Copertina
Autore Silvia Benvenuti
Titolo Insalate di matematica 3
SottotitoloSette variazioni su arte, design e architettura
EdizioneSironi, Milano, 2010, Galápagos , pag. 216, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,3 cm , Isbn 978-88-518-0130-4
LettoreCorrado Leonardo, 2011
Classe matematica , design , bambini , arte , architettura , sport , musica
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Indice


Design                                           11

    Il lume della ragione                        13
    Intrecci amorosi                             19
    Tramare un ordito                            27

Bambini                                          35

    Luna Park                                    37
    L'importanza di chiamarsi...                 41
    Ecografie                                    45
    Barriere architettoniche                     53

Pittura                                          59

    Mosche, formiche e sputi                     61
    L'infinito in un disco                       68
    Magica malinconia                            76
    Libero è bello                               82
    Un museo a prova di ladro                    89

Architettura                                     99

    Spaghetti alla catalana                     101
    La chiesa volante                           110
    La necessità aguzza l'ingegno               117
    Cetrioli e cipolle                          121

Sport                                           129

    Il comprensorio sciistico più sicuro
        dell'arco alpino                        131
    Ma Totti lo sa?                             139
    Olympia - Real: 0 - 0                       144
    Cazza la randa                              150

Musica                                          157

    Neonati in onda                             159
    Contralto macantapiano                      165
    Chiocciola logaritmica                      173
    Ascoltare la forma di un tamburo            177

Infrastrutture                                  183

    Desaparecido                                185
    Strade... sdrucciolevoli                    189
    Infrastrutture virtuali                     197

Ringraziamenti                                  205
Bibliografia                                    209
Sitografia                                      211
Indice dei nomi                                 213



 

 

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Pagina 13

IL LUME DELLA RAGIONE



È il 1989 quando Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina, grazie a Tolomeo, ottengono il Compasso d'oro, riconoscimento che premia prodotti eccellenti del disegno industriale. La lampada Tolomeo, «il lume della ragione», è una brillante rivisitazione dell'originale Luxo L-1 (nota in Italia anche come Naska Loris o Naska Lux) disegnata dal designer Jac Jacobsen nel 1937 e rappresentata nella Figura 1.

Una delle tante: la prima L-1, infatti, ha visto modificare le sue componenti in molti modi, a generare una famiglia di lampade diverse, tutte di grande successo. Poul Henningsen ne ha modificato il riflettore, sostituendolo con uno a sezione ellittica, in grado di contrastare l'abbagliamento e contemporaneamente poter illuminare anche gli angoli più remoti di un tavolo da lavoro. Riccardo Blumer, nella sua Cricket, ha sostituito le molle con elastici, di vari colori e facili da sostituire. Gli stessi De Lucchi e Fassina, in Tolomeo, hanno modificato il riflettore, aggiungendovi una forcella che consente di variare la direzione del fascio di luce a lampada già accesa, senza ustionarsi le dita (come chi ha posseduto una L-1 ha sicuramente fatto più volte, nei lunghi pomeriggi invernali di studio e lettura).

Nessuno, però, ha modificato il componente fondamentale della L-1: il braccio pieghevole, realizzato tramite un sistema di aste incernierate che ne determina la funzionalità e ne caratterizza il design.

Si tratta di una semplice applicazione del cosiddetto quadrilatero articolato, meccanismo che come dice il nome consiste di quattro aste incernierate, di lunghezza variabile a seconda del comportamento richiesto. Generalmente i quadrilateri articolati che vengono utilizzati negli oggetti di uso comune sono i quadrilateri di Grashof, in cui la somma delle lunghezze dell'asta più corta e di quella più lunga è minore o uguale alla somma delle lunghezze delle altre due aste.

[...]

In realtà il braccio della L-1 è formato da due parallelogrammi articolati accoppiati, cioè da due quadrilateri articolati in cui le aste opposte hanno uguale lunghezza, e di conseguenza restano sempre parallele tra loro. In questo modo, il braccio consente alla lampada di spostarsi in due direzioni (alto-basso e avanti-indietro) senza modificare la giacitura del riflettore, che si muove sempre parallelamente a sé stesso (a meno che, ovviamente, non ne modifichiate l'orientazione, scottandovi le dita come si diceva prima).

Ci sono circostanze in cui garantire che la giacitura di una certa parte rimanga invariata diventa fondamentale: basta pensare (per chi se lo ricorda) al cestino da cucito della nonna, i cui cassetti dovrebbero mantenersi paralleli a terra, in modo da non rovesciare il proprio contenuto; oppure agli elevatori, in cui sarebbe antipatico se la cabina potesse ribaltarsi invece di rimanere sempre parallela al suolo. Il meccanismo usato in questi esempi è ancora una volta l'accoppiamento di parallelogrammi articolati.

Troviamo poi il quadrilatero articolato in molti altri contesti, fuori e dentro casa: nella pubblicità originale della Tolomeo, per esempio, figurava una ruspa giocattolo, il cui sistema di struttura mobile è analogo a quello della lampada reclamizzata.

E chi tra voi è il fortunato proprietario di un letto contenitore ha a che fare con un quadrilatero articolato tutte le volte che solleva il materasso, per riporre biancheria (o ciarpame) nella capace struttura situata sotto la rete. Normalmente il letto è appoggiato contro il muro dalla parte della testa e ha una testata più o meno decorativa, utile per leggere, bivaccare e guardare la televisione senza sporcare il muro e doverlo quindi tinteggiare ogni due mesi. Se, dalla parte della testa, si montasse semplicemente una cerniera tra rete e base del letto, non si potrebbe sollevare il materasso perché la testata andrebbe a sbattere contro il muro. Bisogna quindi sollevare la rete tramite un meccanismo che consenta di muoverla verso l'alto e allo stesso tempo in avanti, ma mai indietro. Questo si può fare, appunto, incernierando la rete alla base tramite un sistema di aste che formino un quadrilatero articolato opportuno.

Se avete un marito (padre, moglie, figlio o nipote) ingegnere fate molta attenzione: con la scusa che un letto contenitore costa uno sproposito, tenderà a spacciare per necessario il suo coinvolgimento nella faccenda, cercando di convincervi che la cosa migliore è progettarlo da soli e farlo realizzare da un artigiano. Al grido di «Ci penso io!» prenderà cartoncino, forbici, righello e puntine da disegno e si immergerà in un frenetico lavoro di progettazione destinato – lo diciamo per esperienza – a protrarsi per un tempo drammaticamente prossimo a infinito. «The ultimate container bed», vi spiegherà con gli occhi che brillano dall'entusiasmo. Lasciate che si diverta, e intanto procuratevi il catalogo di Oggioni.

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INTRECCI AMOROSI



C'era una volta, molti anni fa, un anziano e potentissimo sultano che amministrava con lungimirante saggezza un impero tanto fastoso quanto decadente. Era ricchissimo: possedeva una lussuosa residenza in città e molte altre negli angoli più belli e suggestivi del suo regno.

I suoi sudditi, poveri e ignoranti, lo veneravano e lo prendevano a modello, sognando di incontrarlo, carpirgli un sorriso ed essere baciati dalla sua virtù più debordante: l'ottimismo.

La sua corte era popolata di musici e giullari che cantavano le sue gesta e ridevano alle sue battute. Essere invitati alle sue feste era un onore: vino di finissima qualità innaffiava le abbondanti libagioni, musiche raffinate e canti dolcissimi allietavano i suoi ospiti. Talvolta, a grande richiesta dei convitati, era la voce flautata del sultano stesso a levarsi su tutte le altre, in un tripudio di suoni e colori destinato ad alimentare per giorni i ricordi dei presenti e i sogni degli esclusi.

Non mancavano mai giovinette provenienti da tutti gli angoli del regno, a cui il magnanimo sultano dispensava consigli di vita, pacche sul sedere e monili preziosi, tutti segni tangibili della sua enorme ricchezza, della sua educazione raffinata e della sua straordinaria generosità. Le più belle ricevevano in dono un anello magico, composto da più fili preziosi intrecciati, che il sultano stesso metteva al dito delle ragazze. A quelle che gli piacevano così così regalava un anello formato da due fili e, a mano a mano che il suo gradimento aumentava, saliva anche il numero dei fili, da quattro a sei, o addirittura otto.

La fede del sultano, così veniva chiamata, aveva la peculiarità di poter essere infilata con facilità ma, una volta tolta dal dito, di essere estremamente difficile da rinfilare nel modo corretto, ricostruendo l'esatto intreccio dei suoi fili.

Nessun uomo avrebbe osato avvicinare una fanciulla che portasse la fede del sultano. Le ragazze omaggiate in tal modo, finché tenevano la fede, erano quindi destinate a essere sue e solo sue. Se invece, una volta tornate a casa, l'avessero tolta per uscire con qualche altro pretendente e non fossero più riuscite a infilarla nel modo corretto, non sarebbero più state ammesse alle feste del sultano, cosa che nessuna di loro avrebbe mai potuto tollerare. Diventava di vitale importanza, pertanto, scoprire il segreto dell'anello, ovvero la "ricetta" che consentisse a ciascuna di ricostruirlo una volta sfilato.

Un problema come questo si può affrontare da due punti di vista: quello topologico, in cui i fili che compongono l'anello vanno pensati come anellidi gomma perfettamente flessibile ed elastica, e quello geometrico, in cui le componenti sono invece rigide e vanno combinate tra loro nel rispetto di vincoli di natura prevalentemente meccanica. Dal momento che il secondo aspetto è ampiamente trattato in volumetti più o meno classici (quali Fedi e farfalle, Cose turche e molti altri), ci dedicheremo esclusivamente all'analisi del primo punto di vista.

In termini topologici un anello come questo, una volta infilato al dito, è la realizzazione di un oggetto astratto detto treccia chiusa. Un'idea intuitiva di treccia l'abbiamo un po' tutti, per averla subìta o tirata da bambini. Si tratta di una pettinatura realizzata dividendo i capelli in tre ciocche e intrecciandole secondo lo schema seguente:

A seconda della fantasia del parrucchiere, la pettinatura si può realizzare intrecciando le tre ciocche secondo schemi diversi, oppure suddividendo i capelli in quattro o più ciocche e intrecciandole secondo uno schema a piacere.

L'oggetto che i matematici chiamano n-treccia (o treccia a n fili) è la generalizzazione delle pettinature appena descritte, in cui la capigliatura va divisa in un numero arbitrario n di ciocche, che vanno pensate come fili sottili flessibili ed elastici, ed è precisato uno schema di intrecciamento, cioè una "ricetta" per realizzare la pettinatura richiesta.

In una n-treccia i dati di partenza e di arrivo sono n fili disposti parallelamente, e l'ordine dei fili di arrivo, che non è necessariamente uguale a quello di partenza, dipende dalla ricetta di intrecciamento. Nella treccia della Figura 2, per esempio, i tre fili partono nell'ordine 1-2-3 e arrivano nell'ordine 2-3-1. In entrambe le 4-trecce seguenti, invece, l'ordine di arrivo è uguale a quello di partenza:

[...]

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ECOGRAFIE



Il Servizio sanitario nazionale ne prevede tre, una per trimestre di gravidanza: la prima serve per stimare la data del concepimento; la seconda — detta morfologica — aiuta a vedere se è tutto in regola (si contano le dita di mani e piedi, si verifica la posizione degli organi interni, si studiano liquido amniotico e placenta); la terza consente una ulteriore valutazione della crescita fetale.

Sono le ecografie, croce e delizia di gestanti ansiose e ginecologi competenti, strumento diagnostico fondamentale, indolore, non invasivo, privo di effetti collaterali e in quanto tale spesso anche abusato. Esami dai quali i futuri genitori portano a casa, complice l'immancabile chiavetta USB, foto e filmati dell'erede per la gioia dei futuri nonni, che si producono nei commenti più improbabili: «Guarda come saluta!» (detto di Greta, 32 settimane, intenta a strangolarsi con il cordone ombelicale); «L'orgoglio di babbo» (detto di Arturo, 22 settimane, o meglio, dell'inequivocabile appendice immortalata nella prima foto erotica della sua esistenza); «È tutta il suo papà», «No, guarda, scusa, il nasino è proprio quello di mamma» (detto di X, 7 settimane, praticamente un girino, grosso testone tondo provvisto di coda con solo un rudimentale abbozzo degli arti).

Tecnica diagnostica ormai imprescindibile, l'ecografia realizza una "fotografia" di impressionante nitidezza che ritrae cavità, organi o, in questo caso, il feto, contenuti all'interno del corpo umano e come tali non visibili direttamente dall'esterno. Un miracolo che si basa sulla teoria fisica della propagazione degli ultrasuoni e su quella matematica delle equazioni differenziali.

La storia dell'ecografia inizia alla fine del XVIII secolo, quando l'abate Lazzaro Spallanzani inizia a studiare il volo dei pipistrelli, animali inquietanti per l'aspetto ma ancor più per le capacità motorie: volano nella completa oscurità, riuscendo ciò nonostante a evitare gli ostacoli e a localizzare, nel contempo, le loro prede. Lo fanno grazie all'emissione di suoni ad alta frequenza, detti ultrasuoni, che costituiscono il loro particolarissimo radar acustico.

Le onde sonore prodotte dall'animale, infatti, viaggiano lungo la direzione in cui vengono emesse fino a che, incontrando la superficie di un oggetto, vengono riflesse e tornano alla sorgente – il pipistrello stesso – portando con sé un'informazione del tipo: «Attento, a 10 metri in questa direzione c'è qualcosa». L'informazione in realtà è ancora più precisa: dal momento infatti che ogni oggetto, per le sue caratteristiche fisiche, riflette il suono in maniera diversa, il pipistrello, ascoltata l'onda sonora di ritorno, saprà se è il caso di curvare per non urtare una roccia oppure se è in vista un bell'insetto da sgranocchiare per cena.

Sostituite al pipistrello la sonda dell'ecografo e il gioco è fatto. O quasi. Della fisica, infatti, un pochino abbiamo parlato, ma ancora non abbiamo detto nulla per spiegare cosa c'entri la matematica con pipistrelli, onde e pancioni di gestanti.

Andiamo per gradi: supponiamo di avere un fascio di onde acustiche che viaggia in un mezzo materiale, in questo caso nel liquido amniotico. Quando incontra un oggetto, per esempio le ossa del cranio del bambino, una parte del fascio viene riflessa (cioè torna verso la sonda) e una parte rifratta (cioè continua il proprio cammino, cambiando un po' la direzione, fino a che non incontra un altro ostacolo).

Quanta parte del fascio viene riflessa e quanta rifratta dipende dalle caratteristiche fisiche dell'oggetto incontrato: ogni sostanza, infatti, oppone una diversa resistenza al passaggio di un'onda acustica, misurata da quella che si chiama impedenza acustica della sostanza stessa. Per questo l'effetto sul fascio entrante sarà diverso se nel viaggio attraverso il liquido amniotico le onde incontrano il femore del bambino, il suo stomaco o il cordone ombelicale, mezzi caratterizzati da impedenze acustiche diverse.

Supponiamo quindi che il nostro fascio di onde incontri prima lo stomaco e poi il femore del bambino. Le onde riflesse dallo stomaco tornano subito alla sonda, mentre quelle rifratte continuano il loro cammino all'interno dello stomaco e poi di nuovo nel liquido amniotico, fino a quando incontrano il femore, da cui vengono a loro volta in parte riflesse e in parte rifratte. Le onde riflesse dal femore tornano anch'esse alla sonda, dopo un viaggio più lungo e da una direzione diversa. Quindi alla fine la sonda riceve un segnale di ritorno dovuto in parte alle onde riflesse dallo stomaco e in parte a quelle riflesse dal femore.

In generale, per ogni fascio di onde che esce dalla sonda si ottiene un segnale di ritorno dovuto a tutte le onde di tale fascio che sono state riflesse in qualche punto del loro cammino e sono tornate dunque alla base da direzioni diverse. Questo è il segnale ecografico che dunque, dal punto di vista fisico, non è altro che la mappa della variazione di impedenza acustica all'interno del mezzo esaminato, nel nostro caso il pancione della futura mamma.

Ovviamente, quando inviamo un fascio di onde acustiche nella pancia di una gestante, non sappiamo cosa incontrerà. Conosciamo solo le caratteristiche del fascio in uscita (lunghezza d'onda, frequenza, intensità, direzione) e quelle del segnale di ritorno (detto anche eco, da cui il nome eco-grafia). Se nel loro percorso le onde incontrassero solo il liquido amniotico, otterremmo un determinato segnale di ritorno (chiamiamolo segnale nullo), che dipende solo dalle caratteristiche fisiche (densità, impedenza acustica, indice di rifrazione ecc.) del liquido, che sono note. Se invece il segnale di ritorno misurato è diverso da quello nullo, possiamo allora affermare che nel suo viaggio il fascio di onde acustiche ha incontrato qualcosa. Riconoscere cosa e a che profondità spetta alla matematica delle equazioni differenziali cui si accennava poco fa.

Si tratta tecnicamente di un problema inverso: normalmente in matematica abbiamo un'equazione differenziale e dobbiamo trovarne la soluzione, note le condizioni al contorno, ossia i parametri che la caratterizzano. In questo caso, invece, conosciamo l'equazione differenziale che governa il fenomeno della propagazione delle onde in un oggetto e sappiamo che dipende dalle caratteristiche dell'oggetto stesso. Tali caratteristiche, rappresentate essenzialmente da indici di impedenza e rifrazione, sono infatti i parametri dell'equazione in esame. Inoltre, conosciamo almeno parzialmente la soluzione dell'equazione, ovvero il segnale di ritorno dell'ecografia: quello che dobbiamo fare è risalire dalla soluzione ai parametri dell'equazione, ovvero alle caratteristiche dell'oggetto esaminato.

La faccenda, però, è complicata dal fatto che il segnale raccolto è la somma (l' integrale, volendo usare il termine esatto) di quello che succede punto per punto durante il viaggio del fascio. Per capirci pensiamo a un esame un po' più semplice, la TAC, o tomografia assiale computerizzata, che si basa sulla realizzazione di più "lastre" o sezioni, ottenute da diversi punti di vista.

Per realizzare ogni lastra viene sfruttato anche qui un fascio di onde (questa volta si tratta di raggi X) che viaggia in una direzione fissata; solo che in questo caso, a differenza di quanto succede nell'ecografia, le onde non vengono riflesse ma attraversano il corpo in esame, disperdendosi e attenuandosi a seconda di quello che incontrano sul loro cammino: il segnale risultante si raccoglie dopo, di fronte all'oggetto, come si vede nella Figura 2. La sezione che ne risulta è una specie di fotografia con zone più chiare e più scure, dove la maggiore o minore pigmentazione dipende dalla quantità di materia assorbente che il raggio ha incontrato nel suo passaggio attraverso l'oggetto. Tuttavia, se i raggi attraversano un oggetto molto sottile con alto potere assorbente, oppure un oggetto molto spesso con basso potere assorbente, quello che si ottiene è il medesimo risultato: in questo senso possiamo dire che il segnale ricevuto in un punto della sezione è il risultante di tutto quello che succede lungo la retta passante per tale punto e perpendicolare alla sezione considerata (ovvero, traducendo in termini matematici, che il segnale in ogni punto è l' integrale di quello che succede lungo la retta normale corrispondente).

In altri termini, ogni lastra è la proiezione in due dimensioni di un oggetto che vive nello spazio, e cioè in tre dimensioni, e come tale "schiaccia" tutte le informazioni raccolte lungo la direzione ortogonale al piano della lastra stessa, cioè nella direzione di propagazione dei raggi X.

Come si fa, dunque, a ricostruire l'oggetto esaminato a partire dal segnale integrale raccolto in una TAC? L'idea è sostanzialmente quella di effettuare "foto" da direzioni diverse, e sfruttare le rappresentazioni bidimensionali ottenute dai diversi punti di vista per ottenere una visualizzazione tridimensionale corretta dell'oggetto in questione.

Infatti, quando si realizza una lastra in una direzione, si ottiene punto per punto un risultato che, come già detto, è la somma (l'integrale) delle informazioni raccolte lungo la retta perpendicolare alla direzione della lastra e passante per quel punto. Effettuando una nuova lastra da una direzione diversa si ottengono informazioni analoghe, relative però a un'altra serie di rette parallele. Se potessimo fare una lastra in tutte le possibili direzioni, per ogni punto dell'oggetto da studiare avremmo le informazioni relative a tutte le rette che passano per tale punto, e potremmo dunque ricostruire con esattezza la situazione tridimensionale. Questo, ovviamente, nella pratica non si può fare (infinite direzioni implicano infinite lastre e quindi infinito tempo): il problema, dal punto di vista matematico, è allora capire se per ricostruire un'immagine veritiera è sufficiente effettuare lastre in un numero finito di direzioni.

Supponiamo, per esempio, che la lastra corrispondente a una direzione presenti al centro una macchia chiara: come abbiamo detto, questo può indicare la presenza di un corpo spesso con bassa assorbenza oppure di un corpo sottile con alta assorbenza. Immaginiamo ora di eseguire la lastra nella direzione ortogonale alla precedente: in presenza di un corpo spesso con bassa assorbenza otterremmo ancora una chiazza larga e chiara, mentre un corpo sottile con alta assorbenza produrrebbe stavolta una macchia stretta e molto chiara (come è schematizzato nella Figura 3). Quindi, realizzando lastre da due direzioni, riusciremmo a farci un'idea migliore della forma dell'oggetto.

Si dimostra che per ottenere immagini precise, rispondenti all'effettiva forma dell'oggetto analizzato, bastano un numero finito di proiezioni, quante ne realizzano gli apparecchi moderni per la TAC (all'aumentare delle proiezioni aumenta la definizione dell'immagine ottenuta). La sorgente dei raggi X deve inoltre traslare lungo l'oggetto, realizzando così varie "fette", la cui composizione realizza l'immagine tridimensionale completa.

Anche nel caso dell'ecografia il segnale raccolto dipende da tutto quello che succede nei vari punti dell'oggetto analizzato. L'ecografia però è più complicata perché, a differenza della TAC, ogni punto del segnale ottenuto emettendo ultrasuoni in una direzione dipende non solo da quello che succede lungo tale direzione, ma anche da quanto succede lungo direzioni diverse (perché, ricordate, le onde rifratte cambiano direzione, e quindi quando vengono a loro volta riflesse tornano indietro come se fossero state emesse da una direzione diversa da quella originale). Anche in questo caso, comunque, esaminando i risultati ottenuti emettendo onde in diverse (e finite) direzioni si riesce a ricostruire non solo l'effetto integrale, ma anche quello punto per punto. In particolare la sonda degli ecografi moderni, i cosiddetti 3D, emette simultaneamente ultrasuoni in tre direzioni, producendo le fantastiche immagini di cui si parlava all'inizio.

Forse se ne abusa un po', ma chi di voi l'ha provata, ne siamo certi, capisce perché!

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CETRIOLI E CIPOLLE



Difficile non notarlo. Sarà che con i suoi 180 metri di altezza è tre volte le cascate del Niagara. Sarà che ha una forma molto strana, per essere un grattacielo. Sarà che è tutto trasparente, grazie ai 24.000 metri quadri di pannelli di vetro che ne costituiscono la superficie esterna. Comunque sia, l'edificio battezzato ufficialmente 30 St. Mary Axe, dall'indirizzo della strada londinese in cui sorge, è impossibile da ignorare. Ed è irresistibile la tentazione di affibbiargli un soprannome: personalmente, lo chiamerei Supposta. Gli inglesi, forse più politicamente corretti, lo chiamano invece The Gherhin, ovvero il "cetriolo". Realizzato da Foster & Partners, studio britannico di architetti di fama internazionale, condivide con gli altri progetti del gruppo alcune caratteristiche fondamentali: è enorme, è studiato per massimizzare l'efficienza energetica, è progettato interamente al computer ed è anche bello, in un suo modo moderno e originale.

Alla base del processo di design, per descrivere la forma delle strutture da costruire, per analizzare le caratteristiche fisiche da comprendere e per tradurre il tutto nel linguaggio del computer, un solo ingrediente fondamentale: la matematica. Norman Foster e compari hanno un team speciale, lo Specialist Modelling Group, che si occupa esattamente di questo. L'architetto si sveglia con un'idea, uno schizzo, un concetto e corre dai colleghi dell'SMG i quali, fatti due conti, costruiscono un modello virtuale del progetto in esame, sul quale testare non solo le proprietà estetiche, ma anche quelle strutturali, in modo da scegliere la forma che le ottimizza entrambe. Parametric modelling, si chiama. Si tratta in pratica di uno strumento che consente di impostare le relazioni fondamentali che si vogliono mantenere invariate, e inserire quindi tutte le caratteristiche di un edificio, consentendo di modificarne alcune e verificare automaticamente l'effetto sulle altre, legate alle prime dal rispetto delle relazioni di cui sopra. È qualcosa di molto simile, cioè, a un foglio di calcolo elettronico: cambiando un dato in entrata, il foglio ricalcola tutti gli altri, nel rispetto delle relazioni fondamentali inserite all'inizio.

Se, per esempio, decidessimo di assottigliare il Cetriolo, questa modifica avrebbe conseguenze su molte altre caratteristiche, geometriche e non solo: cambierebbero le curve della griglia che ne definisce la superficie e dunque gli angoli delle vetrate, ma cambierebbero anche le proprietà aerodinamiche e acustiche dell'edificio. Il computer, adeguatamente programmato, potrebbe effettuare questi cambiamenti in maniera automatica, predicendo l'effetto della modifica geometrica su tutte le proprietà dell'edificio e consentendo un lavoro di aggiustamenti successivi mirato all'ottimizzazione delle caratteristiche ritenute importanti.

La strana forma cui il Cetriolo deve il suo soprannome è dunque il frutto di calcoli complessi, tesi non solo a realizzare un edificio esteticamente riuscito, ma anche a ottimizzarne le caratteristiche strutturali. Camminando per strada vicino a edifici così alti, per esempio, di solito non si sta proprio benissimo, perché le correnti d'aria creano vortici e turbini alla base. Grazie a simulazioni come quelle sopra descritte, si è visto che la forma cilindrica migliora la situazione, rispetto alla comune forma a parallelepipedo. Ulteriori miglioramenti sono stati ottenuti assottigliando la base e facendo "gonfiare" l'edificio più in alto, in questo caso attorno al sedicesimo piano. Ciò consente inoltre di nascondere la sua altezza effettiva a chi lo guarda dal basso, evitando così quell'effetto formica che i grattacieli della stessa taglia provocano abitualmente nei passanti. Che forse in questo modo riescono anche a vedere uno spicchietto di cielo, se non il sole che, si sa, a Londra è cosa rara.

Una delle aspirazioni di Foster & Partners era inoltre quella di rendere il Cetriolo il più sostenibile possibile, massimizzando la ventilazione naturale (in modo da risparmiare sull'aria condizionata) e l'esposizione solare (riducendo così le bollette di riscaldamento ed elettricità). Questo risultato è stato ottenuto ritagliando a ogni piano sei fette triangolari, ruotate piano per piano in modo opportuno, a fungere contemporaneamente da fonti di luce e colonne d'aria. La geometria delle fette e gli angoli di rotazione di un piano rispetto al precedente (si veda la pianta in Figura 2) sono state studiate, neanche a dirlo, tramite la simulazione al computer. Il risultato è un edificio che consuma il 50% in meno rispetto ad altri della stessa taglia. E scusate se è poco.

Un altro edificio in cui lo studio dell'SMG è stato fondamentale è la Cipolla, ufficialmente nota come London City Hall, sede del Municipio e del sindaco di Londra. Si tratta di un edificio tondeggiante, la cui superficie esterna è realizzata interamente in vetro e al cui interno troneggia una gigantesca scala elicoidale. È romantico pensare che ciò serva a simboleggiare la trasparenza e l'accessibilità del processo democratico. È più realistico, tuttavia, ipotizzare che sia il frutto di una progettazione accurata, tesa a massimizzare l'efficienza energetica e a ottimizzare l'acustica dell'ingresso.

Un modo per aumentare l'efficienza energetica di un edificio è diminuire la sua superficie esterna, in modo da ridurre la dispersione (e l'accumulo) del calore. Tra tutti i solidi di volume fissato, la sfera è quello di superficie minore: per questo la forma della Cipolla è simile a quella dì una sfera. Solo simile, però: la sfera, infatti, è difficile da costruire, mentre è molto più facile approssimarla, in questo caso tramite fette orizzontali, ognuna delle quali è un tronco di cono. Fette che non sono simmetricamente impilate una sull'altra — troppo facile - ma "sporgono" da una parte, a realizzare una forma che ricorda piuttosto quella di un casco da motociclista, o l'elmetto di Darth Fener, se siete appassionati di Guerre Stellari. Non a caso, ovviamente, e neppure per banali fattori estetici: la ragione per cui le fette sporgono verso sud è che in questo modo da quel lato le finestre di ogni piano sono ombreggiate dal piano superiore, in modo da ridurre (e in realtà, si favoleggia, eliminare del tutto) il ricorso all'aria condizionata in estate. Non che a Londra l'aria condizionata sia una dotazione irrinunciabile. Vorrei proprio vederlo, Sir Norman Foster, a fare la stessa cosa in Oman, dove sta progettando una nuova città costiera che dovrà sorgere a ovest di Muscat.

La scala elicoidale, invece, è stata inserita al centro dell'atrio per ridurre l'eco, che all'inizio rendeva assolutamente impossibile l'acustica dell'edificio. In questo modo, infatti, il suono rimane intrappolato sotto la rampa, realizzando così un atrio appropriato per un edificio che mira a rappresentare la voce del popolo.

Una delle caratteristiche che accomunano Cetriolo, Cipolla e molte altre realizzazioni di Foster e compari è l'apparente assenza, nelle superfici esterne, di linee rette. La firma stilistica dello studio è infatti questa rotondità, questa morbidezza, che dà alle costruzioni il loro look inconfondibile. E che, in realtà, è un trucco. Perché nel 99% dei progetti le superfici curve non compaiono proprio per niente.

Nel caso del Cetriolo, per esempio, c'è un unico pezzo di vetro curvo, una copertura a lente posta esattamente sulla sommità dell'edificio. Come abbiamo accennato, anche nel caso della Cipolla la forma curva è solo approssimata, grazie a molti pannelli poligonali piatti. E l'illusione è tanto più realistica quanto più numerosi sono i poligoni.

Copiano l'idea di Richard Buckminster Fuller, insomma, che con la sua cupola geodetica, brevettata nel 1954, è stato il primo a imitare la forma sferica tramite costruzioni poliedrali.

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