Copertina
Autore Stefano Benni
Titolo Pane e tempesta
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2009, I Narratori , pag. 252, cop.fle., dim. 14x22x1,5 cm , Isbn 978-88-07-01791-9
LettoreRenato di Stefano, 2010
Classe narrativa italiana
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Indice


  9 PARTE PRIMA

 11 Il risveglio del Nonno Stregone
 15 Il Nonno Stregone va al bar
 17 Piombino, Alice e altra gioventù
 23 La prima battaglia del Bar Sport
 38 La cabina fantasma
 46 Ispido Manidoro
 49 Che fare? Il raduno dei cervelli
 57 Il cane più intelligente del mondo
 75 Arriva Rex
 78 Ciccio e il grande Omar

 91 PARTE SECONDA

 93 Ciccio Big Italiàn Boy
 96 Il sermone di Velluti
101 Storia di Inclinato e del suo monumento
115 Storia e metamorfosi del bar
121 Storia di Grandocca
127 La gara di racconti
130 Tore scopre il web
139 Il racconto di Giango
140 La dolce insidia
147 Crimini e galline
159 La nuvola
165 Sofronia contro Rasputin

183 PARTE TERZA

185 Il trisogno e la lettera fatale
190 Il racconto dello gnomo
193 Trincone l'Amoroso
203 La gita al mare
219 Il tradimento
224 Addio, Bar Sport
227 La grande carestia
239 Il racconto del pozzo
246 Il canto del bosco


 

 

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Pagina 11

Il risveglio del Nonno Stregone



Nei sogni della notte i cattivi chiedono perdono e i buoni uccidono.

Ma dietro gli occhi chiusi, ognuno mantiene il proprio segreto.

Perciò non sapremo mai cosa sognava il Nonno Stregone quella notte, quando all'alba il suo naso si svegliò.

La prima cosa, infatti, che il nonno faceva ogni mattina, non era aprire gli occhi ma annusare.

Era quella la prova di aver passato un'altra notte e di essere ancora momentaneamente vivo.

Aprendo gli occhi avrebbe infatti visto il buio e le ombre della sua stanza. E avrebbe potuto trovarsi ancora in qualche onirico inganno o oscuro mondo parallelo.

Ma annusando non poteva sbagliare.

Se avesse sentito odore di zolfo e alcol per accendere il grill, quello poteva essere l'inferno. Odore di pane e mosto, il paradiso. Sul purgatorio non aveva le idee chiare, ma pensava che odorasse di semolino.

A volte il Nonno Stregone temeva di svegliarsi negli odori di una vita passata. Ad esempio, un rude aroma di coperta militare e insalata di piedi lo avrebbe riportato in caserma. Matita e gesso di lavagna, era di nuovo bambino sul banco di scuola. Nebbia e lana di passamontagna, in bici verso il lavoro. Inchiostro e piombo, la tipografia.

Ma se avesse sentito odore di lavanda e peperonata, allora al suo fianco, nel letto, ci sarebbe stata la Jole. Perché la Jole, compagna della sua vita per lunghi anni, emanava quell'odore fascinoso e meticcio: i suoi capelli prima biondi e poi bianchi avevano un buon odore di shampoo, ma cinquant'anni di aerosol alla peperonata in cucina li avevano permeati, e non c'era lavaggio che potesse scindere questo connubio.


Il nonno si commosse al ricordo e questo si concretò non in lacrime ma in un peto.

Il peto era la prova della sua solitudine. Per anni aveva represso queste necessarie manifestazioni notturne per rispetto alla Jole. A volte si alzava di notte, andava sul terrazzino e modulava. Chi passava poteva pensare che lassù ci fosse un gatto, o un sassofonista insonne. A volte un amico transitava e per solidarietà rispondeva in controcanto.

Poteva accadere però che un sol diesis subdolo e indomabile partisse. Allora la Jole si muoveva un po' nel letto, borbottava qualcosa, o faceva finta di niente.

Il peto del nonno quella mattina si perse nell'aere e nessuno protestò.

Se un diavolo avesse risposto con solforoso contrappunto, sarebbe stato all'inferno.

Se un angelo avesse purificato l'aria con un turibolo d'incenso, sarebbe stato in paradiso.

Se un ragioniere di Varese avesse protestato, sarebbe stato come quella notte nel wagon-lit.

Nulla accadde e così il nonno pensò che era nuovamente e momentaneamente vivo, nel solito mondo.


Ma voleva la prova certa.

Annusò con più forza e sentì odori che lo rassicurarono.

Odore di pane, anzitutto.

Meraviglioso profumo di pane, dalla bottega del fornaio, prova dell'operosità umana e della quotidiana lotta per la sopravvivenza. Al profumo si accompagnava la vigorosa voce del fornaio Selim che intonava una versione italo-egizio-punk di E se domani.

Poi il nonno annusò odore di caffè. Nel suo naso entrarono la Colombia, l'Arabia, Maracaibo, le navi del pirata Morgan e Posillipo. Il bar stava aprendo.

Così si accinse ad alzarsi e a compiere le ventisette azioni che un umano adulto deve compiere per riprendere il proprio posto nel mondo. Riatteggiarsi a bipede, lavarsi, vestirsi, calzarsi, riempirsi le tasche di oggetti rituali, controllare che niente manchi eccetera.

L'uomo primitivo, pensò il nonno, doveva fare solo tre cose.

Alzarsi con cautela, per non dare una testata nella caverna, e pisciare.

A volte le due azioni erano contemporanee.

Non doveva togliersi il pigiama e vestirsi perché il vestito notturno e quello da lavoro erano uguali: una pelle di scimmia o di altro donatore.

La terza azione era grattarsi il cranio e constatare l'assenza di un dentifricio, di una caffettiera, di un tostapane e di altre future ideazioni. Così, deluso ma leggero, usciva dalla caverna per una nuova giornata.


Il passaggio dalle tre azioni fondamentali del pitecantropo alle ventisette dell'umano medio si chiamava civiltà.


Il Nonno Stregone scese dal letto.

In giovane età si balza giù dal giaciglio come i gatti, in un colpo solo. All'età del nonno si scende come un pitone che ha mangiato sei angurie, un gradino alla volta.

Soprattutto, una volta in piedi restavano molte cose da fare.

Alcune assai insidiose, come ad esempio indossare i pantaloni.

I pantaloni hanno tre anime e tre volti.

Vanitosi, pacifici e ben stirati nella vetrina del negozio. Informi, goffi e dormienti quando li fai cadere a terra o li posi sulla sedia.

Complicati, litigiosi e pieni di biforcazioni quando li devi infilare alla mattina, specialmente se hai fretta.

Ma ancora più subdoli sono i calzini.

Il Nonno Stregone aveva stabilito che, alla sua età, tre erano i modi possibili di infilarli.


Uno, posizione detta "della spogliarellista", steso sul letto con una gamba sensualmente sollevata. Tempo necessario all'impresa: un minuto, salvo perforazione del pedalino da parte dell'unghia dell'alluce.

Due, posizione eretta "gamba sulla sedia". Unico rischio, uno schianto del legno o un colpo della strega.

Tre, posizione "riciclami": andare a letto coi calzini e usare gli stessi la mattina dopo. La meno igienica ma la più rapida.


Inoltre, nello scegliere il paio bisognava tener conto dell'esistenza della LIC, Legge di infedeltà del calzino, che dice così:

Un calzino, messo nel cassetto,
cercherà quasi sempre di far coppia con un calzino diverso.

Quindi i pedalini tendevano a sfuggire a una banale similarità e formavano duetti fantasiosi: corto nero con lungo blu, cotone cannettato con lana a losanghe, e così via.

Poi bisognava pisciare con paziente calcolo balistico. Poi...

Ma il Nonno Stregone era ancora uno splendido settantenne. Dopo aver compiuto le ventisette operazioni della civiltà umana, scese le scale e si trovò in strada.

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Pagina 49

Che fare? Il raduno dei cervelli



Al Bar Sport era una mattina di vaporosa nebbia. Ma il sole arrivò, svelando come un'abile guida turistica le meraviglie della piazzetta. Il monumento al beato Inclinato, con fontana annessa, che dal belvedere dominava la valle. L'edicola di Fefè junior, colorata di multiformi riviste e policromi periodici. Il negozio di frutta e verdura dove splendevano banane esotiche e castagne nostrane lustre come perle. A est si stagliava un insigne esempio di architettura schifodelica, la moderna filiale della Banca delle Valli. Davanti alla porta la guardia giurata Ottorino lo Strabico controllava la situazione con obliqua attenzione. In alto, il castello abbandonato dei Settecanal, nero, torvo e popolato di fantasmi. E lontano le cime impervie e dentellate, Cima Artiglio, il Passo dell'Orso, il Dente della Strega e Monte Infausto. E poi il bar con i tavolini all'aperto e i vasi di oleandro e mortella. Sei motorini elegantemente parcheggiati negli appositi spazi, più l'Ape di Trincone. I cani sdraiati sul selciato e le gramigne che decorando i sampietrini davano alla pavimentazione una gradevole sfumatura ecologica.


Disposti a semicerchio, quel mattino, c'erano i migliori cervelli del posto e anche qualcuno dei peggiori. Tutti insieme avrebbero cercato una soluzione per salvare il bar.

C'era il Nonno Stregone, naturalmente, con due dita di toscano che gli sporgevano dalla bocca, e la vecchia giacca color ex beige, pantaloni a saltafosso, calzini corti spaiati e sandali da legionario. Era stato grande stampatore, tipografo, zincografo e linotipista. Aveva visto il piombo mordere la carta per trasformarsi in sublime poesia e bieca propaganda. Ai suoi piedi il cane Merlot, grande dissotterratore di ossa antiche, rosicchiava un osso di lanzichenecco.

C'era il professor Micillo, preside della scuola locale e autore del Manuale di conversazione per argomenti che non si conoscono, nonché studioso e teoretico di cuccoxologia, ovvero "fisica ondulatoria degli snodi sacro-coccigei". Insomma, guardatore di culi.


Sul suo trono rotellato, ecco il decano Archimede detto Archivio, coscienza storica e filosofica del paese. Partigiano e poi sindacalista, quindi lungamente titolare di una bancarella ambulante di libri finché i chilometri e la fatica gli avevano piegato la spina dorsale. Pur malato, storpio e mezzo cieco, era vispissimo. La sedia a rotelle, da lui dotata di motore 48 Ducati, raggiungeva i trentasei chilometri all'ora ed era provvista di trombe Madcow da autocorriera. Guai a tagliargli la strada.


Al suo fianco Ispido Manidoro, operaio riparatutto, genio della manualità. Con lui il suo aiutante, Terenzio Treottanta. Anni prima aveva preso una scossa a trecentottanta volt e possedeva un solo capello, un crine lungo un metro, dondolante come l'antenna di una rana pescatrice. Durante i temporali veniva usato come parafulmine.


Grandi bicipiti e naso a tortellone, ecco Zeppa, muratore ed ex pugile, sette incontri vinti, uno pareggiato e uno perso ma arbitro all'ospedale un mese.


Poi il vigile Timoteo, detto Cardellino da quando aveva ingoiato un fischietto.


Con gli occhi chiusi ma attentissimo stava Melone, scemo del paese, che aveva una capoccia grande come una cucurbitacea ed era assai stimato come profeta. Scriveva poesie e riflessioni sui muri, sui tavoli e su ogni superficie bianca, comprese le nostre camicie. Sua era la consuetudine che da anni faceva litigare atei e credenti del paese. Andava ogni notte davanti alle stelle e guardava torvo il cielo. Interrogato sul perché, scrisse sul muro del bar:

Tutti pregano e adorano Dio, ma le cose vanno male.
Se invece tutti insieme
facciamo capire a Dio che non siamo contenti,
o se ne va, o ne viene uno migliore.
Tutti meritiamo di più.

Ed ecco le leggendarie donne di Montelfo.

Simona Bellini detta Bellosguardo, sarta dotata di vista acutissima. Era capace di infilare un ago anche durante una cavalcata amorosa, come raccontava il marito, il compianto Baruch. Ma era anche donna con sguardo saggio sul mondo e nostra maξtresse à penser.

Accanto a lei Carmela Culobia, esperta e fortunatissima giocatrice: aveva cominciato ad azzeccare ambi al lotto negli anni cinquanta. Aveva vinto il prosciutto, primo premio alla lotteria del festival dell'Unità, per sette anni consecutivi, tanto da essere accusata di appartenere al Kgb. Ora era passata al gratta-e-vinci, vincendo una volta su due. Chi la diceva dotata di vista a raggi X, in grado di vedere oltre la vernice da grattare. Chi la riteneva una strega, chi diceva che era nata tutta culo, da madre lavandaia e padre pantalonaio.

La sorella di Carmela, Marcella la cartolaia, sexy e odorosa di quaderni freschi e collamidina.

Maria Sandokan, moglie di Trincone Toro, donna di leggendario vigore fisico, che quando il bue si ammalò arò un campo da sola.

Gina Saltasù, vivacissima fin da piccola e poi abilissima nel saltare dentro le macchine al volo, il resto è alla vostra fantasia.

Frida Fon, la parrucchiera, inventrice del capello supercotonato, che non si sgonfia ma anzi si gonfia per una settimana, fino a triplicare di volume.

Sofronia, la grande cuoca, che riconosceva l'uovo migliore guardando negli occhi la gallina.

La sua vice Tegamina la Sfoglina, che aveva tirato a matterello sei volte la superficie del mondo.

Didone la farmacista, che si diceva avesse ucciso due mariti col Rim.

Le sue due figlie Suzy e Kathy dette le Aspirine, perché aspiravano a entrare nel mondo televisivo come veline, bombardine, ballerine o porcelline.

La maestra Tiribocchi, detta la iena.

Giorgia la Bomba, fruttivendola, grande culo e picciol capo, la pera più grande del mondo. Donna avida e affarista, moglie tiranna dell'edicolante Fefè.


Tornando agli uomini, ecco il suddetto edicolante Fefè, esperto di cassette porno anche di paesi insospettabili come il Tibet.

Il suo amico Vitale il becchino, pallido e smorto. Aveva iniziato a fare questo mestiere a sei anni e quando la mamma gli diceva: — Vitale, non mettere le mani nel naso — si riferiva al naso delle salme.

Curnacia, gommista e menagramo, che sgonfiava i copertoni con lo sguardo. Per contrappasso, marito di Culobia.

Poldo Porcello, disinfestatore derattizzatore ed esperto di miasmi, specialista della scoreggia con le unghie. Un suo peto, una volta emesso, si attaccava con le unghie al soffitto e cadeva due o tre ore dopo, con effetti inattesi e devastanti sui presenti.

Il padre di Poldo, Girolamo Porcello, ricchissimo salumiere e grossista di maiali.


Seduto in fondo, Clemente il Serpente, nullafacente benestante, usuraio e pettegolo militante.

Pur appartenendo a un bar nemico, il Bar Moka filogovernativo, appariva al Bar Sport, con perfida curiosità, ogni qualvolta c'era una discussione, un litigio, una disgrazia. Si tingeva i capelli di nero catramoso ed era profumato come il cesso di un autogrill. Qualcuno aveva suggerito di non farlo entrare al bar, ma come diceva il Nonno Stregone: — Meglio averli davanti che alle spalle.

Un po' in disparte la moglie di Clemente, Paoletta Pillola, imbottita di sedativi e sigarette, che parlava una volta all'anno.


Poi Gandolino e Nestorino, falegnami, rivali e amici.

Raffaele Raffica, agricoltore e bracconiere e alcolista insigne.

Diogene, benzinaio e poeta, autore di Il cuore fa il pieno e Amica pompa, ex marito di Frida Fon.

Salvaloca il veterinario, famoso per aver salvato una mucca con la respirazione bocca a bocca e per essere stato visto più volte in macchina in luoghi appartati con la stessa mucca, tanto che la moglie aveva chiesto il divorzio.

La moglie Pina Silvia Salvaloca, cassiera della banca.

Basettina il barbiere col suo fidanzato Baffo il fabbro.


Ovviamente, non potevano mancare due dei quattro leggendari fratelli Trincone: Trincone il Nero, proprietario del bar, e Trincone Toro, insigne agricoltore. Mancavano Trincone Carogna, attualmente alla macchia per un furto di gomme, e Trincone l'Amoroso, morto per amore, la cui foto era visibile sopra la macchina del caffè.


Poi i giovani:

Alice Salvaloca, giovane sognatrice, ingenua ma non troppo.

Belinda, mini-miss del paese, quindici anni e minigonne assai sintetiche, begli occhi azzurri e già tanti brutti neri ricordi.

Piombino, giovane orfano selvatico e romantico, nonché campione regionale di fionda.

Giango dal bel ciuffo, Bum Bum Fattanza, Bubba Bonazzi e altri fan del gruppo rural-metal Kastagna.

Pierino il pizzaiolo, gran promessa del settore.

Zito Zeppa, undici anni e già esperto manovale e fumatore di Gitanes.

Bingo Caccola e Tamara Colibrì, piccolissimi e letali tiratori con la cerbottana.


I rappresentanti degli stati esteri: Selim il Faraone, fornaio egiziano inventore della pizza al kamut, del calzone piramidale e del crostino Tormiento ai dodici peperoncini.

Il dottor Fabian, medico condotto, assai amato nella valle e teorico della medicina afro-occidentale, il cui motto era: "Se l'antibiotico non cura l'infezione, prova con la danza del leone".

Roger Nerofumo, giovane bracciante, promessa del calcio e batterista.

I fratelli Sgomberati, Nicolau, John N'dele e Abdul, così denominati perché avevano occupato centinaia di posti, da case sfitte a magazzini, da garage a funivie in disuso, ma erano sempre stati sgomberati e cacciati via. Attualmente dormivano nel castello abbandonato dei Settecanal, insieme ai fantasmi.

Poi Nastassja la badante e Nicolina la stiratrice. Mancavano il camionista polacco Karol, in trasferta a Foggia, e gli operai del cantiere.

Inoltre, dodici cani guidati da Merlot discendente di Fen il Fenomeno e i dieci gatti più autorevoli del paese.

Saetta, ex grande predatore, ora obeso Buddha.

Polifemo, guerriero monocolo che vinse in battaglia una volpe.

Gargagnau, il cui miagolio amoroso era più potente di un sassofono.

Gargaraffa, mangiatore di serpenti.

Zorro, seduttore dagli occhi di smeraldo.

Fanny, più veloce di una gheparda e gran ladra di salamini.

Teseo tripode, che sfuggì alla tagliola.

Dora la placida, che dormiva ventitré ore e nell'altra ora cercava un posto dove dormire.

Zombie, scaraventato sull'asfalto e dato per morto dieci volte.

La vecchissima Nerina, che posò nuda per Manet.


In quell'assemblea erano rappresentati varie tendenze e schieramenti, ma tutti erano d'accordo che il bar andava salvato, meno due o tre che erano spie, però si sapeva.


– Amici e paesani, – disse il Nonno Stregone – sarà una dura prova. Abbiamo di fronte dei nuovi nemici. Come amo ripetere, una volta il tempo per demolire una casa era lo stesso che ci voleva per costruirla. Adesso, basta un attimo. Le case non gridano.

– Andrà tutto bene – disse Curnacia il menagramo.

Tutti si toccarono le palle, chi non le aveva quelle dei cani.

– Io tiro fuori il fucile – disse Archivio. – L'ho già fatto da giovane e lo rifarò.

– Ma se sei cieco – disse Trincone l'oste.

– La fucilata di un cieco fa male come la fucilata di quelli che ci vedono – rise Archivio.

– Tutti devono morire, anche le cose, anche i luoghi, e così le persone – disse solennemente Vitale il becchino.

– Comincia tu – disse Melone.

– Potremmo comprare noi tutti i terreni – disse Culobia, sventolando un gratta-e-vinci. – Ecco, voilà, ho vinto dieci euro, do inizio alla colletta.

– Io ci metto metà della mia paga di oggi, sei euro – disse John N'dele Sgomberati.

– Io ho sedici euro in monetine da un centesimo – disse Pierino, che la domenica faceva il chierichetto passando dalla piadina all'ostia.

– Non ci vogliono i soldi, ci vuole un'idea – disse il nonno.

– Ricordate Ulisse ed Epeo? – disse il professor Micillo.

– Quando si vuole qualcosa che si ama, bisogna battersi – disse Sofronia la cuoca. – Vi ricordate la storia di Fen il Fenomeno?

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Pagina 127

La gara di racconti



Era tardi e faceva un po' freddo.

Il Nonno Stregone se ne andò via con alcolico ondeggiamento, seguito dallo sguardo interrogativo di tutti.

— Avete capito cosa voleva dire il vecchio? Io no — disse Kathy Aspirina.

— Io credo — disse Alice — che volesse farci capire che in pochi anni il mondo è cambiato più in fretta che in tutti i secoli precedenti. E lui ha vissuto questi grandi, rapidissimi cambiamenti. Noi invece ne vediamo solo un pezzo.

— Noi non vediamo cambiare più niente, — disse Belinda — tutt'al più passiamo da un canale all'altro col telecomando.

— Nonno Stregone è uno dei più vispi del paese, — sospirò Nerofumo — ma guarda com'è ridotto.

— L'alcol è una gran brutta cosa — disse Belinda scolando la quarta birretta.

— Che tristezza, ragazzi — disse Giango, con voce un po' strascicata. — Questi vecchi sono proprio rincoglioniti. Non fanno altro che sbronzarsi e raccontare. Guardateli lì, i nostri parenti e genitori, inchiodati a ricordare il passato.

— Ma un giorno saremo vecchi anche noi — disse Kathy Aspirina.

— Sì, — disse Alice — solo gli animali sembrano sempre giovani.

— Non è vero, — disse Zito Zeppa scuotendo la testa — guarda bene: Merlot ha il muso bianco. Set Setter trascina le zampe di dietro. E quella palla di lardo che dorme sulla sedia è Saetta, quello che prendeva i piccioni al volo...

– Solo l'amore non invecchia – disse Piombino con un filo di voce.

Passò uno stormo di uccelli e da qualche casolare lontano i cani cominciarono a ululare.

Alice e Piombino si guardavano negli occhi e Giango capì che qualcosa di meraviglioso succedeva e lui ne era escluso. Perciò si allontanò e si mise a tirare sassi giù dal belvedere.

Ma Alice, gridò:

– Vieni qui, dai, scemo. Non fare l'offeso.

Giango tornò col muso torvo. Piombino proseguì:

– Comunque anche noi diventeremo vecchi. Solo gli gnomi possono evitarlo. Decidono loro quando e quanto invecchiare. Un giorno si alzano e dicono: bene, da oggi avrò settant'anni, oppure cento.

– E possono anche andare all'indietro?

– A cosa servirebbe? – disse Alice.

– Io avrei un'idea – disse Giango. – Torno agli anni sessanta, prendo il treno per Liverpool, vado da Paul McCartney e gli dico: dai, con quel fesso occhialuto di John Lennon non farai mai strada, fai le canzoni con me.

– Bello – disse Alice. – Paul, Ringo, George e Giango.

— Yesterday, di Giango-McCartney — sghignazzò il ragazzo.

— Scemo, — disse Piombino — io parlo seriamente e tu dici cazzate.

— Sei geloso perché ho fatto ridere Alice, eh? — disse Giango ballandogli intorno. – Ma io non morirò qui, in questo paese di mummie.

– Allora vattene, invece di lamentarti.

Giango gli puntò contro un dito e la banana di capelli cementati.

– Sei un poveraccio figlio di un suicida e con uno zio alcolizzato, lavori nel letamaio e ti strafai di stramonio e funghi allucinogeni, altro che gnomi.

– E tu sei un meschino ignorante, rubi i soldi della cassa del bar e suoni la chitarra peggio di un rospo, altro che rock-star.

E i due si fronteggiarono, in posizione di inizio round. La campana della chiesa suonò.

– Basta! – disse Alice. – Smettetela.

– Zitta, Alice – disse Piombino. – Sei un cinico del cazzo, Giango.

– Sei uno sfigato sognatore – rispose l'altro. – Morirai qui, in questo maledetto posto dove niente cambia da anni...

– Chi racconta la storia migliore e più nuova e contemporanea, lo baciamo – dissero le Aspirine.

– Comincio io – disse Piombino.

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