Autore Alfonso Berardinelli
Titolo Non è una questione politica
EdizioneItalosvevo, Trieste-Roma, 2017, Piccola biblioteca di letteratura inutile 7 , pag. 70, intonso, cop.fle., dim. 12x18,8x0,5 cm , Isbn 978-88-99028-18-3
LettoreGiangiacomo Pisa, 2017
Classe politica , destra-sinistra , paesi: Italia: 2010









 

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Indice


Premessa                                         7

Accoglienza                                     11

Élite                                           16

Tecnologie                                      20

Malinconie                                      26

Lo stato di paura                               33

L'incontenibile entusiasmo di Karl e Friedrich  39

Don Chisciotte spalle al muro                   44

Balzac e il matrimonio                          50

L'Italia di Stendhal                            56

Il vecchio Marx                                 61


 

 

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Pagina 20

TECNOLOGIE



Insomma, gli esperti ci sono arrivati e la cosa non è esattamente entusiasmante: le tecnologie della comunicazione digitale, informatica e telematica stanno mutando e sempre più trasformeranno non solo le nostre abitudini, ma il nostro sistema nervoso, il funzionamento delle facoltà mentali, il substrato psichico conscio e inconscio, la nostra cosiddetta interiorità, che probabilmente smetterà di essere interiore, e infine (come ovvio) l'intera percezione che abbiamo del nostro essere al mondo: cioè del tempo, dello spazio, della causalità.

La cosa che mi sorprende di più leggendo La rete ci renderà stupidi? un libretto di Derrick De Kerckhove , sociologo belga-canadese della comunicazione, è il modo neutro, impassibile che lui ha di prospettare tutto questo, cosa che accentua la mia ben radicata e quasi animale diffidenza per gli scienziati e la loro beata etica dello studio obiettivo. Si trattasse di studio delle formiche o di qualche specie vegetale, una tale atarassia potrebbe essere (almeno momentaneamente) accettata. Ma quando si tratta di esseri umani, di cervello, coscienza, comportamento e quindi di tutti gli aspetti della cultura e della socialità, be', tanta dissociazione fra razionalità scientifica ed emozioni morali fa spavento, lasciate che lo dica.

Il titolo di questo opuscolo replica quasi alla lettera quello ben noto di un sostanzioso volume scritto da un altro specialista, l'americano molto più appassionato Nicholas Carr , il quale mise in fila argomenti su argomenti per mostrare che c'è poco da avere dubbi: in effetti «internet ci rende stupidi» (o diciamo "più" stupidi).

De Kerckhove, invece, non batte ciglio. Rispetta il rispettabile Carr, ma dissente. No, saremo diversi, molto diversi, ma anche migliori. È vero che non siamo granché e il desiderio di migliorarci, quanto a efficienza e apertura mentale, è uno dei nostri più costanti propositi, progetti, quasi un'ossessione del genere umano. Ma non era mai successo, mi pare, che si sperasse di migliorare per effetto di protesi meccaniche e non nell'esercizio consapevole della volontà, dell'attenzione, del giudizio e del senso morale.

Del resto già ora almeno la metà degli esseri umani, per tollerare "il peso del mondo", va avanti a psicofarmaci e pillole varie. Una pillola per sentirsi invulnerabili, una per sentirsi felici, una per avere pazienza con i colleghi di lavoro, altre pillole per studiare, per divertirsi, per rilassarsi, per amare chi amiamo e anche chi non amiamo, per sparare al nemico senza rimorsi, per rapinare banche, mettere bombe, eccetera. La voglia di liberarsi da emozioni non gradite e da maledette imperfezioni dilaga. Perché non essere meno umani (condizione spesso penosa) diventando così più che umani?

La cosa che ormai fa più ridere è la vecchia solfa idiota secondo cui le tecnologie non sono mai buone o cattive in sé, perché tutto dipende dall'uso che ne facciamo. L'uso che invece la tecnologia fa di noi, passa sotto silenzio. A partire dagli anni Sessanta e fino a ieri o anche a oggi si argomentava così: vedere la tv non è affatto una cattiva abitudine che toglie tempo alla lettura dei buoni libri e alla civile conversazione. Basta vedere solo i programmi intelligenti, capirli bene, se sono brutti rielaborarli criticamente e rifletterci con l'aiuto semiologico di Umberto Eco , il gioco è fatto, siamo salvi, colti, disponibili e più consapevoli di prima...

Strana idea: come se noi fossimo sempre uguali a noi stessi e sempre pienamente, fermamente, inflessibilmente padroni delle nostre abitudini. È ovvio invece che ogni tecnologia induce comportamenti, cambia le abitudini, cambia chi la usa. Se poi è una tecnologia particolarmente complessa che mobilita e mette sull'attenti milioni di cellule nervose, potete immaginare quanto poco innocua sia. Ma anche le tecnologie più primitive qualcosa fanno. Se durante una lite metto su un tavolo un bastone o un coltello, non è escluso che, se tu insisti a contraddirmi e se ripetutamente mi insulti, può venirmi in mente di darti una bastonata o di ferirti. Se ho un televisore sempre lì davanti a me, lo accendo senza un perché e senza un altro perché continuerò a tenerlo acceso anche se non lo guardo, solo perché mi fa compagnia. Smettiamola con le mitologie sulla libera scelta. Le scelte sono libere una volta su cento.

La sto facendo lunga. Torno perciò all'ineffabile, scientifico De Kerckhove, il quale scrive: «nutro profondo rispetto per il lavoro di Nicholas Carr, ma non sono d'accordo con lui [...]. Gli manca la consapevolezza che la rivoluzione che stiamo vivendo investe molteplici aspetti, non solo il nostro modo di pensare, ma anche quello di sentire e di essere». Che disinvoltura! Se è così, la mutazione non è più innocua, è più radicale e profonda, nonché più imprevedibile l'incalcolabilità dei suoi effetti. De Kerckhove elenca poi alcuni degli effetti positivi. Eccoli: 1) incremento del senso di autonomia, 2) maggiore senso di potere, 3) aumento dell'autostima, 4) maggiore disponibilità al cambiamento.

Ammesso che questo sia vero (ma l'aumento degli attacchi d'ansia e di panico da dove viene allora?) qualcosa del genere l'avevo notato: è pieno di gente che "si sente" autonoma e non lo è, "sente" di possedere poteri che non ha, si stima molto senza grandi ragioni, e vuole sempre cambiare, non si sa perché.

Ecco alcuni effetti negativi: 1) perdita di capacità di riconoscere persone incontrate per caso, 2) i ragazzi passano la maggior parte del proprio tempo davanti a uno schermo piuttosto che in strada a giocare, 3) le nostre attività sono continuamente interrotte dai telefonini e da nuovi, incessanti impegni comunicativi.

Questi effetti negativi mi sembrano di gran lunga più pericolosi. Ci si stima molto e ci si crede autonomi, ma non si vedono gli altri. Lo schermo sostituisce l'ambiente esterno. L'attenzione non si ferma mai a lungo su un singolo oggetto. Insomma, se non sbaglio, è in crescita l'autismo e il senso di onnipotenza da abuso telematico. Il mondo reale impallidisce o svanisce, il caso è abolito, gli occhi e i cinque sensi sono sequestrati da un video. Questo è "social", non sociale.

La vita si smaterializza. Il rapporto corpo-mente si interrompe. L'attenzione consapevole e volontaria prolungata si dissolve. Be', tanti auguri!

Buon viaggio nel vostro meraviglioso futuro.

25 maggio 2016

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Pagina 26

MALINCONIE



Walter Benjamin , ebreo berlinese nato nel 1892, uno dei quattro o cinque maggiori critici letterari del secolo scorso, sociologo dell'arte e pensatore politico, morì nel 1940 a Port Bou, sul confine fra Francia e Spagna. Veniva da Parigi e cercava di uscire dalla Francia occupata dai nazisti per raggiungere dalla Spagna gli Stati Uniti, dove già qualche anno prima si erano trasferiti i suoi amici della Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. La polizia franchista di frontiera fermò il gruppo di esuli minacciando di consegnarli alla Gestapo, Benjamin si suicidò, ma poco dopo i suoi compagni di viaggio furono lasciati passare.

Tutta la biografia di Benjamin fu segnata da insuccessi, frustrazioni e sventure. Come autore non ebbe mai una posizione sociale stabile. Il significato e la qualità dei suoi scritti incontrarono a lungo, anche dopo la sua morte, incomprensioni di vario genere. Come filosofo non sembrava affidabile, come marxista era troppo stravagante, il suo interesse per la tradizione ebraica appariva incostante e rapsodico. Ma ormai, da circa mezzo secolo, il particolare fascino dei suoi scritti emana anche dalla loro frammentarietà e incompiutezza, oltre che dalla singolarità di uno stile condensato, antisistematico, che procede per illuminazioni, accostamenti paradossali e un incrocio sorprendente fra sociologia marxista e mistica ebraica.

All'inizio degli anni Venti aveva letto e ammirato Storia e coscienza di classe di Lukács: ma il marxismo, condiviso più tardi con Bertolt Brecht , si allineava nel suo pensiero con la passione per Kafka e Karl Kraus , arrivando a dialogare tramite Gershom Scholem , suo amico di gioventù, con l'esoterismo della cabbalà.

La prima antologia italiana dei saggi di Benjamin (in assoluto, credo, la sua prima traduzione in un'altra lingua) è il volume intitolato Angelus novus, magistralmente curato e introdotto nel 1962 da Renato Solmi per Einaudi. Da quel libro e dai saggi usciti qualche anno dopo con il titolo L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, nacque in Italia, negli anni Sessanta e Settanta, un vero culto per Benjamin, letto in alternativa sia a Lukács e a Gramsci che allo stesso Adorno. Per la generazione del Sessantotto, Benjamin sembrò il critico-filosofo più utile, affascinante e incoraggiante. Era un marxista eterodosso, mai accettato da nessuna ufficialità né politica né accademica (nel 1925 il suo studio sul Dramma barocco tedesco fu respinto da una commissione d'esame universitaria). Inoltre Benjamin non era uscito dalle vicende degli anni Trenta disilluso sulla rivoluzione e sul comunismo come Orwell , Koestler , Simone Weil , Auden. Nelle sue Tesi di filosofia della storia, suo capolavoro aforistico-politico scritto nel 1939, attaccava lo storicismo, la socialdemocrazia e la loro idea di continuità gradualistico-progressiva, riproponendo la speranza nella rivoluzione come interruzione improvvisa del corso storico, redenzione degli oppressi e di tutto il loro passato.

Nonostante il crollo quasi improvviso, con il 1980 e dopo il 1989, di ogni politica rivoluzionaria e dell'autorità culturale del marxismo, Benjamin non è mai stato abbandonato. E questo perché le sue riflessioni sono spesso ambivalenti e ibride, concettualmente sfuggenti benché letterariamente perentorie. Ne è nato un benjaminismo intramontabile, non confutabile, multiuso, che va bene sia per gli ultimi presunti rivoluzionari di mezzo secolo fa che per i black bloc e per i cultori attuali di qualunque gestualità sovversiva. È un Benjamin che permette di tenere in caldo nelle università un'eterna idea di rivoluzione che sa di utopia e di avvento messianico. Un marxismo con poco Marx e molto umore atrabiliare, una rivoluzione come il "sogno di una cosa" che percorre la storia ma non è soggetto ai rovesci della storia.

Senza questo Benjamin piuttosto spettrale e accademizzato non si spiegherebbe un libro come quello di Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta. Riattivando la memoria di innumerevoli lutti dovuti alle rivoluzioni sconfitte o fallite e al crollo dei comunismi, Traverso orienta il suo archivio delle melanconie (filosofia, arti visive, cinema) verso una nuova prospettiva di azione politica e intende dare un contributo alla ricostruzione aggiornata e corretta di un'identità di sinistra.

Quale sinistra? La più visibile e meno accettabile lacuna del libro è che per Traverso dire sinistra equivale a dire rivoluzione, marxismo, comunismo. Benché in apparenza esauriente, il suo discorso sulla sinistra è perciò dimezzato e acritico. A fuorviarlo è proprio "San Benjamin", mentre sul perché i marxisti e i comunisti hanno tradito se stessi seminando distruzione e autodistruzione, non viene detto pressoché nulla.

Le Tesi sulla filosofia della storia scritte da Benjamin alla fine degli anni Trenta ricompaiono qui come un faro che mai si spegne. Ma dei viaggi in Russia di Joseph Roth (1928) e di Gide (1936) non si parla. Il saggio antimarxista della Weil Oppressione e libertà (1934), Omaggio alla Catalogna e 1984 di Orwell è come se non fossero mai stati scritti. Quando si parla di Marx e dell'Ottocento viene trascurata del tutto l'autobiografia del maggiore scrittore politico dell'epoca, il russo Aleksandr Herzen, che nel suo lungo esilio conobbe da vicino rivoluzionari, cospiratori e sovversivi di mezza Europa, i loro gruppi, la loro logica, il loro linguaggio enfatico o cifrato. Le pagine di Herzen sulla lingua «pesante, artificiale, scolastica» della cultura politica tedesca e quelle sulla Parigi degli habitués della rivoluzione sembrano scritte nel Novecento, o ieri.

Le speranze politiche non muoiono mai? No, muoiono spesso, soprattutto se estremistiche e nutrite di utopie. Ma dopo l'elaborazione di ogni lutto, quelle speranze hanno solo due possibilità: ridurre la misura delle proprie aspettative entrando nel mondo del possibile, o perpetuare il proprio mito al di sopra dei fatti e della storia.

Traverso sceglie quest'ultima strada, culturalmente più eccitante (il riformismo manca di appeal estetico, è lento e noioso). La cultura del Novecento è stata sedotta soprattutto dagli estremismi, sia in arte che in politica. Marinetti, Pound, Gentile, Heidegger, Céline sono andati verso l'estrema destra; Lukács, Bloch, Breton, Neruda, Benjamin, Sartre verso l'estrema sinistra. Benjamin rivoluzionario presupponeva Marx. Senza Marx, era soprattutto un letterato e un mistico.

Le emozioni politiche in cui Traverso affonda le mani, non credo che la sinistra di oggi abbia il diritto di farle proprie. Mancano i presupposti sociali e politici per dare loro un fondamento reale.

La storia delle rivoluzioni novecentesche non è facilmente attualizzabile. E comunque ha insegnato che da Lenin a Mao a Castro il cammino di ogni politica rivoluzionaria è seminato di speranze smisurate, radicali fallimenti, esperimenti sociali terroristici, lutti e prolungate, spesso cieche malinconie.

9 dicembre 2016

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