Copertina
Autore Stefano Benni
Titolo Bar Sport
EdizioneMondadori, Milano, 1979 [1976], Oscar 1036 Umorismo 5
LettoreRenato di Stefano, 1988
Classe narrativa italiana , umorismo
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Indice


  7   Introduzione storica

 13   La Luisona
 15   Attrazioni
 26   Il tecnico
 30   Il professore
 35   L'insegna
 38   Bovinelli-tuttofare
 41   Il bimbo del gelato
 43   Il Cinno
 48   Cenerutolo: favola da bar
 54   Il nonno da bar
 57   Il grande Pozzi
 66   Il cinema Sagittario
 72   Il playboy da bar
 78   La cotta del ragionier Nizzi
 81   Pasquale il barbiere
 84   Comparse
 88   Villa Alba
 91   Notte d'estate
 94   La lambretta
 97   « Conosco un posticino »
102   La trasferta
107   Viva Piva
117   Due casi storici
125   Il vero pescatore
129   La naja
134   Buon Natale

 

 

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Pagina 7

L'uomo primitivo non conosceva il bar. Quando la mattina si alzava, nella sua caverna, egli avvertiva subito un forte desiderio di caffè. Ma il caffè non era ancora stato inventato e l'uomo primitivo aggrottava la fronte, assumendo la caratteristica espressione scimmiesca. Non c'erano neanche bar. Gli scapoli, la sera, si trovavano in qualche grotta, si mettevano in semicercbio e si scambiavano botte di clava in testa secondo un preciso rituale. Era un divertimento molto rozzo, e presto passò di moda. Allora gli uomini primitivi cominciarono a riunirsi in caverne e a farsi sui muri delle caricature, che tra di loro chiamavano scherzosamente graffiti paleolitici. Ma questo primo tentativo di bar fu un fallimento. Non esistevano la moviola, il vistoso sgambetto, il secco rasoterra, il dribbling ubriacante e l'arbitraggio scandaloso, e la conversazione languiva in rutti e grugniti.

Gli antichi romani, invece, inventarono subito la taverna osservando il volo degli uccelli, e la suburra era un vero pullulare di bar. Gli osti facevano affari d'oro, tanto che divennero presto la classe dominante. Cesare cominciò la sua carriera come cameriere, e conservò per tutta la vita la pessima abitudine di farsi dare mance dai barbari sconfitti.

Nei bar romani si beveva molta menta, vini dei colli e assenzio. Le leggi erano molto severe: a chi veniva pescato ubriaco veniva mozzata la lingua. Questo provvedimento fu revocato allorché in Senato le sedute cominciarono a svolgersi in perfetto silenzio.

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COS'E' UN UBRIACO
Divagazioni filosoficbe del professor Piscopo

«Prendete una qualsiasi persona, versatele dentro cinque o sei litri di birra, e ne farete un ubriaco» diceva Schopenhauer agli alunni del suo corso di Pessimismo all'università di Jena. Era una frase che il Maestro ripeteva spesso, e gli alunni si chiedevano ogni volta se il loro insegnante era molto profondo o molto ubriaco.

In realtà, Schopenhauer voleva dire che ognuno di noi è un ubriaco in potenza. Naturalmente, essendo ubriaco, aveva bisogno del paragone della birra per dare un'idea dell'ubriachezza. Se fosse stato sobrio, avrebbe usato altri termini, e non si sarebbe sdraiato sulla cattedra.

In realtà, soleva chiedersi spesso il filosofo, cos'è un ubriaco? E, penso, qualcuno di voi si sarà talvolta rivolto la stessa domanda. Non è, evidentemente, uno che beve. Tutti noi beviamo. Non è nemmeno, uno che beve molto. I cammelli bevono molto, ma non ne ho mai visto uno cacciato fuori da un bar.

Schopenhauer, ad esempio, dava questa definizione dell'ubriaco: «Un ubriaco è quella persona che dopo aver bevuto molto vino, o birra, o bevande alcoliche, a fine serata vede due baristi dietro il banco». In realtà, è una definizione errata, come ebbe a fargli notare Hobbes. Se ad esempio al bancone del bar servono marito e moglie, cioè due baristi, tutti gli avventori del bar sono da considerarsi ubriachi? Evidentemente no. Quindi la definizione esatta, secondo Hobbes, è la seguente: «Un ubriaco è quella persona, che dopo aver bevuto molto vino, birra e melassa, a fine serata vede il doppio dei baristi che vedeva prima di bere».

A parte il fatto che Hobbes, come avrete notato, ha messo la parola «melassa» al posto delle bevande alcoliche, e questo non è antologicamente corretto, perché corrisponde a un suo gusto soggettivo, non si vede come questa definizione possa essere presa per buona. «Infatti» critica Schopenhauer «la teoria del doppio è assurda. Mettiamo il caso che all'inizio, quando il futuro ubriaco inizia a bere, al bancone ci sia solo il marito, e la moglie sia a spazzare il retrobottega. A fine serata l'ubriaco non vedrà marito + marito: ma due mariti e due mogli, cioè quattro volte il numero iniziale. Inoltre, una persona che va al bar per divertirsi, non può mettersi a contare il numero dei baristi tutte le volte per essere sicuro di accorgersi quando è ubriaco.»

La critica di Schopenhauer è molto feroce, certo, ma in re ipsa ineccepibile, almeno fino a questo punto.

«Hobbes» prosegue Schopenhauer «può continuare nella sua vana ricerca di una definizione matematica dell'essenza dell'ubriachezza. In realtà, egli è un bevitore di melassa, e come tale dovrebbe limitarsi a parlare di libri per ragazzi. Comunque, se una definizione dell'ubriaco può essere tentata, io suggerirei questa: "Ubriaco è quella persona che, dopo aver bevuto molto vino, o birra, o fernet, o bevande alcoliche, non riesce più a stare in piedi su una gamba sola e a braccia aperte, e a camminare dritto su una immaginaria linea retta".»

Definizione granitica, nella quale però anche voi potete cogliere qualche debolezza. Il che non sfuggì a Hobbes, il quale soleva dire che «In aniore e in filosofia tutto è lecito», come ben sapevano le sue scolare. Egli attaccò l'edificio chopenhaueriano con le pesanti mazzate della sua dialettica. Rilevò in primo luogo la presenza della parola «fernet» nel discorso del Maestro. «Evidentemente» scrisse Hobbes «nella camera dove ormai vive rinchiuso, Schopenhauer ha trovato una bottiglia di fernet, e questo ha gravemente deviato la sua prospettiva metodologica; infatti la sua ultima definizione è un capolavoro di formalismo, senza alcun contenuto. Prendiamo il fatto dell' "una gamba sola e con le braccia aperte". E' ovvio che ben poche persone civili si sono mai trovate in vita loro in una simile posizione. Eppure, non pensò che debbano essere considerate ubriache. Neanche il Papa, immagino, saprebbe restare su una gamba sola e con le braccia aperte. Schopenhauer vuole forse fare del sottile anticlericalismo? E poi, come dobbiamo immaginare che funzioni questo criterio? Forse che una persona, deve entrare in un bar saltellando su una gamba sola, per dimostrare di essere sobria? E lo sarà per tutto il tempo che riuscirà a restare in quella scomoda posizione? E se metterà il piede a terra, dovrà da quel momento essere considerata ubriaca? E come farà a bere se deve tenere le braccia aperte? SchopenhauEr risponda a queste domande, e gli regalerò una bottiglia di brandy.

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Come si diventa Cinno? Si diventa Cinno perché non si ha più voglia di studiare. Alcuni lasciano la scuola e fanno i vicedirettori nell'azienda del babbo. Altri si mettono a fare, borse e cinture. Altri ancora si fanno passare un piccolo stipendio mensile, si iscrivono a Architettura e partono per il Gargano. Altri, inspiegabilmente, preferiscono diventare Cinno. Qualcuno parla di vocazione, altri di ragioni sociali.

Come che sia, Cinno non si diventa da un giorno all'altro.

COME SI DIVENTA CINNO

Il piccolo Masotti, il primo giorno di scuola, non piangeva come tutti gli altri bambini. Mangiava un fruttino di cotognata e si guardava intorno. Piangevano, invece, i Masotti genitori, perché era il giorno che sognavano da anni. Il piccolo Masotti fu inquadrato con tanti bambini neri e tante bambine bianche. Il direttore, un uomo dallo sguardo severo e i modi bruschi, li guardò sfilare tutti davanti senza una parola. Quando passò Masotti lo fermò, e gli disse: «Tu, aggiustati il fiocco» e fece l'atto di toccarlo. Il piccolo Masotti estrasse dal grembiulino nero una gambina secca e piena di bozzi da caduta di bicicletta, e colpì il direttore al cavallo delle braghe. Ebbe così inizio la carriera scolastica del piccolo Masotti.

Il piccolo Masotti era figlio unico di due Masotti. Masotti padre era camionista e portava pesce refrigerato su e giù per l'autostrada. Triglie giapponesi, merluzzi di Hong-Kong e un rombo di Cattolica a far da guardia. Guidava tutta la notte con la sola compagnia di un pacchetto di nazionali e una foto a colori di Ava Gardner, con autografo falso fatto dalla moglie. Non aveva mai avuto incidenti, tolta la distruzione di un Mottagrill Pavesi nel 1968 e una caduta nel Po per la quale i pescatori della zona continuarono a pescare seppie per molti anni a seguire. Guadagnava quanto bastava per non morir di fame, ma sognava per il figlio un futuro diverso.

Masotti madre faceva le tendine a fiori con una macchina da cucire a pedali, il casco in testa e una maglia della Legnano per non sciupare i vestiti. Le vendeva agli ospizi e ai camionisti amici del marito, per cui faceva anche la decoratrice. Prendeva un vecchio tre assi e in un giorno lo trasformava in un confortevole chalet svizzero, con vasetti di fiori, fodere con i coniglietti, tappetini e, a richiesta, un abat-jour sul retrovisore. Anche lei sognava per il figlio un futuro diverso.

Fu deciso che il piccolo Masotti si sarebbe laureato e avrebbe fatto l'avvocato. Fu allevato con grandi dosi di minestra e, su consiglio degli amici del bar, con giochi che sviluppavano l'intelligenza, come la battaglia navale e il meccano. Ma il piccolo Masotti non si rivelò subito né geniale né più avanti di quelli della sua età. Le sue corazzate affondavano come biscotti, e l'unica cosa che riuscì a fare col meccano fu un metro snodabile da sarto. Non leggeva Kant, non aveva orecchio per la musica, se gli si metteva la matita in mano disegnava sempre la stessa cosa, una patata, e poi si addormentava. E' ancora un bimbo, verrà fuori, dicevano i Masotti genitori, ma erano un po' preoccupati. Masotti padre lo rimpinzava di fosforo, e ogni tanto rubava qualche quintale di merluzzo congelato dal carico e obbligava p.M. (piccolo Masotti) a mangiarlo a merenda. P.M. non protestava, si metteva il pesce in bocca e andava a giocare sotto al camion.

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Il playboy da bar

Per prima cosa bisogna tener presente che non lo troverete tutte le sere: il playboy va al bar una sera sì e una sera no. Questo per il fatto che deve raccontare agli amici, il venerdì sera, l'avventura dei giovedì sera, e così via. Uno dei momenti più drammatici per il playboy è quando entra nel bar e dice «Ragazzi, adesso vi racconto cosa mi è successo ieri sera al Flamengo di Modena» e si sente dire: «Ma se ieri sera eri qui a vedere la partita!». Allora il playboy constata il calendario e scopre di aver sbagliato di un giorno, e per salvare la faccia deve correggersi: «Volevo dire stamattina al Flamengo di Modena», e insiste per convincere tutti che a Modena è di moda dare party a base di cappuccini dalle otto a mezzogiorno.

Un playboy astuto, comunque, non incorre in questi errori. Resta chiuso in casa il giorno prima, oppure va al cinema con una barba finta a Firenze, e la sera dopo si spettina, si passa un sughero bruciato sotto gli occhi entra nel bar e crolla su una sedia. «Ragazzo, un Vov» chiama, e comincia a raccontare.

E' naturale che quasi sempre il playboy da bar racconti delle balle. Ma se riesce a raccontarle con stile, avrà ugualmente l'approvazione di tutti. Molto spesso il playboy si autosuggestiona a tal punto, che resta invischiato nel suo racconto fino alle estreme conseguenze: i manicomi sono pieni di playboy impazziti in questo modo. Capita anche talvolta che il playboy vada veramente a donne: allora il discorso si fa molto più interessante. Diamo di seguito un esempio di una serata di playboy da bar così com'è realmente avvenuta, e come è stata poi raccontata.

I fatti: Alle 9 di sera piove che Dio la manda. Il playboy Renzo, del bar Antonio, si trova con due fratelli napoletani benzinai dell'Agip, i Di Bella, e con Formaggino, fattorino del salumiere. Si decide di salire sulla Giulietta sprint gialla dei Di Bella e di puntare verso il Tico-Tico di Castel San Pietro. I quattro dispongono in totale di lire quattromilacinquecento, marlboro in numero di dieci e un terzo del serbatoio di benzina. Si parte stretti come acciughe in un concerto di peti orrendi, nei quali si distingue il maggiore dei Di Bella che prima di ogni flatulenza urla «Sentite questa!». Si va ai quaranta per risparmiare benzina e perché il tergicristallo non funziona. Si arriva al Tico-Tico a mezzanotte.

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Comparse

Questi altri personaggi si notano meno, ma non mancano mai in un bar serio.

Il benzinaio

E' un benzinaio molto grasso, in tuta. Beve caffè, molto caffè, dalle dieci alle dodici tazze, e sta al bancone in media un'ora. Ride sovente. La particolarità di questo personaggio è che, se voi prendete la macchina e fate il giro di tutti i distributori di benzina dell'isolato, non ne troverete alcuna traccia. Le spiegazioni possibili sono tre:

l. Il benzinaio ama attraversare tutta la città a piedi per venire nel vostro bar, e ha il suo distributore in autostrada, venti chilometri a nord.

2. Il benzinaio è un avvocato feticista che riesce ad avere rapporti sessuali con la moglie solo se si mette una tuta rossa.

3. Il benzinaio è un fantasma.

Un curioso, per accertarsene, toccò una volta un benzinaio per vedere se era vero, e ci vollero tre persone per staccarlo dal muro: i benzinai hanno un grande senso del pudore.

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Villa Alba

Stamattina alla casa di cura Villa Alba c'è tutto il bar Sport. Il parcheggio è pieno di motorini. Operano Schiassi Nerio, si sente dire in giro.

Passano suore piccolissime, della misura casa di cura, che è una misura standard, uno e quaranta. Le fanno a Vicenza, in un seminario con i soffitti bassi bassi. Quando sono pronte, le spediscono in scatole di cartone, come le bambole, in confezione da cinque, si straccia il cellophane ed escono dolcissime, attivissime, e col vestitone stirato.

In sala d'aspetto ci sono cinquanta persone. Il cartello «Vietato fumare» è invisibile per la nube di sigaro toscano. Passa il primario, distinto e brizzolato, coi camice bianco e l'abbronzatura da primario, tonalità mogano. Dalla tasca gli penzola lo stetoscopio lo sguardo è distaccato. In cinquanta lo circondano chiedendo notizie. Lui parla con tono basso e severo, ogni tanto nel mezzo del discorso fa tirar fuori una lingua, palpa un fegato e dà una martellata nel ginocchio ai presenti. «E' una brutta ulcera» dice, «ma ce la faremo. Non so se avete presente l'ansa duodenica...» Tutti fanno di sì con la testa, come in trance.

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