Copertina
Autore John Berger
Titolo Una volta in Europa
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2003, Varianti , pag. 176, cop.fle., dim. 138x220x12 mm , Isbn 978-88-339-1477-0
OriginaleOnce in Europe
EdizioneBloomsbury, London, 2000
TraduttoreMaria Nadotti
LettoreGiavanna Bacci, 2003
Classe narrativa inglese
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Indice

  9 Il cuoio dell'amore

 10 Il suonatore di fisarmonica

 39 Boris compra cavalli

 70 Il tempo dei cosmonauti

 97 Una volta in Europa

160 Suonami qualcosa

169 Le loro ferrovie
 

 

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Pagina 10

Il suonatore di fisarmonica


- Ci vieni a suonare al mio matrimonio? - gli chiese Philippe il formaggiaio. Philippe aveva trentaquattro anni. La gente aveva sempre detto che non si sarebbe mai sposato.

- Quand'è?

- Sabato venturo.

- Perché non me l'hai chiesto prima?

- Non osavo. Verrai?

- Di dov'è la sposa?

- Yvonne è del Jura. Se stasera passi dalla Lira Repubblicana, la troverai lì. Sono venuti anche i suoi genitori e degli amici di Besançon.

Quella sera il suonatore di fisarmonica, un uomo sui cinquant'anni, si trovava seduto in un caffè, a bere champagne offerto dal padre della sposa, accanto a una donna grassoccia che rideva in continuazione e portava dei pendenti alle orecchie. Il suonatore aveva guardato ben bene la giovane sposa e si era convinto che fosse incinta.

- Suonerai per noi? - chiese Philippe riempiendo i bicchieri.

- Sì, suonerò per te e per Yvonne - disse.

Sul pavimento ai suoi piedi era disteso un cane, il cui pelo era diventato grigio con gli anni. Di tanto in tanto gli carezzava la testa.

- Come si chiama il suo cane? - chiese la donna con gli orecchini.

- Mick - rispose. - È un clown senza circo.

- È vecchio per essere un clown.

- Ha quindici anni Mick, quindici anni.

- Ha una fattoria?

- In cima al villaggio, una località che chiamiamo Lapraz.

- È una grossa fattoria?

- Dipende da chi me lo chiede - rispose con una risatina.

- È Delphine che glielo sta chiedendo.

Si domandò se fosse spesso ubriaca.

- Allora, è una grossa fattoria? - chiese di nuovo lei.

- Un anno il sindaco ha chiesto a mio padre: «Avete molta neve, su a Lapraz?» E sa che cosa gli ha risposto mio padre? «Meno di voi, signor sindaco, perché possiedo meno terra!»

- Magnifico! - disse Delphine rovesciando un bicchiere mentre gli metteva una mano sulla spalla. - Mica scemo, suo padre.

- È venuta per le nozze? - le chiese.

- Sono venuta per vestire la sposa.

- Vestirla?

- Sono stata io a cucire il vestito della sposa e ci sono sempre dei ritocchi finali da fare nel Gran Giorno!

- È una sarta? - chiese lui.

- No! No! Lavoro in fabbrica... imbastisco qualcosa per me e per gli amici.

- Le farà risparmiare un bel po' di soldi - disse lui.

- Sì, ma lo faccio perché mi diverte, come lei suona la fisarmonica, mi dicono...

- Le piace la musica?

Lei districò le braccia e le allargò come se stesse misurando un metro e mezzo di stoffa. - Con la musica - sospirò - si può dire tutto! Suona regolarmente?

- Ogni sabato sera in un caffè, salvo quando c'è un matrimonio.

- Questo caffè?

- No, quello vicino a casa.

- Non vive da queste parti?

- Lapraz è a tre chilometri.

- È sposato? - chiese lei, guardandolo dritto negli occhi. I suoi occhi erano grigioverdi, come la giacca che indossava.

- Non sono sposato, Delphine - replicò lui. - Suono alle nozze degli altri uomini.

- Ho perso mio marito quattro anni fa - disse lei.

- Doveva essere giovane.

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Pagina 39

Boris compra cavalli


A volte, per confutare una singola frase, è necessario raccontare l'intera storia di una persona.

Nel nostro villaggio, come a quei tempi in molti villaggi del mondo, c'era un negozio di souvenir. Il negozio era in una fattoria ristrutturata, costruita quattro o cinque generazioni prima, sulla strada per la montagna. Ci potevi comprare dei piccoli sciatori in bottiglia, fiori di montagna sotto vetro, piatti decorati a genziane, sonagli in miniatura, arcolai in plastica, cucchiai intagliati, pelli di camoscio o di montone, marmotte a molla, corna di capra, cartine dell'Europa, coltelli con il manico di legno, guanti, magliette, pellicole fotografiche, occhiali da sole, finte zangole per il burro, i miei libri.

La proprietaria del negozio serviva al banco. All'epoca aveva passato da poco i quarant'anni. Bionda, sorridente eppure con gli occhi imploranti, imploranti dio-sa-cosa, era prosperosa, ma aveva piedi piccoli e fianchi snelli. Al villaggio i giovani la chiamavano l'Oca, per ragioni che esulano da questa storia. Il suo vero nome era Marie-Jeanne. Un tempo, prima che Marie-Jeanne e suo marito si stabilissero al villaggio, la casa apparteneva a Boris. Era da lui che l'avevano ereditata.

E adesso arrivo alla frase che voglio confutare.

- Boris è morto - ha detto Marc una domenica mattina, appoggiato al muro che si snoda come l'ultima lettera dell'alfabeto lungo il nostro piccolo villaggio. - Boris è morto proprio come una delle sue pecore, di fame e di abbandono. Quel che faceva ai suoi animali alla fine è capitato a lui: è morto come una delle sue bestie.

Boris era il terzo di quattro fratelli. Il più grande era morto in guerra, il secondo era stato ucciso da una valanga, e il più piccolo era emigrato. Sin da bambino Boris si era distinto per la sua forza bruta. A scuola gli altri bambini avevano un po' paura di lui e, allo stesso tempo, lo prendevano in giro. Avevano individuato il suo punto debole. In genere, quando si vuole sfidare un ragazzino, si scommette che non riuscirà a sollevare un sacco da settanta chili. Boris era in grado di sollevare settanta chili senza sforzo. Per sfidare Boris bisognava scommettere che non sarebbe riuscito a ricavare uno zufolo da un ramo di frassino.

Durante l'estate, quando i cuculi hanno smesso di cantare, tutti i ragazzi avevano uno zufolo di frassino, certi addirittura dei flauti con otto buchi. Una volta che avevi trovato e tagliato il rametto di legno, dritto e del diametro giusto, te lo mettevi in bocca per inumidirlo con la lingua e poi, con il manico di legno del tuo coltellino tascabile, lo picchiettavi tutt'intorno, con colpi secchi ma non troppo forti. La picchiettatura separava la corteccia dal legno, di modo che potevi sfilare il legno bianco, come un braccio dalla manica. Infine intagliavi l'imboccatura e la reinserivi nella corteccia. L'intera operazione non richiedeva più di un quarto d'ora.

Boris si metteva in bocca il rametto come se dovesse divorare l'intero albero della vita. Ma il suo problema era che, tutte le volte, dava dei colpi troppo forti con il manico del coltello, finendo per danneggiare la corteccia. Tutto il suo corpo si tendeva. Ci riprovava. Tagliava un altro ramo e, quando era il momento di picchiettarlo, o lo colpiva con troppa forza oppure, concentrato com'era nello sforzo di trattenersi, non riusciva neppure a muovere il braccio.

- Dai, Boris, suonaci qualcosa! - lo canzonavano gli altri.

Una volta che ebbe finito di crescere, le sue mani erano insolitamente grosse e i suoi occhi azzurri occupavano orbite che sembravano destinate a occhi grandi come quelli di un vitello. Era come se, al momento del suo concepimento, ciascuna delle sue cellule avesse ricevuto l'ordine di crescere il più possibile; ma la sua spina dorsale, il femore, la tibia, il perone avessero fatto orecchie da mercante. E così Boris era di altezza media, ma i suoi lineamenti e le sue estremità sembravano appartenere a un gigante.

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Pagina 97

Una volta in Europa


Prima che il papavero fiorisca, il suo calice verde è duro come il guscio esterno di una mandorla. Un giorno il guscio si spacca in due. Due sepali verdi cadono sul terreno. Non è una scure a spaccarlo, semplicemente un bocciolo appallottolato formato da petali sottili ripiegati come stracci. Via via che gli stracci si dispiegano, il loro colore passa dal rosa pallido al rosso più squillante che si possa trovare nei campi. È come se la forza che spacca in due il calice fosse il bisogno di quel rosso di rendersi visibile, di essere osservato.

I primi suoni che ricordo sono la sirena della fabbrica e il rumore del fiume. La sirena suonava di rado ed è per questo, probabilmente, che la ricordo: la suonavano solo in caso di incidente. Ogni volta era seguita da grida e passi precipitosi. Il rumore del fiume lo ricordo perché non si arrestava mai. Era più assordante in primavera, più attutito in agosto, ma non taceva mai. D'estate, con le finestre aperte, lo si poteva sentire fin dentro casa; d'inverno, una volta che papà ebbe montato le doppie finestre, all'interno non lo si sentiva, ma bastava uscire a fare i propri bisogni o a prendere un po' di legna per la stufa ed eccolo di nuovo lì. Quando andavo a scuola, il rumore del fiume mi accompagnava lungo tutta la strada.

A scuola ci avevano insegnato a disegnare una mappa della valle, con il fiume colorato d'azzurro. Azzurro, il fiume, non lo è mai stato. Certe volte il Giffre aveva il colore della crusca, altre volte era grigio come una talpa, a volte era lattiginoso, e di tanto in tanto, ma capitava molto di rado, di rado come la sirena per gli incidenti, era trasparente, e riuscivi a vedere ogni pietra sul fondo.

Qui non sento altro che il rumore del vento che fa sbattere la tela sopra le nostre teste.

Una volta la mamma mi ha detto di sorvegliare la cuginetta Claire. Ci ha lasciate sole in giardino. Io mi sono messa a cercare lumache e, seguendo il sentiero che porta al fiume dietro gli altiforni, mi sono scordata di lei. Al ritorno, la mamma l'ha trovata tutta sola nella culla sotto il pruno.

- Poteva arrivare un'aquila - ha urlato - e strapparle i poveri occhietti!

Mi ha ordinato di raccogliere delle ortiche, e non mi ha tolto gli occhi di dosso finché non ho finito di farlo. Ricordo che cercavo di proteggermi le dita tirando giù le maniche del pullover per coprirmi le mani. Il mazzo di ortiche che avevo raccolto era lì sulla panchina accanto al rubinetto dell'acqua in cortile, in attesa che mio padre tornasse.

- Devi dare una lezione a Odile - gli ha detto la mamma al suo arrivo, e gli ha teso uno straccio per tenere le ortiche. Mi ha alzato il grembiule. Sotto non portavo niente.

Papà è rimasto lì fermo, immobile come un palo. Poi ha preso le ortiche, le ha messe sotto il rubinetto e ha aperto l'acqua.

- Cosi non farà tanto male - ha detto. - Lasciala a me.

La mamma è entrata in casa e papà ha percosso l'aria con le ortiche schizzandomi d'acqua le natiche. Non una sola ortica mi ha colpita. Ha fatto ben attenzione.

Pensavo che avrei avuto paura e invece niente. Ho sempre saputo che di mio figlio mi potevo fidare. Christian non ha mai fatto le sciocchezze che fanno gli altri e non mi ha mai dato motivo di preoccuparmi. Ha preso tutto da suo padre. Non dimenticherò mai, per quanto a lungo viva, la prima volta che si è fatto crescere i baffi. Somigliava talmente a suo padre che non sono riuscita a trattenere le lacrime. Forse la cosa più folle che Christian abbia mai fatto, almeno tra quelle che so, è portarmi quassù. - Sei sicura di essere pronta, mamma? - Si, bambino mio - gli ho risposto. E lui ha storto la faccia come se stesse provando dolore. Forse stava ridendo.

Siamo a tremila metri da terra - lui, forse per vantarsi, ha detto che poteva salire fino a cinquemila - e tra noi e quel che vediamo là sotto non c'è che l'aria, eppure non ho paura! Da quando ci siamo staccati dal suolo, il vento è stato con noi. Il vento ci sostiene e io mi sento al sicuro, mi sento... mi sento come una parola detta in un soffio.

Quand'ero piccola, c'era un indovinello che mi piaceva molto: «Quattro puntano al cielo, quattro camminano nella rugiada e quattro sono piene di cibo; in dodici fanno una cosa sola... che cos'è?»

- Una mucca - rispondeva Régis, il maggiore dei miei fratelli, tirando un gran sospiro per far capire che quell'indovinello l'aveva già sentito centinaia di volte.

- Perché una mucca, Odile? - chiedeva il povero Émile, il minore dei miei fratelli. La gente si sarebbe presa gioco di lui per tutta la vita. La sua indolenza non era tanto una colpa quanto una malattia. Ogni volta ero contenta che Émile non riuscisse a ricordare l'indovinello; cosi avevo una scusa per rispiegarglielo.

- La mucca ha due corna e due orecchie che guardano in su, quattro zampe per camminare e quattro mammelle!

- Sei mammelle! - gridava Régis.

- Quattro con il latte!

[...]

In vita mia ho provato nostalgia di casa due sole volte e tutte e due le volte è stato a Cluses. La prima è stata la peggiore, perché a quei tempi non sapevo ancora che cosa vuol dire soffrire davvero. La nostalgia ha a che fare con la vita, non con la morte. A Cluses, la prima volta, questa differenza non la conoscevo ancora.

La scuola era un edificio di cinque piani. Non ero abituata alle scale. Mi mancava l'odore delle mucche, papà che toglieva la cenere dal camino, la mamma che svuotava il pitale, ogni membro della famiglia intento a fare qualcosa di diverso e tutti che sapevano sempre dove fossero gli altri, Émile che giocherellava con la radio e io che gli davo sulla voce, mi mancava l'armadio con i miei vestiti mescolati a quelli della mamma, e la capra che picchiava con le corna contro la porta.

Da che mi ricordo, tutti hanno sempre saputo chi ero. Mi chiamavano Odile oppure «la figlia di Blanc» o «la piccola di Achille». Se qualcuno non mi conosceva, bastava una semplice risposta a una semplice domanda per collocarmi. «Ah sì! Allora devi essere la sorella di Régis!» A Cluses ero una sconosciuta per chiunque. Il mio nome era Blanc, che cominciava con la B, e dunque ero quasi in cima all'elenco alfabetico. Ero sempre tra le prime dieci a rispondere all'appello, o a mettersi in fila per uscire.

È stato lì a scuola che ho imparato a guardare alle parole come a qualcosa di scritto sulla lavagna. Quando un uomo impreca, le parole gli escono dal corpo come merda. Da bambini parlavamo così tutto il tempo, salvo quando costruivamo dei trabocchetti con le parole. «Adamo, Eva e Pizzicami andarono al fiume a fare il bagno, Adamo ed Eva annegarono, chi pensi si sia salvato?» A Cluses ho scoperto che le parole appartengono alla scrittura. Le usavamo, eppure non erano mai interamente nostre.

Una sera dopo l'ultima lezione sono tornata in classe a prendere un libro che avevo scordato. L'insegnante di francese era seduta al suo tavolo, la testa sepolta tra le mani, e piangeva. Non ho osato avvicinarmi a lei. Sulla lavagna alle sue spalle, lo ricordo così bene, c'era la coniugazione del verbo fuir.

Se nel 1952 qualcuno mi avesse chiesto: «Qual è il luogo che ti fa pensare di più agli uomini?» Non avrei detto la fabbrica, non avrei detto il caffè di fronte alla chiesa nei giorni di funerale, non avrei detto la fiera del bestiame in autunno, avrei detto: «il margine di un bosco!» Prendete tutti i margini di tutte le foreste e di tutti i boschetti della valle e metteteli uno accanto all'altro come un paravento, e vi troverete davanti una fila di uomini. Alcuni con la pistola, altri con i cani, altri ancora con le motoseghe, qualcuno con la ragazza. Sentivo le loro voci dalla strada lì sotto. Li guardavo, il corpo snello dei più giovani, le camicie a scacchi portate fuori dai pantaloni, gli scarponi, il modo in cui indossavano i calzoni, il rigonfiamento appena sotto la fibbia della cintura. Non facevo caso alle loro facce, non mi importava di dare loro un nome. Se uno di loro si accorgeva di me, scappavo via. Non volevo parlare con loro e neppure avvicinarli. Mi contentavo di guardarli e, guardandoli, capivo come era fatto il mondo.

- Porta questa pagnotta a Régis - ha detto la mamma. - Quando il gelo è così intenso, il freddo ti penetra nelle ossa e con questo clima gli uomini hanno bisogno di mangiare.

Mi ha dato la pagnotta e io mi sono diretta alla fabbrica, correndo più veloce che potevo; c'era ghiaccio dappertutto e dovevo stare attenta a dove mettevo i piedi. Era tutto gelato: gli scambi dei binari, le serrature, i telai delle finestre, le rotaie; la parete del dirupo alle spalle della fabbrica era tappezzata di ghiaccioli, solo il fiume si muoveva ancora. All'ingresso mi sono rivolta alla prima persona che ho incontrato, un uomo che aveva gli occhi iniettati di sangue e parlava con forte accento spagnolo.

- Régis! Un vero uomo d'onore! - ha gridato, alzando il pollice. Sono rimasta lì sulla porta ad aspettare per vari minuti, battendo i piedi per terra per tenerli caldi. Quando Régis è arrivato era con Michel. Erano della stessa classe: 1951. Avevano fatto insieme il servizio militare.

- Conosci Michel? - ha chiesto Régis.

Sì, conoscevo Michel. Michel Labourier, nipote della Marmotta.

- Per amor di Dio vieni dentro e scaldati - ha sibilato tra i denti Régis mentre gli porgevo la pagnotta.

- Papà...

- Se sei con me non è la stessa cosa. Dammi la mano. Gesù! Sei gelata! Abbiamo appena fatto la colata.

Dai grandi forni e dalle imponenti gru sopraelevate che si muovevano in alto sui binari, mi hanno portata in un'officina molto più piccola.

- Vai a scuola a Cluses? - mi ha chiesto Michel.

Ho fatto di sì con la testa.

- Ti piace?

- Mi manca la mia casa.

- Almeno lì imparerai qualcosa.

- È un altro mondo - ho detto.

- Sciocchezze! È lo stesso maledetto mondo. La sola differenza è che i ragazzi che vanno a studiare a Cluses non restano poveri e stupidi.

- Non siamo stupidi - ho detto.

Mi ha fissata attentamente. - Tieni - mi ha detto, - prendi questo, ti terrà caldo il cervello -. Mi ha dato il suo berretto di lana, rosso e nero. Ho protestato e lui me lo ha spinto fin sugli occhi, ridendo.

- È un comunista - ha detto più tardi Régis.

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