Copertina
Autore Alfonso Berardinelli
Titolo Stili dell'estremismo
SottotitoloCritica del pensiero essenziale
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2001, le rane , pag. 128, dim. 115x166x9 mm , Isbn 978-88-359-5039-4
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe critica letteraria , filosofia , satira
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Indice


  9  Premessa

 15  Stili dell'estremismo:
     Fortini, Zolla, Tronti, Calasso

 87  I rumori dell'essere:
     Heidegger, Derrida, Severino

121  Il piú pessimista: Cioran
 

 

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Pagina 9

Premessa


Stili dell'estremismo è un titolo che potrebbe prestarsi a qualche equivoco. Sembrerebbe alludere indirettamente ad una difesa o lode del «giusto mezzo», dell'equilibrio, della prudenza, perfino dell'accettazione conformistica delle cose cosí come si presentano a prima vista e della società cosí come ci viene imposta.

Anche se non disprezzerei affatto le apparenze visibili in nome delle essenze profonde, direi tuttavia che si tratta di altro. Quello che mi interessa è mostrare che l'estremismo piú che essere audacia e coraggio intellettuale è diventato ad un certo punto del Novecento rigidità e cifra stilistica, forma estetica, linguaggio che paralizza e svuota il pensiero dei suoi oggetti e contenuti reali.

Il Novecento è stato il secolo in cui la politica, l'estetica, la filosofia e la teoria orientate in senso estremistico sono diventate norma. In particolare dagli anni Cinquanta in poi, la radicalità e l'estremizzazione si sono trasformate non solo in una moda, ma in una moda accademica. I giovani autori che cominciavano a scrivere, filosofare, dipingere e comporre musica volevano sopra ogni altra cosa appartenere ad una qualche avanguardia. Naturalmente questa corsa in massa verso ciò che è piú avanzato, piú moderno, piú rivoluzionario, piú estremo, trasgressivo e abissale doveva avere presto delle conseguenze. Non si trattava piú di un modo per scandalizzare il pubblico e sfidare la critica, un modo per essere coerentemente fedeli a se stessi o alla realtà rischiando l'ostracismo e l'insuccesso: si trattava ormai del modo piú sicuro di attirare l'attenzione distratta dei mass media e farsi rapidamente accettare.

Secolo «rivoluzionario» in tutti i campi e nelle forme piú disparate (anche fascisti e nazisti vollero essere o sembrare rivoluzionari), il Novecento aveva bisogno di produrre una cultura che si proponesse di «andare fino in fondo» con «estrema coerenza». Già con la nascita negli anni Dieci e Venti delle prime avanguardie organizzate, l'estremismo divenne uno stile d'epoca. Tendeva cioè ad irrigidirsi in una dottrina, in una precettistica e in una provocatoria, ipnotica retorica dell'estremismo.

La stilizzazione, cioè la forma (il Novecento ha feticizzato la forma nel momento in cui la infrangeva), assorbiva tutta l'attenzione. Bisognava conservare in ogni discorso una tensione e ipertensione rivoluzionaria anche quando nessuna rivoluzione era né alle porte né all'orizzonte.

Per chiarire le nozioni piú semplici e i fenomeni piú effimeri e contingenti, sembrava necessario fare tabula rasa, violare ogni norma, scavalcare ogni limite, sconfinare nell'indicibile, risalire all'inizio dei tempi o anticipare la fine del mondo.

Questa tradizione moderna dell'oltranza e dell'interruzione di continuità ad un certo punto della sua storia è invecchiata, si è come intossicata e ammalata di se stessa, riproponendo a vuoto come innovativi e reali dei problemi che erano piuttosto «citati» fuori contesto da un passato remotissimo. Mistica, mitologia, teologia, ontologia sono state cosí nuovamente «verbalizzate» come attuali, contando sull'aureola e sull'autorità che derivava dal loro prestigio tradizionale, dal loro continuo rinviare a un «eterno ieri» al di là della storia. L'avanguardia è diventata tradizionalismo. Perfino la teoria (o la terminologia) marxista ha finito per subire questo trattamento, sopravvivendo piú come autorità e dogma, coerenza stilistica, suggestione formale che come forma di conoscenza.

Non voglio dire che in molti casi questi comportamenti intellettuali e artistici di tipo estremistico e formalistico non avessero le loro ragioni. Ogni filosofia e arte dotate di una loro originalità tendono ad essere radicali e coerenti. E nel Novecento le generazioni che vissero due disastri come la prima e la seconda guerra mondiale non potevano che restarne segnate, avendo imparato che la realtà dei fatti sa essere molto piú imprevedibilmente estremistica di quanto la cultura sappia immaginare.

Ad un certo punto del Novecento, però, non solo fra gli epigoni piú banali, si crea un codice stilistico replicabde al di là dei moventi originari e delle situazioni che ne avevano giustificato l'invenzione e l'uso. Già con il 1930 le avanguardie esauriscono la loro carica inventiva. Con la seconda metà del Novecento, in termini di trasgressione e di innovazione formale si inventa ben poco. Si accentua la stilizzazione: che da nevrotico o drammatica diventa accademica.

Gli «stili dell'estremismo» (retorica dell'oltranza, gergo dell'ontologia, coerenza teorica a scapito dei fatti ecc.) si sono diffusi creando fenomeni che fanno pensare ad una vera e propria patologia del linguaggio. Questo è avvenuto soprattutto in alcune tradizioni culturali, come quella francese e tedesca (e per contagio quella italiana). L'empirismo, il gusto della precisione e della concretezza descrittiva hanno subito cosí una netta svalutazione di fronte al fascino delle teorie in cui tout se tient, della filosofie essenzialistiche, del teologismo e del razionalismo in cui le connessioni logiche valgono piú del riferimento agli oggetti esperibili e una nozione viene dedotta dall'altra senza essere confrontata con la realtà di cui dovrebbe rendere conto.

I saggi raccolti in questo libro hanno un taglio prevalentemente pamphlettistico. Si tratta di «esercizi di lettura» di testi teorici e saggistici. Ma spesso all'eccesso di stilizzazione dell'oggetto esaminato si risponde con un corrispondente eccesso polemico e con qualche coloritura satirica. Una descrizione precisa non sempre è una descrizione impassibile.

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Pagina 68

Le posizioni di Mario Tronti, inventore dell'operaismo italiano, e quelle di Franco Fortini sembrano ora piú vicine d'un tempo. Il comunismo è diventato per entrambi esplicitamente una fede, la rivoluzione un mito, il marxismo una dottrina teologica tanto inesauribile quanto inafferrabile è l'oggetto del suo discorso.

Il riferimento al marxismo e all'idea di rivoluzione, l'eredità del comunismo e del leninismo, la fusione ormai neppure discussa fra marxismo-leninismo di partito e marxismo critico, utopistico, revisionista ed eretico: questo tipo di «pensiero epocale» diventa in Fortini e Tronti una forma di retorica estremistica, apocalittica e messianica che non accetta di descrivere la situazione sociale attuale (Tronti non ha mai sentito il bisogno di descrivere davvero una situazione sociale) né di chiarire meglio il punto di vista di chi scrive. Colpisce soprattutto una caratteristica di questo stile di pensiero: la Politica come fatalità e sublimità, come il centro di tutto, il cuore della totalità umana e storica.

Siamo in un orizzonte di pensiero che può essere definito hegeliano prima ancora che marxista. Come in Hegel, la teologia si travasa in politica. Dio è storia, la storia è storia sacra. E quando la rivoluzione si allontana fino a sparire oltre il limite dell'orizzonte, allora è lo spirito stesso dell'Utopia, sono le categorie religiose e spirituali, i versi dei poeti e gli aforismi dei mistici a prendere possesso di un pensiero che si ostina a definirsi politico in assenza di un'attività politica corrispondente che sia visibile o immaginabile.

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Pagina 79

Calasso ha un'ammirazione devota per gli autori leggeri come piume e come fumo, che tendono a cancellarsi, a sparire, a sabotare la propria presenza nel mondo. Il suo sembra però un amore non corrisposto. O forse, piú semplicemente, la sua vocazione è un'altra. Lui non vuole sparire, non si perde, non si sbilancia in senso dionisiaco, si guarda bene dal ridicolo e da ogni pericolosa ebbrezza. Ciò che gli piace in Nietzsche (e anche in Marx) è la forza, la forza di un estremismo selvaggio che fa paura: ma ciò che gli resta estraneo, nell'uno e nell'altro, è la follia di odiare se stessi, l'oscenità di esibire la propria debolezza come se fosse una forza (Nietzsche), o la follia di voler fare giustizia nella società umana dando il potere a chi ne è privo (Marx).

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Pagina 83

Calasso non si turba per cosí poco, non accetta provocazioni. Tiene tutto sotto controllo. Ha un eccellente sistema nervoso, è robusto e impermeabile al veleno dei turbamenti, non si ammala mai, non si contagia degli autori di cui parla. Cosí però non arriva neppure a capirli. La materia viva in cui vive la loro eccellenza non lo tocca. Calasso ha sempre voluto essere terribilmente forte e impassibile. Ma questo stato di salute e di efficienza energetica quasi divina, ha un prezzo. Chi non accetta di farsi contagiare, chi vuole la forza impassibile, chi non vuole cadere, perdere, perdersi, ammalarsi, soffrire dolori e incertezze, è difficile che arrivi a capire gli autori eccellenti. Quello che Calasso capisce e coglie di loro è la loro eccellenza: il resto crede di poterlo buttare. Lui, la sola cosa che voglia e abbia sempre voluto è questo: essere eccellente, essere uno che visibilmente eccelle, che vince. Mentre loro, i suoi autori preferiti, Nietzsche, Bazlen, Benjamin, Kraus, Walser, loro perdevano, quasi tutti hanno visto qualche verità reale proprio perdendo, e perdendo anche in parte se stessi.

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Pagina 94

Il nazismo innominabile

Ci deve pur essere qualcosa negli ex nazisti non pentiti che oggi affascina tanto gli intellettuali di sinistra italiani. Questo qualcosa è lo Stile: la stilizzazione altamente parodistica dell'intelligenza, l'esibizione coerente, apatica, senza flessioni e senza ripensamenti dei proprio pensiero come prodotto di un'intelligenza superiore. Il kitsch della potenza teoretica condensata in formule inestricabili e tautologiche.

È un fatto certo che uomini come Ernst Jünger, Carl Schmitt e Martin Heidegger offrono questo. E sembrano sempre un poco (o molto) superiori ai fatti. Non si sono mai pentiti, loro. Non ci hanno mai fornito nessun utile, trasparente resoconto delle loro convinzioni e vicende politiche. Nel '33, il nazismo come «fatto dominante» li ha tremendamente affascinati, attratti e mobilitati. Ma poi, dopo il '45, come «fatto perdente», li ha annoiati ed è parso indegno di considerazioni ulteriori. Provare vergogna era qualcosa che superava nettamente le possibilità espressive del loro stile.

Chi volesse confrontare il grado di lucidità retrospettiva degli ex comunisti e degli ex nazisti, potrebbe leggere uno di seguito all'altro Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler e Ex captivitate salus di Carl Schmitt. È una prova che vale la pena di fare. Nessuno dei due libri è un capolavoro letterario. Ma l'intelligentissimo Schmitt ci fa la figura di un povero furbo molto impegnato a tenere il contegno per non farsi scoprire. Imbroglia, evidentemente. E si mette a recitare perfino la parte dello sconfitto solo perché il regime su cui aveva scommesso non è riuscito a mettersi sotto i piedi l'intero mondo e ha fatto male i suoi calcoli.

Grazie ad ex comunisti e scrittori di sinistra come Koestler, Silone, Gide, Orwell e altri, sappiamo quasi tutto delle aberrazioni staliniste e rivoluzionarie degli anni Trenta. Ma la filosofia del Novecento, che ormai è sufficientemente vaccinata contro il totalitarismo comunista, non sembra negli ultimi tempi esserlo altrettanto contro il nazismo. Di fatto, quest'ultimo non costituisce piú problema. È tornato ad essere soltanto un ingrediente del capitalismo, presente qua e là a piccole dosi, in crisi di emergenza, e quindi scarsamente riconoscibile. Ma è piuttosto strano che lo stesso tipo di intellettuali che trovavano plausibile ed emozionante l'affermazione certamente azzardata di Roland Barthes secondo cui «ogni linguaggio è fascista», restino cosí indifferenti e disarmati di fronte al caso Heidegger e alla connessione (interessante da analizzare) fra il suo linguaggio filosofico e la sua adesione al nazismo.

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Pagina 100

Chewing gum

Con Heidegger il pensiero filosofico assume volentieri la posizione primordiale del devoto e dell'orante. Cosí è avvenuto che quel pensiero si sia inchinato con irreprensibile pietas davanti all'accadere delle camicie brune e all'avvento del Führer.

Se proprio ci si deve inchinare nell'attitudine della preghiera, sempre meglio le divinità delle grandi e piccole religioni tradizionali piuttosto che l'Essere nel Tempo o lo Spirito del Mondo. E poi guardare bene, prima di inchinarsi, la cosa davanti a cui ci si inchina sarà un'empietà critica, ma è una precauzione illuministica che comunque va presa.

Le menomazioni degli spiriti eletti e degli specialisti: non ridono e non piangono, non si rallegrano né si disperano.

Ma chi è incapace di riso e di pianto è al di qua, non al di là, del bene e del male. La saggezza degli impassibili è solo un'amputazione.

L'ammirazione e l'invidia che, a volte, chi è dotato di tutte le proprie facoltà prova nei confronti di chi ne è amputato.

Come gomma da masticare, il gergo filosofico di Heidegger può essere ruminato senza fìne. Non nutre, non ha sapore, a ingoiarlo non ci si guadagna molto, a sputarlo ci si perde qualcosa, e quindi può essere usato finché si vuole senza incorrere in usura, è plasticamente immortale, permette una ruminazione meditativa che somiglia a quella dei mistici e dei metafisici, pur essendone il compiuto rovesciamento mondano e immanente, nell'era in cui la metafisica è finita o si è pienamente dispiegata come tecnica, e perciò non può essere oltrepassata dai filosofi.

Vuotare il mare dell'Essere con un cucchiaino filosofico: Heidegger ha fatto e indotto a fare essenzialmente questo. E quindi è insuperabile. La fabbrica di pensiero che ha inaugurato non verrà mai chiusa. Quel pensiero non verrà mai contraddetto. Il mare non verrà mai svuotato.

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