperienza, la città li può mandare come inviati a qualche corte straniera in Italia oppure li può invitare a partecipare in qualche pubblica commissione.

I padri dei colleghi ottimati di Niccolò sono costantemente impegnati a servire la città come diplomatici presso corti straniere, oppure come funzionari in qualcuna delle molte magistrature. Sono banchieri e uomini d'affari che svolgono anche ruoli importanti – quando i primi cittadini Medici glielo consentono – nelle decisioni su quando e come Firenze debba fare la guerra o negoziare la pace, nel giudicare casi criminali, nella imposizione fiscale, e nel negoziato di trattative informali. Con l'appoggio del padre importante e con l'intelligente uso dei contatti di famiglia, un giovane può crescere nella società e farsi strada rapidamente. Poco più che ventenne, Francesco Vettori, figlio primogenito, alla improvvisa morte del padre viene chiamato a una carica importante; dopo aver coperto con successo l'ufficio, viene apprezzato come genio politico emergente e passa da una carica importante all'altra. Niccolò Machiavelli, figlio di un padre che sta ancora lottando per pagare alla città vecchi debiti di famiglia, non può sperare in una partenza così facile. Dovrà cercare qualche altra strada per arrivare al successo.

Mentre alcuni giovani soffrono per questo relativo svantaggio non c'è prova che così sia per Niccolò. Al contrario uno dei suoi temi preferiti è che i migliori lavorano, vivono e crescono proprio lottando contro le difficoltà. Quelli che devono affrontare ostacoli in partenza, se questi non sono troppo difficili, hanno in seguito migliori probabilità di successo. Niccolò chiama questi ostacoli che formano il carattere "necessità". La lotta per superare grandi difficoltà insegna loro l'autodisciplina e la capacità di educare se stessi, e, ancora più importante, la conoscenza delle loro risorse di cervello e di morale, risorse che resterebbero inutilizzate se avessero una vita facile. Questo li rende più forti di coloro che hanno avuto molti vantaggi dalla famiglia: più tenaci contro coloro che cercano di contrastarli, più resistenti nelle difficoltà che ognuno, prima o poi, deve affrontare. Nel Principe Niccolò confronta la grande fortuna del giovane Lorenzo de' Medici, al quale ha dedicato il suo libro, con la sua modesta condizione sociale. Ma nel suo "piccolo volume" accenna a una grandezza superiore, una grandezza "che io in tanti anni e con tanti mia disagi e periculi ho conosciuto" (Il principe, Dedica). Anche se gli uomini ricchi e potenti non danno grande valore all'unico bene posseduto da Machiavelli – la conoscenza – questo è un bene che lui ha acquisito grazie alla sua disciplina e al suo impegno. A differenza dei principi e dei banchieri, che possono perdere tutto il loro potere e la loro ricchezza in una notte, Niccolò è sicuro che la sua conoscenza è un patrimonio di sua proprietà, solido, inalienabile.

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"Bisogna rimuovere da te queste poesie e giuochi e taverne, e i mali abiti dei vestimenti delle donne."

Dapprima il frate parla con calma, quasi teneramente, con la voce del padre che vuole abbracciare i prodighi figli, che li vuole sani e salvi di nuovo a casa. Chi lo ascolta ha la sensazione di sapere, nel fondo oscuro e nella parte migliore della sua anima, che c'è una sola via per la salvezza. "E così, ogni cosa che è nociva alla salute dell'anima bisogna mandarla via, e che ognuno viva a Dio e non al mondo, e tutti con semplicità e carità."

La sua fama si diffonde rapidamente. Fra Girolamo Savonarola da Ferrara. Vecchi e giovani, uomini e donne, ricchi, poveri e borghesi, all'inizio sono tutti attratti dal gran parlare che si fa sul suo nome, poi dalla voce che come una sirena dice cose che hanno già sentito ad nauseam da decine di altri predicatori, ma adesso hanno un suono molto diverso. Quest'uomo piccolo e scarno infiamma le moltitudini di nuovo entusiasmo, come se con le parole trasmettesse forza fisica. A differenza degli altri pratica ciò che predica, così dicono i suoi fratelli domenicani della chiesa di San Marco. Dorme su un duro pancale coperto di paglia. Mangia pochissimo.

Girolamo Savonarola è figlio e nipote di medici di corte a Ferrara, cresciuto negli agi. Disgustato dalla vita di corte, giovane, si rifugia nel chiostro in cerca di verità più profonde. Quando in seguito arriva a Firenze trova una città immersa nell'opulenza, piena di gente assillata da ambizioni mondane, senza nessuna preoccupazione per la salute della loro anima. Eppure molti vanno a sentire i suoi sermoni e piangono per il rimorso e per l'angoscia disperata alle sue parole: tornate, fiorentini, alla vita sobria e al costume semplice di Cristo, e chiamate altri su quella via. Mogli e figli dei ricchi ottimati e talvolta alcuni fra di loro tornano in chiesa e cercano i posti migliori nella congregazione per sentirsi flagellare insieme ai loro simili: voi mercanti, voi banchieri, voi signore cariche sotto il peso dei vostri gioielli e del vostro oro. Credete di poter comperare tutto con il denaro. "E voi madri che adornate le vostre figliuole con tanta vanità e superfluità e capigliature, portatele tutte qua a noi per mandarle al fuoco, acciocché quando verrà l'ira di Dio non trovi queste cose nelle case vostre." Fareste meglio a dedicare le vostre vite a Cristo invece di accumulare ricchezze e costruire i vostri grandi palazzi.

Questo campione dei poveri attira le folle da tutte le classi sociali. I ricchi dice, sostengono che i poveri devono solo biasimare se stessi per le loro miserie. Hanno torto: sono i ricchi che sfruttano i poveri e li mandano in rovina, facendoli ammalare e costringendoli al furto e alla prostituzione. Credete veramente che i ricchi aiutino i poveri con doni e con la beneficenza? Non è vero. I progetti ambiziosi dei ricchi provocano ancora più miseria per i poveri. I vostri grandi uomini comprano dai poveri terra e botteghe a poco prezzo sfruttando la loro miseria per pavoneggiarsi nello sfoggio della loro vanità e stravaganza. "Il diavolo usa i ricchi e potenti per opprimere i poveri e costringerli al male."

Non c'è divisione tra le élite educate e la massa ignorante nella chiesa di fronte al pulpito di frate Girolamo. Anziane signore e giovani del popolo siedono fianco a fianco insieme ad avvocati, filosofi, uomini di lettere, che dichiarano che questi sermoni sono culturalmente sofisticati come lezioni all'università. Intellettuali vicini a Lorenzo – Pico della Mirandola, Angelo Poliziano, Marsilio Ficino – diventano frequentatori abituali a San Marco. Gentiluomini e poveri, omosessuali e vergini sono tutti egualmente affascinati, legati dalle sue parole in una misteriosa comunione. "Io ho a morire ad ogni modo [...] Queste mani e quella carne hanno a diventare polvere e cenere: presto saranno tutte puza: colui è morto: quel gran maestro, quel giovane, quel ricco, quel bello, quel forte poco fa che egli erano vivi, adesso sono morti, son tutti puza e cenere." E chi puzzerà di più nella morte? Quelli che pretendono di vivere secondo le regole sante: quei preti che per una manciata di ducati assolvono i ricchi dai peccati più laidi e che minacciano i poveri con il fuoco dell'inferno se non pagano il salario della settimana per ottenere le indulgenze. 'E tu Roma o Roma!' L'intera città santa puzza di perdizione.

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Pagina 120

La costituzione di Savonarola è molto meno ultraterrena di quanto la sua retorica non faccia apparire. Nessuno a Firenze comprende meglio di lui come si usi e come si abusi del potere. Condanna nei suoi sermoni il veleno della tirannia e nella sua proposta ha inserito gli elementi per controllare gli uomini troppo ambiziosi e coloro che potrebbero desiderare di restaurare la tirannia dei Medici. Tutto questo secondo Machiavelli è positivo. Ma c'è una tara nel progetto del frate. C'è la presunzione che, invece di limitarsi a regolare le infinite modalità di comportamenti malvagi che sovvertono o avvelenano la nostra comune vita terrena, il governo dovrebbe cercare di riformare la natura stessa umana prendendo come modello i puri spiriti privi di corpo materiale. Questo scopo è fuori dalla realtà: si pone un obiettivo troppo alto per i poveri difettosi esseri che compongono la maggior parte del popolo. È anche, per usare le parole di Machiavelli, disumano, perché tutte le crociate che volevano realizzare il cielo in terra sono in genere finite per aver fatto ricorso a strumenti troppo severi. E, si domanda Machiavelli, come faranno i fiorentini a trovare sollievo quando la dura battaglia contro il peccato comincerà a logorarci? Anche il più tenace dei guerrieri della virtù ha bisogno di momenti di riposo. E per ogni vizio che tu elimini ne sorgeranno altri dieci al suo posto.

Quando questa guerra senza fine diventa troppo dura vieni a rifugiarti nella nostra Compagnia di piacere. Offriamo ai membri un cambio di aria, per non farli soffocare nelle strade per un eccesso di pietà religiosa. Non siamo un circolo rigorosamente esclusivo; pensiamo che tutti si dovrebbero abbracciare come fratelli e sorelle. E non possiamo nemmeno, dobbiamo ammetterlo, essere così severi sui peccati. Ma ci sono regole nella compagnia fissate e firmate di comune accordo che sono applicate con grande rigore:

Che niuno uomo minore di trenta anni possa essere di detta compagnia, e le donne ne possano essere di ogni età.

Che detta compagnia abbia uno capo, o uomo o donna che sia, da stare otto dì, e degli uomini sia il primo capo quello che ha di mano in mano maggiore naso, e delle donne quella che di mano in mano arà minore piè. [Il naso e i piedi sono ritenuti di dimensioni inversamente proporzionali a quelle delle parti intime dei due sessi, N.d.A.]

Debbasi sempre dire male l'uno dell'altro, e de' forestieri che vi capitassino dire tutti i peccati loro e fargli intendere pubblicamente senza rispetto alcuno. [...]

Volendo ancora che ciascuno possa avere la sua comodità, si provvede che ciascuno uomo e ciascuna donna l'uno sanza la moglie e l'altro sanza il marito debba dormire del mese almeno quindici dì' netti vive, sotto la pena di avere a dormire dua mesi insieme alla fila.

I Capitoli per una compagnia di piacere di Niccolò Machiavelli – dei quali non si conosce la data di stesura – sono una parodia dei regolamenti verbosi e moralistici delle confraternite religiose. Le confraternite sono venerabili istituzioni a Firenze e in tutta l'Europa cristiana, gestite solo da laici di ogni professione. Alcune hanno scopo filantropico: raccolgono denaro per dar da mangiare ai poveri, finanziare orfanotrofi e ospedali o portare conforto ai carcerati. Altre, note come confraternite dei flagellanti, non sono impegnate nella comunità; i loro membri cercano il pentimento per i loro peccati o per i peccati della società attraverso canti rituali, autoflagellazione e sermoni che loro stessi scrivono e predicano. Bernardo Machiavelli è membro di una compagnia di flagellanti chiamata Compagnia di pietà, che si riunisce nell'oratorio di San Girolamo sulla riva sinistra dell'Arno. All'età di undici anni Niccolò diventa membro dell'organizzazione giovanile della confraternita del padre; all'età di ventiquattro anni nel 1493, diventa membro dell'organizzazione adulta della confraternita.

Quindi scrive come uno che conosce quelle realtà dal loro interno. Nei suoi Capitoli mantiene gli aspetti formali degli statuti delle confraternite, ma ne cambia radicalmente contenuto. Mentre le confraternite religiose accolgono solo membri maschi, la Compagnia di piacere accoglie anche le donne. Mentre gli scopi delle confraternite religiose sono l'esercizio della devozione, la penitenza e le opere buone, l'unico scopo della compagnia di Niccolò è la soddisfazione del desiderio di piacere dei membri, non ultimo il piacere sessuale. Mentre una Compagnia di Pietà esorta i membri al rispetto mutuo e alla sincerità, nella compagnia di Niccolò nessun comportamento è punito con maggiore severità che il parlare onesto e sincero, vuoi di se stessi o degli altri. La presunzione e la vana gloria raccolgono i più alti riconoscimenti, come succede spesso nella vita quotidiana sia dei laici che dei preti. Inoltre è stabilito che, "non si debba mai mostrare con segni di fuora lo animo suo di drento; anzi fare tutto il contrario, e quello che sa meglio fingere o dire le bugie meriti più commendazione".

Gli altri scritti di Machiavelli sono pieni di simili paradossali inversioni delle sante virtù. Nella sua commedia la Mandragola si vede un ambiguo frate che giustifica le sue bugie e la sua avidità con pretesti assurdamente complicati e arroganti. Nella fiaba comica Belfagor invece va nella direzione opposta: presenta i principi dell'inferno come amanti della verità e della giustizia e come osservatori pignoli della corretta procedura nelle loro assemblee. Anche Plutone, che ha potere assoluto su tutti gli altri diavoli, ha contegno nell'esercitarlo, dal momento che, come Niccolò gli fa dire: "gli è maggiore prudenza di quelli che possono più, sottomettersi più alle leggi et più stimare l'altrui iuditio." I diavoli che rispettano questa norma di legge valgono di più, forse, degli angeli, dei preti, o dei papi che la infrangono.

Ma, sia che dipinga i diavoli come modelli di rettitudine, o gli uomini con angeliche ambizioni come mascalzoni, lo scopo di Machiavelli è la satira della bigotteria melensa: la pretesa ipocrita o impossibile di essere santi o moralmente virtuosi. Il suo messaggio non è che si debbano abbassare tutti gli standard morali, ma solo quelli che pretendono di portare gli uomini a una perfezione superumana.

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Ci sono principi e regnanti che sono libri aperti, come Luigi XII; dicono quello che pensano, e lasciano la doppiezza e le furbizie delle astute manovre ai loro consiglieri. Cesare Borgia non è uno di loro. "Questo signore è molto solitario et segreto," così hanno detto a Niccolò uomini del suo entourage a Urbino. Borgia sa bene che la gente fa solo finta di credergli, che odiano il suo padre catalano e se potessero lo caccerebbero con qualunque mezzo. Sa che gli uomini di stato e gli ecclesiastici esperti pensano che lui, Cesare, sappia una o due cose di guerra, ma che non sappia nulla di come si conduce uno stato né della natura umana, ed è questa la ragione della sua continua insistenza nell'affermare la conoscenza di queste cose. Un ambasciatore fiorentino non otterrebbe nulla con l'adulazione o con false promesse di devota fedeltà. Come regola generale oggi Niccolò sa che 'si ottengono migliori risultati se si è onesti e generosi, non avari e doppi, e non se ci si fa la fama di chi pensa una cosa e ne dice un'altra. Questo è un punto di grande importanza; ci sono uomini che, per essere furbi e doppi, hanno a tal punto perso la fiducia del principe da non essere più in grado di trattare nulla con lui'. E questo è ancora più importante se si deve trattare con un principe sospettoso come il Borgia.

Per questo il segretario Machiavelli non nasconderà il suo pensiero più di quanto non sia necessario nell'esercizio professionale della diplomazia. Cesare avrà più fiducia in lui e quindi a sua volta manifesterà il suo pensiero e le sue intenzioni con maggiore apertura. Se invece Niccolò dovesse parlare con lui come un prudente uomo di stato a un altro, tutti e due sarebbero pienamente coscienti della loro reciproca mancanza di fiducia. Ma comunque è sempre vero che: "Bisogna adunque essere volpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi" (Il principe, 17).

Secondo la tradizione folcloristica e secondo molti autori della latinità – Cicerone, Orazio, Giovenale – le volpi sono creature emblema della astuta doppiezza. Se questo è vero allora Borgia padre e figlio sono le volpi per antonomasia del loro tempo. Niccolò in seguito scriverà che il papa Alessandro VI "non fece mai altro, non pensò mai ad altro, che ad ingannare uomini [...] E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno" (Il principe, 18). Cesare non è ancora arrivato ai livelli del padre ma anche lui è già un grande mistificatore.

Tuttavia la frode finalizzata a trarre vantaggio per sé a spese degli altri è tratto caratteristico dell'indole degli uomini. Le volpi vere, quelle con il pelo e con la coda, non hanno nulla da insegnare agli uomini nel campo delle bugie, degli imbrogli, anche per mettere trappole e catturare piccole prede. Il loro vero talento, che pochi uomini hanno, è quello di riconoscere i trabocchetti e di evitare di cadere nelle trappole. Questa è l'abilità che un diplomatico deve imparare dalle volpi, specialmente quando si incontra faccia a faccia con un principe che è un campione dell'inganno. Per difendersi dalla furbizia truffaldina del Borgia, il genere di astuzia che incastra e divora, ci vuole una specie diversa di furbizia volpina: quella che anticipa l'imbroglio, che non si lascia convincere dalle belle parole, né dai sacri giuramenti. Se questo Borgia è quel tipo di volpe, aggressivo e antropomorfo, Niccolò sarà l'altro tipo, più coerente con l'animale che imita: più attento alla difesa, armato della sua agilità mentale più che di lance, spade, pugnali, o cannoni.

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Pagina 248

I filosofi e gli storici dell'antichità equiparavano il desiderio sfrenato di conquiste a una dipendenza potenzialmente fatale. I persiani di Erodoto, gli ateniesi di Tucidide e Platone, i romani di Livio e Tacito: tutti conquistarono imperi sconfinati in poco tempo, poi soffocarono a morte per aver mangiato troppo. Una volta che i popoli o gli individui si sono abituati a ingozzarsi più di quanto sia necessario a vivere bene, trovano impossibile vivere senza consumare ancora di più, anche se sanno che questo li potrà uccidere. Forse il duca Valentino sta cercando di vincere questo vecchio vizio, spinto dal re di Francia e da alcuni saggi consiglieri. O forse non è cambiato affatto. Poco tempo dopo Niccolò, in Del modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati, immagina un discorso alla Signoria di Firenze. L'oratore, forse lui stesso, esprime liberamente quello che sarebbe poco prudente per un inviato scrivere nei suoi dispacci. "Chi ha osservato il Duca, vede che lui, quanto a mantenere gli stati ch'egli ha, non ha mai disegnato fare fondamento in su amicizie italiane." Tutte le sue azioni quindi dimostrano chiaramente che vuole realizzare un suo grosso stato nell'Italia centrale, e quindi nel giro di breve tempo si organizzerà per conquistare la Toscana.

Niccolò chiede ai suoi amici di cercare dai librai locali le Vite parallele di Plutarco. Le vite di tanti uomini famosi descritte nella dimensione quotidiana e analizzate nei diversi aspetti, con umana comprensione e senza riserve, con tutto il catalogo delle grandi virtù, di quelle modeste e delle umane carenze. Alcuni, come Cesare, vincono tutte le battaglie e, se qualche volta perdono, si riprendono dopo il colpo e tornano più forti di prima. La fortuna li ama. Non hanno scrupoli, non hanno rispetto per la libertà degli altri né per le leggi scritte o non scritte. Non ne hanno bisogno: dal momento che la fortuna lavora per loro non hanno bisogno di sapere come far lavorare per loro gli uomini. Per lo meno questo è quello che pensano. Biagio scrive che ha cercato le Vite parallele a Firenze, ma non ce ne erano in vendita: "Habbiate patientia, ché bisogna scrivere ad Venetia; et a dirvi il vero, voi siate lo 'nfracida ad chiedere tante cose."

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Pagina 270

[...] Considerate Pisa. Non ha nulla di buono dalla fortuna: per quasi dieci anni la sua gente è stata esiliata e impoverita, la città ridotta a baracche. Ogni famiglia pisana ha subito perdite materiali enormi, fame e morte. Eppure quanto più crudeli le condizioni, tanto più forte il loro orgoglio per la difesa della libertà. La loro capacità di resistere virtuosamente a tutte la avversità materiali rende ridicola la sopravvalutazione del potere della fortuna. Questa era la differenza fra la ricca Firenze con tutti i suoi domini e la sua ex città suddita, come Machiavelli la descrive nel capitolo 5 del Principe:

Ma quando le città o le provincie sono use a vivere sotto uno principe, e quel sangue sia spento, sendo da uno canto usi ad obedire, dall'altro non avendo el principe vecchio, farne uno infra loro non si accordono, vivere liberi non sanno; di modo che sono più tardi a pigliare le armi, e con più facilità se li può uno principe guadagnare e assicurarsi di loro. Ma nelle repubbliche è maggiore vita, maggiore odio, più desiderio di vendetta; né li lascia né può lasciare riposare la memoria della antiqua libertà: tale che la più sicura via è spegnerle o abitarvi.

Cronisti da tutta l'Italia sono venuti a Pisa per studiare il miracolo della sua resistenza e cantare le lodi del suo popolo. Anche i fiorentini lodarono l'eroismo dei nemici e il "terribilissimo animo" che mostrarono respingendo ogni attacco. Qualcuno auspica addirittura di poter essere più simili a loro.

Nei Decennali vediamo per la prima volta Machiavelli nei suoi tre ruoli preferiti: educatore pubblico, oracolo poetico, e avanguardia politica. I riformatori devono anche educare perché i cambiamenti che propongono non si potranno consolidare se la gente non cambia certi modelli conformi di pensiero. Come il dramma teatrale, la forma poetica raggiunge un pubblico più ampio della fredda esposizione politica, illustra in modo più vivace certe difficili verità. Questa è dunque una storia poetica dei nostri tempi, piena di eventi che tutti conoscono perché li hanno vissuti. Versi facili da citare, rime che si tramandano a memoria, alcuni eroi locali e alcuni distinti mascalzoni: Capponi, il coraggioso Capon che si oppone ai francesi, il controverso Savonarola, il capitano di ventura Paolo Vitelli e il suo fratello vendicatore, il benedetto papa Alessandro ucciso dal Cielo per aver portato l'inferno nella povera Italia. Una storia degli errori fiorentini del passato, ma non una tirata moralistica.

Agostino Vespucci legge il manoscritto e gli piace moltissimo. Sogna di comperarsi una pressa per stampare libri. "Il mio sogno può servire il tuo, Niccolò, se vuoi che le tue idee raggiungano la gente oltre il Palazzo, hai bisogno di un editore. Insieme potremo svegliare centinaia, migliaia di cervelli addormentati e realizzare la tua fantasia di trasformare i tosapecore toscani e le plebi di Firenze in legioni romane. Ma mettilo in bella forma; fa' attenzione a come esponi le cose. Conosci la natura degli uomini, conosci le loro menzogne e gli imbrogli, e quali siano le gelosie e gli odi dai quali l'uomo tutt'oggi è afflitto. Tu dunque, che sei uomo prudente, fa' quello che a te e a noi conviene, quello che pensi sia nostro comune sentire."

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Pagina 307

13.
CONOSCI TE STESSO
E CONTROLLA LE TUE SPERANZE



Dopo due anni Firenze e Pisa sono in pace, ma in Italia ancora una volta sta per scoppiare una guerra fra le grandi potenze europee. Dopo anni di rabbiosa ostilità, moderata solo dall'eroico lavoro dei loro diplomatici, Luigi XII e Giulio II si preparano per quello che tutte e due le parti ritengono un inevitabile conflitto armato. Pochi anni prima, alla fine del 1508, gli ottimisti avevano sperato in un miglioramento delle pessime relazioni fra la Francia e la chiesa, quando Giulio aveva invitato le potenze straniere, compreso il re, a formare la Lega di Cambrai per aiutarlo a fermare l'espansione veneziana in Romagna e in Lombardia. Ma quando la potenza francese si dimostrò determinante per sconfiggere i veneziani, il papa, preoccupato, fece un voltafaccia. Nel 1510 si riconciliò con Venezia e lanciò una nuova crociata per cacciare i francesi dall'Italia, annunciando la sua impresa con il famoso grido di battaglia Fuori i barbari!

'Per il papa noi siamo i più fedeli alleati dei francesi in Italia e quindi automaticamente i suoi nemici.' Piero Soderini aveva convocato Niccolò al Palazzo della Signoria per mandarlo in missione in Francia; i fiorentini dovevano assicurare Luigi che la città non era passata dalla parte del papa. 'Dovrai però evitare di promettere al re truppe fiorentine, perché il papa riterrebbe questo un segno di ostilità nei suoi confronti.'

Ufficialmente il segretario Machiavelli ha sempre lo stesso ruolo nella cancelleria, ma negli ultimi difficili anni della repubblica è diventato uno stretto collaboratore del gonfaloniere e un suo risoluto difensore. Aveva sentito gli inviati francesi lamentarsi che il cardinale Francesco Soderini da mesi non si faceva vedere a corte. 'Dicono che il re stia riflettendo sul possibile significato di questa assenza.'

Soderini raccomanda a Niccolò di informare Luigi che, mentre suo fratello avrebbe voluto andarlo a trovare per esprimere il suo diplomatico rispetto, il papa glielo aveva vietato. 'Francesco non può fare a meno di obbedire al suo signore. Giulio ha un tale caratteraccio che anche i grandi principi preferiscono trattarlo con deferenza.' Appena arriverà a corte Niccolò dovrà subito assicurare al re che tutti e due i fratelli Soderini sono convinti che la felicità di Firenze sia legata alla prosperità della corona francese. 'Non capisco perché si sia arrivati alla guerra ma, ora che tutti ne affermano la necessità, siamo in una situazione peggiore di quanto non fossimo prima della riconquista di Pisa.'

La sensazione dello scontro era già evidente quando Niccolò era andato a Roma nel 1506. Anche se il re sperava di umiliare il papa, una fonte interna del Vaticano gli aveva assicurato che sarebbe stato il papa a umiliare il re.

'Giulio vuole diventare, con la chiesa, arbitro delle cose italiane,' dice Niccolò, 'e bisogna riconoscere che il re gli ha facilitato le cose.' Dopo aver conquistato Napoli e Milano, dieci anni prima, Luigi dominava due terzi dell'Italia. Sarebbe rimasto inattaccabile se non avesse aiutato il papa Alessandro VI e Cesare Borgia a prendersi la Romagna. Quell'errore, secondo Niccolò, gli aveva fatto perdere quasi tutti gli alleati italiani (cfr. Il principe, 3). Adesso abbiamo un papa che è affascinato dall'immagine di se stesso a cavallo, coperto da una sfolgorante armatura, alla testa dei suoi eserciti. Niccolò si ricorda di quando, quattro anni prima in udienza a Roma, Giulio gli diceva: 'Per cambiare con le armi il governo di Bologna mi sono attrezzato con un esercito che farà tremare tutta l'Italia, altro che Bologna!' Questo papa Terribile, come lo chiama adesso la gente, è particolarmente portato per promuovere i suoi obiettivi con slogan efficaci. Con lui c'è sempre qualcuno da cacciare, sospira Soderini: fuori i tiranni! fuori i barbari!

L'antipatia fra Giulio e Soderini non si limita alla politica. Soderini è un uomo prudente che apprezza la fedeltà agli alleati e ai principi. Il papa, come ammettono anche i suoi amici, è uomo dal carattere collerico e irruente, che aveva in più occasioni dimostrato di non essere da meno di Alessandro se riteneva che violare i trattati fosse per lui vantaggioso. Almeno, dice Niccolò, Giulio è trasparente nella sua malafede. Papa Alessandro, scrive Niccolò nel Principe "non pensò mai ad altro, che ad ingannare uomini" (Il principe, 17); nessuno era più bravo di lui nell'impegnarsi con sacri giuramenti che poi nella pratica ignorava. Ma anche Giulio, una volta, in una delle loro udienze aveva detto al segretario che non gli importava nulla dei trattati fatti dagli altri papi e nemmeno di quelli fatti da lui.

'Il nostro più grosso timore è che gli possa arrivare l'aiuto del re di Spagna,' dice il gonfaloniere, 'c'è notizia di una flotta spagnola in Sicilia con più di diecimila fanti a bordo, che il re Ferdinando potrebbe mettere a disposizione di Giulio.' Niccolò risponde con una battuta per far sorridere il suo amico preoccupato: 'Certo l'autorità del papa si deve basare su qualcosa di più solido della sua pura santità.'

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Pagina 334

Niccolò il 7 novembre 1512 riceve la comunicazione ufficiale del suo 'licenziamento, esonero e totale rimozione dagli incarichi' di cancelliere e segretario; gli viene inoltre vietato di entrare nel palazzo del governo per la durata di un anno. Lui e il suo diretto collaboratore Biagio Buonaccorsi sono gli unici funzionari licenziati ed espulsi, tutti gli altri colleghi conservano il posto. Al povero Biagio capitano anche altre disgrazie. Suo figlio Filippo di quattro anni, figlioccio di Niccolò, è morto cadendo mentre giocava; la moglie Lessandra uccisa da una malattia. Scrive a Niccolò:

Et sono condocto ad tal termine che io desidero più la morte che la vita, non vedendo spiraglio alcuno alla salute mia, mancandomi lei. Spendo ogni dì poco meno d'uno fiorino; et così rimarrò abandonato, sanza compagnia et sanza roba. Non altro. Raccomandomi a voi; et pregate Dio vi dia migliore fortuna che non fa a me, che forse lo merito più di voi.

Come si vede le sorti dei due crollano mentre quelle dei Medici vanno alle stelle. Tre mesi dopo, il 18 febbraio 1513, gli araldi annunciano che è stato scoperto un complotto per uccidere Giuliano e far saltare il governo. I capi, Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, sono in prigione. È stato emesso un mandato di cattura per Niccolò Machiavelli di Bernardo, il cui nome è elencato al settimo posto di una lista di venti possibili collaboratori scritta su un foglio caduto dalle tasche di uno dei due cospiratori.

Vengono le guardie ad arrestarlo e lo portano nella prigione del Bargello. Marietta è incinta del terzo o quarto figlio; non è sicura che lo rivedrà.


A petto nudo viene interrogato dagli sgherri vestiti di nero e incappucciati. Le braccia legate dietro la schiena e legate allo strappado, un congegno che lo solleva con un violento strappo disarticolando le clavicole. Sei volte gli chiedono: come mai il tuo nome compare nella lista dei cospiratori? Ogni volta ripete la sua risposta: non lo so. Sì, conosce i nomi dei due che hanno confessato, ma non ha nulla a che fare con loro, non ha mai parlato dei Medici con loro.

Con le spalle doloranti aspetta per tre settimane nella cella gelida, senza sapere cosa sarebbe stato di lui.

    Io non vi so ben dir com'io v'entrai,
    né so ben la cagion per ch'io cascassi
    là dove al tutto libertà lasciai.
    [...]
    E mi parea veder intorno Morte
    con la sua falce, e d'un color dipinta.



I carcerieri lo informano che Boscoli e Capponi sono stati decapitati. Dopo pochi giorni di prigione sente le campane suonare per tutta la città: annunciano la morte del papa Giulio II, si dice a causa della febbre. Una morte che si addice a un pontefice dalla testa calda.

Appena riesce a muovere le dita, Niccolò chiede carta e penna e scrive lettere urgenti a Francesco e Paolo Vettori, sollecitandoli perché dichiarino la sua innocenza. Nessuna risposta. Scrive allora tre sonetti a Giuliano de' Medici, più per sollevare il suo spirito che con l'intenzione di inviarli al destinatario.

    Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
    con sei tratti di fune in su le spalle:
    l'altre miserie mie non vo' contalle,
    poiché così si trattano e' poeti!



Giuliano ha la reputazione di essere un giovane di animo gentile, amante della poesia e del divertimento culturale. Se potesse vedere con quale buon animo l'infame Machiavelli sopporta i suoi guai, e con quali amichevoli sentimenti tratta con i suoi aguzzini, forse potrebbe avere pietà.

    In questa notte, pregando le Muse,
    che con lor dolce cetra e dolci carmi
    dovesser visitar per consolarmi
    Vostra Magnificenzia e far mie scuse.



Due ore prima dell'alba dell'11 marzo 1513, dopo quasi un mese di carcere, le mura della prigione tremano per il rombo dei cannoni e i sibili dei fuochi d'artificio. Niccolò sente gridare. Le voci diventavano sempre più forti ed esplodevano in un ruggito di gioiosa celebrazione: "Palle! papa Lione!"

Si sveglia a fatica e capisce il motivo del trambusto: il cardinale Giovanni de' Medici è stato eletto papa e ha preso il nome di Leone X. Il primo fiorentino sul soglio pontificio, proprio come aveva voluto il Magnifico suo padre. Lorenzo è morto da vent'anni, ma la sua volontà è ancora viva e ora si esprime ben oltre il territorio di Firenze. Tutti si alzano e vanno alle finestre; anche le signore per bene si fanno vedere in camicia da notte. Per giorni la città è illuminata dai fuochi dei festeggiamenti; scrive il cronista Landucci che chi avesse visto Firenze dall'alto avrebbe pensato che ogni palazzo, ogni chiesa e ogni casa, anche la più umile, era in fiamme.

Il nuovo papa proclama un'amnistia generale per la sua città: tutti i prigionieri politici devono essere liberati. Dopo ventidue giorni di galera Niccolò esce dall'incubo, più magro che mai, ancora sofferente per la tortura. Ora deve trovare un modo — se esiste — per ricollocarsi in questo nuovo mondo dove Firenze non è più una repubblica, se non nel nome, e dove i Medici dominano sia a Firenze che a Roma.

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Ma la sera, dopo che il sole d'inverno si posa oltre i campi nella piana verso Pisa, rivela se stesso, la sua vera vita, a una ristretta cerchia di amici. Entrando nello studio raccolto sotto la bassa volta, "in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali"; con umiltà saluta con rispetto e chiede favori, ma non si rivolge ai principi che hanno conquistato la sua città e l'Italia. Le corti nelle quali tutte le sere entra dal suo scrittoio sono le "antique corti delli antiqui huomini": gli storici greci e romani, poeti e filosofi e tutti i personaggi del passato che popolano le loro pagine, ai quali chiede qualcosa di molto più vero e duraturo delle cose che gli altri principi non potranno mai dargli. E là "da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, et ch'io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; et quelli per loro humanità mi rispondono". In loro compagnia si lascia trasportare oltre la sua nuova noiosa vita e oltre il mondo del gregge che lo comanda. Qui trova la sua vera patria piena di concittadini, non una patria come Firenze, ma una dove sia possibile la speranza di associare la migliore saggezza degli antichi con quella dei vivi per far diventare di nuovo forte la patria malandata, più sicura, più umana che asinina, "et non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro".

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