Copertina
Autore Laurence Bergreen
Titolo Oltre i confini del mondo
SottotitoloLa storia di Ferdinando Magellano e della prima, straordinaria circumnavigazione della Terra
EdizioneGarzanti, Milano, 2004, Collezione storica , pag. 496, cop.ril.sov., dim. 145x220x40 mm , Isbn 978-88-11-74015-5
OriginaleOver the Edge of the World [2003]
TraduttoreStefania Cherchi
LettoreCorrado Leonardo, 2005
Classe biografie , viaggi , mare , storia moderna , geografia , paesi: Portogallo , paesi: Spagna
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Indice

Personaggi principali              11
Nota sulla datazione               13
Unità di misura                    15

Prologo. Apparizione spettrale     17

LIBRO PRIMO
La corsa all'impero
1. La ricerca 23 2. L'uomo senza patria 59 3. L'Isola Che Non C'è 89 4. «La chiesa del senza legge» 113
LIBRO SECONDO
Ai confini del mondo
5. Il crogiolo del potere 151 6. Naufraghi 179 7. La coda del drago 195 8. In corsa contro la morte 227 9. Un impero svanito 245 10. La battaglia finale 281
LIBRO TERZO
Di ritorno dalla morte
11. La nave degli ammutinati 315 12. I sopravvissuti 339 13. Et in Arcadia ego 369 14. La nave fantasma 397 15. Dopo Magellano 425 Note sulle fonti 447 Bibliografia 463 Ringraziamenti 475 Indice analitico 477  

 

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Pagina 17

Prologo
Apparizione spettrale



Oh sogno di gioia! è forse invero
Il faro alto sulla punta quel ch'io vedo?
È questa la collina? Quella la chiesa?
È questa la mia vera patria?


Il 6 settembre 1522 all'orizzonte del porto di Sanlúcar de Barrameda, in Spagna, apparve la sagoma di un vascello in rovina.

Man mano che la nave si avvicinava, la gente accorsa sulla banchina poté vedere brandelli di vele sbattuti dal vento penzolare dall'alberatura, sartiame marcio, colori sbiaditi dal sole e fiancate corrose dalle burrasche. Dal porto si staccò subito una pilotina che condusse lo strano vascello oltre il frangiflutti e fino al pontile. Fu così che i marinai addetti al rimorchio si trovarono faccia a faccia con l'incubo di ogni uomo di mare: dal parapetto di quel relitto si affacciavano i corpi scheletriti di diciotto marinai e tre prigionieri drammaticamente denutriti, molti dei quali senza nemmeno la forza di muovere un passo o di aprire la bocca per parlare, con la lingua gonfia e il corpo coperto di dolorose vesciche. Il capitano era morto, e così pure gli ufficiali di bordo, i nostromi e i piloti: l'equipaggio era praticamente decimato.

La pilotina trainò delicatamente il vascello fantasma oltre gli ostacoli naturali che chiudono l'ingresso al porto e la nave, la Victoria, scivolò lentamente lungo le dolci anse del Guadalquivir fino a Siviglia, la città da cui era partita tre anni prima. Da allora nessuno ne aveva saputo più nulla: proprio per questo la sua apparizione aveva così colpito quanti scrutavano l'orizzonte nell'attesa di veder comparire un qualche veliero. La Victoria era una nave del mistero: nelle teste ridotte a teschi che si affacciavano dalla balaustrata erano custoditi i mille oscuri segreti accumulati nel corso di un lunghissimo viaggio per terre e mari sconosciuti. Nonostante le avversità del viaggio, la Victoria e il suo sparuto equipaggio erano riusciti in un'impresa mai compiuta prima: viaggiando sempre verso ovest fino a raggiungere l'Est, e poi proseguendo nella stessa direzione, essi avevano realizzato un sogno vecchio come l'immaginazione umana: la prima circumnavigazione della Terra.


Tre anni prima la Victoria faceva parte di una flotta di cinque navi con un equipaggio di circa 260 marinai al comando di Fernao de Magalhaes, che noi conosciamo come Ferdinando Magellano. Portoghese, nobiluomo e navigatore, Magellano aveva lasciato per sempre la sua patria per mettersi al servizio della Spagna, che gli aveva affidato l'incarico di esplorare parti del mondo ancora sconosciute e rivendicarne il possesso per la corona spagnola. Della spedizione affidata al suo comando, una delle più grandi e meglio equipaggiate di tutta l'Età delle grandi scoperte geografiche, rimaneva solo il relitto della Victoria col suo piccolo equipaggio sfinito: una nave fantasma carica degli spettri di più di 200 marinai che avevano fatto una fine orribile, morendo chi di scorbuto, chi di tortura, qualcuno, pochissimi, annegato in mare. Ma la cosa più grave di tutte è che il Capitano generale della spedizione, Magellano, era stato brutalmente assassinato. A dispetto del suo nome beneaugurante, quindi, la Victoria non era affatto una nave trionfale: anzi, era un vascello carico di desolazione e d'angoscia.

Eppure, quale storia avevano da raccontare quei pochi sopravvissuti! Una storia di ammutinamenti e di orge su spiagge lontane, la storia dell'esplorazione del mondo intero, una vicenda che avrebbe cambiato il corso della storia e il nostro modo di vedere il mondo. Nell'Età delle grandi scoperte molte spedizioni finirono nel disastro e furono dimenticate in fretta: ma quella che stiamo per narrarvi, nonostante gli incidenti a non finire che le capitarono, sarebbe stata ricordata come il più importante viaggio via mare mai realizzato dall'uomo.

La circumnavigazione della Terra cambiò per sempre la concezione occidentale della cosmologia - cioè lo studio dell'universo e del posto che noi vi occupiamo - e della geografia; provando fra l'altro in maniera inequivocabile che la Terra è rotonda, che le Americhe non fanno parte dell'India, ma sono un continente a sé stante, e che gli oceani coprono la maggior parte della superficie terrestre. Quel viaggio servì a dimostrare definitivamente che, dopotutto, la Terra è un solo e unico mondo: ma anche che è attraversata da mille conflitti, e che gli uomini vi soffrono continuamente sia per cause naturali che per la loro stessa aggressività. Il costo di tutte queste scoperte, in quanto a perdita di vite umane e sofferenze patite, fu infinitamente maggiore di quanto si potesse immaginare all'inizio della spedizione. Quegli uomini erano sopravvissuti a un viaggio oltre i confini del mondo, ma soprattutto a una lunga peregrinazione nei più bui recessi dell'animo umano.

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Pagina 23

1.
La ricerca



Egli si regge con la mano ossuta, e
«C'era una volta una nave», dice.
«Stammi alla larga! Giù di dosso, vecchio babbeo!»
Subito la mano egli lascia cadere.


Il 7 giugno 1494 papa Alessandro VI divise il mondo in due, concedendone la parte occidentale alla Spagna e quella orientale al Portogallo.

Le cose sarebbero andate sicuramente in modo diverso se il pontefice non fosse stato uno spagnolo - Rodrigo de Borja, nato poco lontano da Valencia. Fatto sta che lo era. Ex studente di giurisprudenza, Rodrigo aveva assunto il nome di Borgia quando uno zio materno, Alfonso Borgia, aveva brevemente occupato il soglio pontificio col nome di Callisto III. Da questi pochi dettagli biografici si può già dedurre che Alessandro VI fu un papa piuttosto secolare: uno degli uomini più ricchi e ambiziosi d'Europa, grande appassionato di donne, con molti figli illegittimi e sufficienti energie e abilità per indulgere alle sue molte passioni mondane.

Questo papa aveva quindi deciso di gettare il peso della sua autorità dalla parte di Ferdinando e Isabella, i «monarchi cattolicissimi» di Spagna, che nel 1492 avevano istituito la Santa Inquisizione per purgare il loro paese dalla presenza ebraica e moresca. A loro volta i due sovrani esercitavano una considerevole influenza sul papato, e avevano ragione di ritenere che Roma non potesse non prestare benevolmente orecchio alle loro richieste: ciò che Ferdinando e Isabella desideravano era che la benedizione papale andasse a sancire e proteggere le scoperte fatte da Cristoforo Colombo, il grande navigatore genovese che a nome della corona spagnola aveva preso possesso di un nuovo mondo. Ma anche il Portogallo, principale rivale della Spagna nel controllo del commercio mondiale, poteva avanzare pretese sulle terre appena scoperte: e così pure Francia e Inghilterra.

Ferdinando e Isabella supplicarono quindi il pontefice di avallare il loro titolo di proprietà sul Nuovo Mondo, e Alessandro VI rispose emanando alcune bolle pontificie - cioè editti solenni - che stabilivano una linea di demarcazione fra i territori spagnoli e quelli portoghesi tutt'attorno al mondo: questa linea si estendeva dal Polo Nord al Polo Sud, e passava un centinaio di leghe (poco più di trecento miglia) a ovest di un oscuro arcipelago denominato Isole di Capo Verde, ubicate nell'Oceano Atlantico al largo delle coste nordafricane. Antonio e Bartolomeo da Noli, navigatori genovesi che solcavano i mari per il Portogallo, le avevano scoperte nel 1460, e da allora le isole erano diventate l'avamposto commerciale della tratta degli schiavi.

Le bolle papali garantivano dunque l'esclusivo diritto della Spagna sulla parte di globo terraqueo che si estendeva a ovest della linea; ai portoghesi, ovviamente, sarebbe appartenuta la parte a est della linea. Ma se uno qualunque dei due contendenti avesse scoperto nella sua zona un paese retto da un governatore cristiano, in quel territorio il titolo di proprietà avrebbe dovuto considerarsi nullo. Lungi dal risolvere le controversie fra Spagna e Portogallo, questa disposizione scatenò una gara furibonda a chi scopriva più terre aggiudicandosi il controllo delle vie commerciali, mentre i due paesi rivali cercavano con ogni mezzo di spostare la linea di demarcazione a proprio favore. La disputa sull'ubicazione della linea andava avanti da un pezzo quando i diplomatici dei due paesi si riunirono nella piccola città di Tordesillas, nella Spagna nordoccidentale, per studiare una formula di compromesso.

A Tordesillas, spagnoli e portoghesi riconobbero la necessità di attenersi all'idea di spartizione del mondo sancita dall'editto papale, che sembrava tutelare gli interessi di entrambe le parti. Ma i portoghesi ebbero la meglio sugli spagnoli e ottennero di spostare la linea più a ovest di 270 leghe; la nuova linea di separazione passava quindi 370 leghe a ovest delle Isole di Capo Verde, approssimativamente a 46°30' di longitudine Ovest secondo il sistema geografico moderno. Tale cambiamento situava il confine tra i due imperi nel bel mezzo dell'Atlantico, grosso modo a metà strada fra le Isole di Capo Verde e l'isola caraibica di Hispaniola. Il nuovo confine dava ai portoghesi ampio accesso via mare al continente africano, e soprattutto permetteva loro di aggiudicarsi il Brasile da poco scoperto. Ma il dibattito sulla linea di spartizione - e sulle conseguenti pretese - si trascinò ancora per anni. Nel 1503 Alessandro VI morì e il suo successore, Giulio II, nel 1506 benedisse i cambiamenti decisi a Tordesillas. Il trattato aveva assunto la sua forma definitiva.

Risultato di un numero infinito di compromessi, il trattato di Tordesillas creava però più problemi di quanti ne risolvesse. Dato che i cosmologi non erano ancora in grado di determinare con esattezza la longitudine - e non avrebbero potuto farlo ancora per duecento anni circa - risultò del tutto impossibile fissare l'esatta ubicazione della linea. Altre complicazioni derivavano dal fatto che il trattato non specificava se la linea di demarcazione dovesse considerarsi tracciata tutt'attorno al globo, o se più semplicemente tagliasse in due soltanto l'emisfero occidentale. All'epoca, infine, non si aveva un'idea molto precisa dell'ubicazione di oceani e continenti. Ammesso e non concesso che la terra fosse rotonda, cosa che gli uomini di scienza e di studio davano ormai per assodata, le mappe del 1494 ritraevano un pianeta alquanto diverso da quello che conosciamo oggi. Mischiando geografia e mitologia, la cartografia del tempo includeva continenti del tutto immaginari mentre ignorava l'esistenza di altri realmente esistenti: il risultato finale era l'immagine di un mondo che non è mai esistito. Prima di Copernico era convinzione generalmente condivisa che la Terra si trovasse esattamente al centro dell'universo, con una serie di pianeti perfettamente sferici - sole compreso che le giravano attorno lungo orbite perfettamente circolari e fisse; dobbiamo immaginare la Terra annidata nel centro geometrico di tutte le circonferenze tracciate dai pianeti.

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Pagina 28

Fin dai tempi più remoti le spezie hanno giocato un ruolo economico di fondamentale importanza nella storia della civiltà. Un po' come oggi accade per il petrolio, per lungo tempo fu il fabbisogno europeo di spezie a governare l'economia e a influenzare la politica mondiale; ancora in analogia con il petrolio, le spezie si intrecciarono inestricabilmente con il tema dell'esplorazione, della conquista e dell'imperialismo. Ma in più le spezie avevano un fascino e un'aura particolarissimi; la semplice menzione del loro nome - pepe bianco e nero, mirra, incenso, noce moscata, cannella, cassia, macis e chiodi di garofano, per ricordarne solo alcune - era sufficiente a evocare le meraviglie d'Oriente, il misterioso Est del mondo.

Erano stati i mercanti arabi i primi a trasportare le spezie via terra fino in Europa attraverso tutta l'Asia, e per secoli ne avevano fatto lievitare artificialmente i prezzi nascondendone accuratamente l'origine. Per mantenere il monopolio pressoché assoluto sul commercio delle spezie, infatti, questi mercanti sostenevano che la loro preziosa mercanzia proveniva dall'Africa, mentre in realtà le spezie crescono in varie zone dell'India, della Cina e nel Sudest asiatico. E gli europei ci avevano creduto, che le spezie fossero originarie dell'Africa, mentre laggiù si limitavano a cambiare di mano. Per proteggere il loro lucroso monopolio, inoltre, i mercanti arabi si erano inventati mostri e leggende a non finire attorno al prosaico processo di coltivazione e raccolta delle spezie, che facevano sembrare il procacciarsele un'impresa difficilissima e rischiosa.

Col tempo, il commercio delle spezie aveva assunto un ruolo centrale nell' ethos arabo: anche Maometto, il profeta dell'islam, veniva da una ricca famiglia di mercanti di spezie, e per molti anni si era dedicato a vendere e comprare mirra e incenso alla Mecca. Gli arabi avevano sviluppato sofisticate metodologie per estrarre dalle spezie gli oli essenziali che utilizzavano per scopi medici e più in generale terapeutici, e creato ricette per confezionare elisir e sciroppi fra i quali il famoso julab, da cui la parola «giulebbe». Durante il medioevo la loro conoscenza in materia di spezie si era diffusa in tutta l'Europa occidentale, dove i farmacisti avevano creato un fiorente commercio di composti a base di chiodi di garofano, pepe, noce moscata e macis. In un'Europa affamata d'oro (i cui giacimenti, ancora una volta, si trovavano principalmente in territori controllati dagli arabi), le spezie divennero più preziose che mai: la merce più ambita in assoluto, e una componente di primo piano nella dinamica economica europea.

Ma nonostante il peso schiacciante che le spezie avevano ormai assunto nella loro economia, gli europei per procurarsele dipendevano ancora disperatamente dai mercanti arabi, dato che il loro clima rendeva impossibile coltivarle in proprio: nel XVI secolo, infatti, la penisola iberica era di gran lunga troppo fredda - molto più fredda di adesso, ancora nella morsa della Piccola Glaciazione - e troppo poco piovosa per produrre cannella, chiodi di garofano e pepe. Si narra che un sovrano indonesiano, parlando con un commerciante che sognava di trasferire in Europa la coltivazione delle spezie, lo avesse dissuaso dal farlo con le seguenti parole: «Potete forse portare laggiù le nostre sementi, ma non certo le nostre piogge».

La tradizione voleva che spezie, damaschi, diamanti, oppiacei, perle e altri beni provenienti dall'Asia arrivassero in Europa percorrendo itinerari lenti, complicati e costosi per terra e per mare, attraverso la Cina, l'Oceano Indiano, il Medio Oriente e il Golfo Persico. I mercanti europei, solitamente, riuscivano a metterci sopra le mani solo in Italia o nel Sud della Francia, da dove le imbarcavano per la destinazione finale. Strada facendo, le spezie potevano cambiare di mano anche dodici volte, finché il loro prezzo non arrivava alle stelle: esse erano il non plus ultra dei prodotti agricoli destinati al mercato.

Nel 1453, con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi e la conseguente interruzione delle vecchie, solide vie commerciali fra Asia ed Europa, il traffico mondiale delle spezie subì un tracollo. Fu allora che si cominciò a ragionare sulla prospettiva di aprire una nuova via delle spezie, una via d'acqua, capace di sfruttare l'oceano come via di comunicazione: questa innovazione avrebbe spalancato nuove possibilità di sviluppo economico alla nazione europea che si fosse dimostrata in grado di dominare il mare. Per chi poteva permettersi di affrontarne i rischi, il guadagno promesso dal commercio marittimo delle spezie, combinandosi con la prospettiva di controllare l'economia mondiale, costituiva un'attrazione irresistibile.

L'esca delle spezie convinse anche i finanzieri più sobri e prudenti a finanziare l'allestimento di spedizioni ad alto rischio finalizzate all'esplorazione di zone del mondo ancora sconosciute, e indusse una legione di giovani uomini a giocarsi la vita nell'impresa. La migliore, forse l'unica ragione che poteva spingere un giovane spagnolo a prendere il mare era la prospettiva di arricchirsi nelle Isole delle Spezie, dovunque esse fossero. Un marinaio disposto a dedicare vari anni della sua vita al viaggio di andata e ritorno, e capace di mettersi in tasca in maniera più o meno lecita un sacchetto di chiodi di garofano o di noci moscate, con il ricavato della vendita poteva comprarsi una casetta e vivere senza lavorare per il resto dei suoi giorni. E se questo sogno era alla portata di qualsiasi marinaio semplice, l'Età delle grandi scoperte prometteva ben di più a un capitano di lungo corso: non solo fama e ricchezza, ma anche titoli ereditari e terre lontane su cui regnare.

Fu il Portogallo la prima nazione europea a cercare di sfruttare il mare per il commercio delle spezie e per la costruzione di un impero globale. L'avventura ebbe inizio nel 1419, quando l'Infante del Portogallo, il principe Enrico, terzogenito di Joao I e di sua moglie Filippa, inglese, stabilì la sua corte a Sagres, un desolato affioramento roccioso nel lembo più meridionale del paese. Passato alla storia col nome di Enrico il Navigatore, l'Infante non prese quasi mai il mare, ma seppe ispirare ad altri il desiderio di conquistarlo. Le navi portoghesi dovevano affrontare ostacoli così enormi, e così ingigantiti dall'ignoranza e dalla superstizione, che solo marinai straordinariamente esperti e sicuri di sé osavano avventurarsi nel Mare Oceano, come allora veniva chiamato l'Oceano Atlantico.

In gioventù, da soldato, l'Infante aveva combattuto gli arabi, ed era sua ferma intenzione spazzarli via non solo dalla penisola iberica, ma anche dall'Africa settentrionale. Al tempo stesso, però, egli aveva imparato molte cose dai suoi nemici: ne aveva studiato le vie commerciali, la scienza, l'arte di disegnare carte geografiche e soprattutto le tecniche di navigazione. Quando l'Infante Enrico si stabilì a Sagres, gli europei sapevano ben poco dell'oceano al di sotto del ventisettesimo parallelo, ossia di Capo Bojador, nell'Africa occidentale. Si riteneva che, al di là di quel punto, le acque pullulassero di mostri marini, che vi si scatenassero tempeste talmente devastanti da rendere impossibile la navigazione, e che nebbie fittissime ingoiassero per sempre le navi che osavano spingersi così lontano. A tanti orribili perigli l'Infante Enrico contrapponeva una massima semplice e spavalda: «È impossibile pensare un pericolo così grande, che la speranza di guadagno non ne sia più grande ancora».

Per raggiungere il suo obiettivo, Enrico convocò alla scuola navale di Sagres navigatori, mastri carpentieri, astronomi, piloti, cosmografi e cartografi sia cristiani che ebrei, cui chiese di collaborare fra loro all'impresa di esplorare il mondo sotto la sua direzione. A Sagres fu quindi progettata una nave di nuova concezione: la piccola, manovrabile caravella, la cui vela triangolare, detta «latina», era copiata dai vascelli arabi. Fino a quel momento i velieri europei, ad esempio le galere, potevano muoversi utilizzando o vele fisse, o schiere di rematori: con il loro pescaggio poco profondo e le vele mobili, le caravelle di Enrico potevano sia seguire il vento che bordeggiare, cioè cambiare continuamente rotta in modo tale da prendere il vento prima in una direzione e poi in un'altra, zigzagando verso un punto intermedio. Con l'introduzione delle vele mobili e la loro impressionante tenuta del mare, le caravelle erano i velieri d'elezione per l'esplorazione del mondo.

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Pagina 34

Fra i supplicanti più cocciuti che bussarono alle porte del palazzo reale c'era un nobiluomo di basso rango, ma che aveva servito a lungo la causa dell'impero portoghese in Africa: Fernao de Magalhaes, ovvero Ferdinando Magellano. Le fonti più attendibili ci informano che era nato nel 1480 a Sabrosa, un remoto villaggio di montagna, dove la sua famiglia possedeva delle terre, e che aveva trascorso la fanciullezza nel Portogallo nordoccidentale, davanti ai rumorosi frangenti dell'Atlantico. Suo padre, Rodrigo de Magalhaes, faceva risalire il suo lignaggio a un crociato francese dell'XI secolo, un certo De Magalhais, distintosi in battaglia quanto basta per ottenere un feudo dal duca di Borgogna. Quanto a lui, Rodrigo aveva raggiunto uno dei gradi inferiori della nobiltà portoghese e prestava servizio come ufficiale al porto di Aveiro.

Sulla madre di Ferdinando, Alda de Mesquita, le nostre informazioni sono ancora più scarse, il che lascia spazio a intriganti speculazioni. Il cognome «Mesquita», che significa «moschea», era piuttosto diffuso fra i conversos portoghesi, che lo sceglievano nel tentativo di camuffare le loro origini ebraiche: è quindi possibile che Alda fosse ebrea, nel qual caso lo sarebbe anche Ferdinando, secondo la legge ebraica. Ciononostante la famiglia Magellano si considerava cristiana, e Ferdinando non ebbe mai il minimo dubbio sulla fede cattolica.

Anche queste poche informazioni sulla famiglia Magellano, comunque, sono vaghe e incerte. Nel 1567, quando i suoi discendenti cominciarono ad accapigliarsi sulla tenuta di famiglia, sorsero parecchie questioni sul posto occupato dal grande esploratore nell'albero genealogico dei Magalhaes. La confusione era in parte dovuta alle stranezze insite nel sistema genealogico portoghese - fino a tutto il XVIII secolo, ad esempio, i figli maschi prendevano quasi sempre il cognome del padre, mentre le femmine erano libere di scegliere: potevano assumere quello del padre, quello della madre, o addirittura un nome di santo per cognome, mentre svariate ragioni potevano indurre i genitori a dare ai figli il cognome di un nonno, quello della madre o altri cognomi presenti in famiglia. Per esempio uno dei fratelli di Ferdinando, Diogo, di cognome faceva Sousa come la nonna paterna. Questo genere di irregolarità rende a tutt'oggi difficile determinare quale ramo dei Magalhaes possa a buon diritto ritenersi discendente dal celebre esploratore.

All'età di dodici anni Ferdinando Magellano e suo fratello Diogo si trasferirono a Lisbona ed entrarono a corte come paggi; Ferdinando potè così beneficiare della formazione culturale più avanzata che la nazione potesse offrire, e studiare un ventaglio di materie che andavano dalla religione alla scrittura, alla matematica, alla musica, alla danza, all'equitazione e alle arti marziali, oltre ad algebra, geometria, astronomia e navigazione, introdotte dall'Infante Enrico il Navigatore. Grazie alla sua posizione a corte Ferdinando sentiva narrare l'epopea delle scoperte portoghesi e spagnole nelle Indie, veniva a conoscenza dei segreti dell'esplorazione del Mare Oceano, seguiva l'allestimento delle flotte in partenza per l'India e acquisiva dimestichezza coi problemi di approvvigionamento, attrezzatura e armamento di una nave.

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Pagina 40

Per tre volte Magellano impetrò il beneplacito del re per allestire una spedizione verso le Indie e scoprire una via di mare per le Isole delle Spezie, di cui tanto si favoleggiava e così poco si sapeva. E per tre volte Manuel, cui Magellano non aveva mai ispirato né fiducia né simpatia, rispose di no.

Nel settembre del 1517 Magellano fece un ultimo, maldestro tentativo di ingraziarsi la corona domandando se non avrebbe potuto offrire altrove i suoi servigi: e con sua grande meraviglia si sentì rispondere che facesse pure come meglio gli pareva. A questo punto, come previsto dall'etichetta, Magellano si inginocchiò per baciare le mani del sovrano: scontroso come non mai, re Manuel le nascose sotto il mantello e gli voltò le spalle.

Quest'ultimo, umiliante affronto fu la fortuna di Ferdinando Magellano.

Respinto per l'ennesima volta dal re, egli sembrò finalmente reagire e trovare la sua strada: e da quel momento in poi si mosse con rapidità e decisione, spinto dal vento della sua ambizione e dalla marea della storia. Il 20 ottobre 1517 si trasferì a Siviglia, capoluogo dell'Andalusia, nella Spagna sudoccidentale: Ruy Faleiro e suo fratello Francisco l'avrebbero raggiunto in dicembre per costituire un affiatato, inseparabile terzetto di esuli decisi a fare fortuna in quel paese chiassoso e pieno di fresche energie. Pochi giorni dopo il suo arrivo Magellano firmava i documenti necessari a diventare cittadino della Castiglia e fedele suddito del suo giovane re, Carlo I. Il suo nome non era più Fernao de Magalhaes: in Spagna egli divenne Hernando de Magallanes.

Questa decisione di emigrare in Spagna non era senza precedenti. Anche l'eroe della sua infanzia, Cristoforo Colombo, aveva lasciato la natia Genova per il paese iberico, dove sperava di trovare appoggio per una spedizione che, come la sua, si riprometteva di scoprire una nuova via d'acqua per le Indie; anche lui, dopo lunghi anni di rinvii e di frustrazioni, aveva ottenuto ciò che voleva, e proprio dai nonni di Carlo I, Ferdinando e Isabella. Ora, Magellano era convinto di poter riuscire laddove il navigatore genovese, senza saperlo, aveva fallito: raggiungere le favolose Indie navigando sempre verso occidente, attraverso l'oceano.

Purtroppo la tensione tra Spagna e Portogallo era cresciuta al punto che una qualsiasi spedizione su quelle rotte rischiava di produrre un incidente internazionale. Com'è noto i portoghesi, seguendo l'esempio degli arabi, avvolgevano il loro impero nel più impenetrabile segreto: il 13 novembre 1504 il re aveva emanato un editto secondo il quale chiunque avesse diffuso notizie riguardanti le scoperte geografiche o i piani per l'esplorazione marittima del Portogallo sarebbe stato punito con la morte. Fra il 1500 e il 1550 all'interno dei confini nazionali non aveva visto la luce nemmeno un libro sulle scoperte portoghesi. Per la maggior parte del XVI secolo ai privati cittadini fu proibito possedere materiali riguardanti il commercio con le Indie e altri temi correlati. Carte e mappe, considerate documenti della massima riservatezza, venivano protette come segreti di stato. Se Magellano avesse ottenuto di partire per conto della madrepatria, probabilmente non avremmo saputo nulla del suo viaggio attorno al mondo.

Per fortuna la Spagna aveva un approccio completamente diverso alla costruzione dell'impero. Gli spagnoli erano appassionati compilatori di cronache e resoconti, maniacalmente precisi nel registrare e documentare ogni minimo avvenimento pubblico - leggi, genealogie, finanze: e con lo stesso scrupolo misero per iscritto e tramandarono ai posteri tutto ciò che riguardava il viaggio di Magellano. Diversamente dai portoghesi o dagli arabi, gli spagnoli amavano proclamare ad alta voce il successo delle loro imprese, anche per sostenere con adeguata documentazione le pretese avanzate dalla corona su varie parti del mondo. L'Età delle grandi scoperte, inoltre, coincise con l'invenzione della stampa a caratteri mobili, che permise di diffondere in tutta Europa libri e libelli sui più svariati argomenti, i quali andarono ad aggiungersi alle prestigiose edizioni manoscritte eseguite per le librerie della nobiltà. Questa singolare coincidenza di tempi contribuì a diffondere ovunque la notizia della scoperta del Nuovo Mondo, ridisegnando non solo le carte geografiche della Terra, ma anche le idee che il popolo si era fatto del mondo.

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Pagina 82

Giuntagli notizia della spedizione di Magellano per le Isole delle Spezie, Pigafetta aveva sentito la voce del destino: e congedatosi in tutta fretta dai circoli diplomatici si era messo alla ricerca del famoso navigatore. Nel maggio del 1519 era giunto a Siviglia, proprio mentre fervevano gli ultimi preparativi. Nei mesi seguenti aveva collaborato a raccogliere gli strumenti di navigazione di cui la flotta aveva bisogno, cercando al contempo di conquistare la fiducia di Magellano. Pur venendo da un altro paese, Pigafetta concepì presto un amore quasi idolatrico per il Capitano generale e una sconfinata ammirazione per i suoi ambiziosi progetti, oltre a un sacro terrore dei pericoli che la spedizione comportava. Ma non per questo si arrese. Pur non avendo alcuna esperienza di mare, Pigafetta si fece raccomandare dalle sue ingenti sostanze personali e dalle sue impeccabili credenziali pontificie. Siccome Magellano non poteva offrirgli altro che un misero salario di 1000 maravedí, Pigafetta si unì all'equipaggio come sobrasaliente, o sovrannumerario - come semplice passeggero insomma. Quattro mensilità di quella misera paga gli furono versate in anticipo.

Magellano, che non lasciava mai nulla al caso, affidò all'italiano un compito molto particolare: Pigafetta avrebbe dovuto redigere una cronaca del viaggio che andasse al di là del mero libro di bordo, in genere piuttosto stringato ed eminentemente tecnico: la sua doveva essere una narrazione personale, libera e ricca di aneddoti, secondo la tradizione di altri popolarissimi resoconti di viaggio che circolavano all'epoca. Suoi modelli sarebbero stati il libro del cognato di Magellano, Duarte Barbosa, quello di Ludovico di Varthema, un altro italiano, che aveva visitato le Indie, e soprattutto l'opera di Marco Polo, il più famoso e celebrato di tutti i viaggiatori rinascimentali. Senza nascondere la sua ambizione di ritagliarsi un posto fra questi grandi nomi, Pigafetta accettò l'incarico. La sua lealtà era però tutta per Magellano, e non si estendeva certo a Cartagena o agli altri ufficiali. Per lui l'Armata delle Molucche era il frutto tangibile del coraggio e della determinazione di un solo uomo; e se avesse avuto successo - cosa di cui Pigafetta non dubitava - ciò si sarebbe dovuto esclusivamente all'abilità dell'ammiraglio e alla volontà di Dio.

Non appena l'Armata levò le ancore, Pigafetta cominciò a registrare gli avvenimenti in un diario che gradualmente cessò di essere un semplice resoconto della vita di mare per diventare una vera narrazione, di sconvolgente plasticismo e di straordinaria sincerità: il documento più valido e rivelatore sulla sconcertante vicenda del viaggio di Magellano. L'italiano prese molto sul serio l'incarico di cronista ufficiale, e il suo diario è fitto di dettagli botanici, linguistici e antropologici. Ma la sua qualità principale non è tanto l'accuratezza con cui ogni cosa vi è descritta: la testimonianza di Pigafetta è sempre umana e compassionevole, la sua è una voce diversa da qualsiasi altra, colta e ingenua a un tempo, devotamente religiosa ma capace di descrivere con schiettezza anche la volgarità e la depravazione. Nel piccolo drappello dei cronisti dell'epoca, indipendentemente dalla loro nazionalità, solo Pigafetta è capace di accenti di sincera autocritica e di momenti di vero umorismo; solo lui sa ritrarre con mano sicura le gioie, le paure e i momenti ambivalenti della vita degli uomini di mare. La sua prosa sembra anticipare di qualche secolo la sensibilità narrativa moderna, imperniata sul dubitare di sé e sul meccanismo del disvelamento. Se Magellano era l'eroe dell'impresa, il suo Don Chisciotte, il cavaliere senza macchia e senza paura che si getta in un'impresa folle e vana eppure magnifica, in Pigafetta possiamo riconoscere l'antieroe, Sancho Panza, incrollabilmente fedele al suo signore ma pronto a cogliere gli avvenimenti con occhio critico e spirito mordace. La sua sete di esperienze vissute lo spinse a partecipare al viaggio di Magellano come uno qualunque dei suoi marinai, ma senza mai perdere d'occhio lo straordinario navigatore che aveva deciso di violare i limiti dell'umana conoscenza, saggiare fino in fondo la lealtà dei suoi uomini e mettere alla prova la sua stessa testarda natura.

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Ma lo stile autocratico di Magellano non riguradava solamente le questioni di fede. Al fine di prevenire qualsiasi dissenso, scrive Pigafetta, Magellano aveva tenuto celato l'obiettivo ultimo della spedizione ai marinai: «Avendo deliberato il capitano generale di fare così longa navigazione per lo mare Oceano, dove sempre sono impetuosi venti e fortune grandi, e non volendo manifestare a niuno de li suoi el viaggio che voleva fare, acciò non fosse smarrito in pensare de fare tanto grande e stupenda cosa, como fece con l'aiuto di Dio». Questa asserzione merita un chiarimento. In quanto portoghese, Magellano aveva l'abitudine di avvolgere di mistero tutto ciò che aveva a che fare con i viaggi di scoperta: così usava in Portogallo. Eppure lo sapevano tutti che la flotta era diretta alle Isole delle Spezie: non per niente si chiamava Armata delle Molucche. Forse Pigafetta intende dire che Magellano non aveva comunicato ad altri la sua intenzione di cercare uno stretto - la via d'acqua che gli avrebbe permesso di arrivare a est viaggiando sempre verso ovest - e preferiva tenere per sé questo particolare fino a quando sarebbe stato troppo tardi per disertare. Questo modo di agire era però gravido di pericoli: quando la flotta si fosse imbattuta nelle terribili burrasche oceaniche, e avesse dovuto tirare dritto per inoltrarsi in acque ancor più sconosciute e mettersi alla ricerca di uno stretto di cui si ignorava perfino se esistesse veramente, quegli stessi uomini che l'ammiraglio aveva convinto a imbarcarsi con l'inganno si sarebbero molto probabilmente ribellati.

Nelle pagine del suo diario Pigafetta ci confida anche un'altra, preoccupante ragione che aveva spinto Magellano a fare tanto il misterioso: «li capitani sui che menava in sua compagnia, lo odiavano molto non so perché, se non perché era Portughese ed essi Spagnoli».

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Era un sogno vecchio quanto l'immaginazione umana, quello di viaggiare fino ai confini del mondo: ma fino all'Età delle grandi scoperte era rimasto solo un sogno. L'Europa era ancora profondamente ignorante su come fosse fatto il mondo. Magellano dava inizio al suo ambizioso progetto di viaggio in un tempo ancora governato dalla superstizione, che credeva all'esistenza di creature strane e demoniache ed era pervaso da un profondo anelito alla redenzione religiosa. Per le persone qualsiasi il mondo al di là dei confini europei somigliava ai fantastici reami delle Mille e una notte, il libro in cui compare il racconto I sette viaggi di Sindbad il Marinaio. Quella di prendere il mare era la scelta più avventurosa che un uomo potesse fare, l'equivalente rinascimentale delle missioni spaziali: ma le probabilità che tutto finisse nel disastro e nella morte erano decisamente sufficienti a scoraggiare i più. Ai giorni nostri la Terra non ha più angoli misteriosi; nell'era del sistema di navigazione satellitare è diventato impossibile perdersi. Ma nell'Età delle grandi scoperte più di metà del globo era ancora inesplorato, non cartografato e in buona misura non compreso. I marinai avevano ancora paura di cadere giù dai bordi del mondo; credevano che nelle oscure profondità marine albergassero mostri terribili pronti a divorarli; e temevano che, una volta passato l'equatore, le acque dell'oceano si sarebbero messe a bollire, lessandoli a morte.

Alcune delle idee più tenaci su com'è fatto il mondo venivano da Plinio il Vecchio, morto nell'eruzione del Vesuvio del 79 a.C. La sua Naturalis Historia, una sorta di enciclopedia in più volumi, riscoperta e ampiamente consultata durante il rinascimento, mirava a sistematizzare tutto ciò che si sapeva del mondo e delle cose in esso contenute: montagne, continenti, flora e fauna. Per sua stessa ammissione, Plinio aveva ricavato molte delle sue informazioni da Eratostene, il grande matematico e astronomo greco che aveva calcolato per approssimazione la circonferenza del pianeta in 29.000 miglia, con un errore per eccesso di sole 4000 miglia.

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Altrettanto poco si sapeva sul conto delle terre emerse. Gli europei dell'epoca sapevano dell'esistenza di tre dei cinque continenti - Europa, Asia e Africa - anche se molti ritenevano che ce ne potessero essere altri ancora da scoprire. Sia prima che dopo il viaggio di Magellano si continuò a credere all'esistenza di una terra del tutto immaginaria, la famosa Terra Australis, che con la sua massa enorme ubicata nell'emisfero meridionale doveva controbilanciare il peso di tutti i continenti dell'emisfero settentrionale. Le carte geografiche medievali, necessariamente molto schematiche, mostravano le tre masse continentali conosciute separate fra loro da due grandi fiumi, il Nilo e il Don, e da una superficie di mare, il Mediterraneo; tutt'attorno si estendeva il grande Mare Oceano, al cui interno scorrevano altri fiumi ed erano racchiusi altri mari. Questa rappresentazione grafica somiglia a una grande T inscritta in una O, ed è per questo che gli studiosi di oggi si riferiscono ai planisferi di questa fase della cartografia col termine di carte «T in O». Per non allontanarsi dalla lettera delle Sacre Scritture, le carte «T in O» collocavano Gerusalemme nel centro esatto del mondo, con il Paradiso che le fluttuava vagamente sopra. A complicare ulteriormente le cose l'Asia copriva tutto l'emisfero Nord, mentre Europa e Africa condividevano l'emisfero Sud. In altri esemplari di cartografia medievale vediamo il Mare Oceano fluttuare attorno alla Terra, nello spazio. Navigare servendosi di quelle carte era dunque assolutamente impossibile, come anche ubicarvi col compasso un punto qualsiasi o utilizzarle per tracciare una rotta: esse erano dei modelli concettuali, non delle rappresentazioni realistiche. Per Magellano, quindi, del tutto inutili.

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Questo gruppo di sette isole vulcaniche (Gran Canaria, Fuerteventura, Lanzarote, Tenerife, La Palma, Gomera, Ferro) era da secoli una tappa obbligata per le navi in viaggio da e per la penisola iberica. Già note ai tempi di Plinio, erano probabilmente il luogo che gli storici classici avevano in mente quando scrivevano delle Isole Fortunate. Più tardi una lunga teoria di viaggiatori arabi ed europei, spinti dai forti venti a favore, le visitarono per rimpinguare le scorte, cercare di convertire gli isolani o fare incetta di schiavi: le Canarie compaiono sulle carte geografiche verso il 1341. Alla fine di settembre, quando ci arrivò Magellano, esse brillano luminose fra le onde dell'Atlantico.

Sbarcato a terra, Pigafetta trovò conferma di una vecchia leggenda relativa proprio alle Canarie: «Saperà Vostra illustrissima signoria che in quelle isole de la Gran Canaria c'è una in tra le altre, ne la quale non si trova pur una goccia de acqua che nasca, se non [che] nel mezodí [si vede] discendere una nebola dal cielo e circonda uno grande arbore che è nella detta isola, stillando dalle sue foglie e rami molta acqua; e al piede del detto arbore è addrizzata in guisa de fontana una fossa, ove casca l'acqua, de la quale li uomini abitanti e animali, così domestici come salvatici, ogni giorno de questa acqua e non de altra abbondantissimamente se saturano». Questa osservazione, che a prima vista può sembrare assurda e poco originale, è per Pigafetta la prima vera occasione di mettere a confronto la sua esperienza vissuta con le affermazioni degli scrittori antichi: in questo caso Plinio, che aveva parlato di una magica fonte delle Canarie che scorre senza essere alimentata da niente. Pigafetta invece non ci trova niente di magico, e riesce a darsi una spiegazione del tutto naturale di quell'improvvisa abbondanza idrica individuandone l'origine nella presenza di una nube carica di pioggia. Pur non essendo certo un'intuizione rivoluzionaria, questo commento fa di Pigafetta un cronista alquanto diverso dai vecchi saggi del calibro di Plinio o di Marco Polo, che si basavano esclusivamente sul sentito dire o su una sapiente mescolanza di dicerie e fatti constatati di persona. Se mai si era ripromesso di emulare Marco Polo, fu in quel preciso momento che Pigafetta rinunciò definitivamente all'intento: invece di abbellire ulteriormente antiquate leggende, in futuro l'italiano avrebbe descritto ogni fenomeno esattamente come i suoi occhi l'avevano osservato, verificando le parole degli antichi col metro dell'osservazione diretta e delle esperienze di prima mano. Con questo approccio concreto e fattuale Pigafetta rompe i ponti con una tradizione le cui radici affondano nella notte dei tempi.

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Per i suoi effetti personali ogni marinaio aveva a disposizione una cassa: oltre ai vestiti ci teneva qualche semplice piatto di legno (che poteva trasformarsi in un'arma da lancio durante le frequenti risse), qualche posata e un bricco per la razione giornaliera di vino. Spesso i marinai avevano con sé anche un mazzo di carte da gioco - il passatempo più in voga a bordo delle navi - e qualche libro.

L'uso dei libri era severamente controllato dall'Inquisizione, quindi i marinai dovevano sottoporre al visto di censura ogni volume che intendevano portare a bordo. Alcune testimonianze ci permettono di gettare uno sguardo sulle abitudini di lettura degli uomini di mare dell'epoca di Magellano: per lo più i marinai leggevano testi di argomento religioso - vite di santi, profili di papi, raccolte di miracoli e di preghiere. Altrettanto comuni (e probabilmente letti con maggior interesse) erano i racconti popolari di imprese coraggiose e cavalleresche, pieni di damigelle e di cavalieri e di personaggi malvagi che alla fine ricevevano il giusto castigo. Il numero delle storie che riuscivano a conquistarsi una nicchia a bordo delle navi di lungo corso era dunque piuttosto esiguo, ma alcuni fra i marinai più colti e letterati avevano scelto il più famoso e celebrato racconto di un'impresa simile alla loro: Il Milione di Marco Polo.

L'equipaggio di Magellano era composto prevalentemente da castigliani e portoghesi, ma fra i suoi ranghi c'erano anche rappresentanti di quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale, del Nordafrica, della Grecia, di Rodi e della Sicilia. Tanta varietà metteva necessariamente a contatto fra loro nemici inconciliabili come bretoni e baschi, o fiamminghi e francesi, che oltretutto parlavano lingue reciprocamente incomprensibili.

La lingua comune utilizzata sulle navi di Magellano era il castigliano nautico, che ha un termine specialistico per indicare ogni cima, bugna o attrezzo che è possibile trovare a bordo di una nave. In quell'idioma Magellano e i suoi capitani impartivano gli ordini all'equipaggio: «Izá el trinquete», gridavano, e quelli issavano la vela di trinchetto; «Tirá de los escotines gabia», e l'equipaggio alava le vele di gabbia, «Dad vuelta»,e cominciavano le manovre per invertire la rotta. E così via, in una lunga litania di ordini che coprivano tutte le manovre che si possano richiedere a un marinaio; «Dejad las chafaldetas», mollate le cime; «Alzá aquel brio», alzate quel broglio; «Levá el papahigo», issate il pappafico; «Pon la mesana», mettete la mezzana. Il grido «Suban dos á los penoles!» mandava due marinai ad arrampicarsi fino all'estremità del pennone, cercando di non guardare in giù verso il ponte oscillante sotto di loro, sempre più in alto, verso il cielo. Infine il comando «Juegue el guimbalete para que la bomba achique» significava che c'era bisogno di braccia per il pesantissimo lavoro alla pompa meccanica, che risucchiava l'acqua dalla stiva e la risputava in mare. L'acqua di sentina che stagnava sempre attorno alla pompa era la più sporca di tutta la nave, e il suo odore rivoltante faceva venire i conati di vomito ai marinai addetti a quel compito. Nonostante gli inconvenienti, però, il lavoro alle pompe era assolutamente necessario, altrimenti le navi avrebbero imbarcato acqua fino ad affondare. Ma i turni alle pompe erano tali da esaurire le energie di intere squadre di robusti marinai: anzi, abbastanza spesso qualcuno degli uomini aveva un collasso e moriva proprio mentre lavorava alle pompe per salvare la nave.

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Nonostante l'euforia per la scoperta dello stretto, però, Magellano aveva ancora davanti ostacoli della massima serietà. Influenzato dalle carte che aveva visto in Portogallo, infatti, l'ammiraglio si era fatto un'idea completamente sbagliata della sua natura, e lo immaginava come un vero e proprio canale tagliato diritto nella vasta distesa di terra che si ergeva fra le sue navi e la rotta delle Indie: mentre quella in cui l'Armata si stava addentrando era una fitta rete di estuari di marea serpeggianti in modo caotico fra gli ultimi picchi della Cordigliera delle Ande. Invece di prendere una semplice scorciatoia per il Pacifico, Magellano si era infilato in un labirinto mai cartografato che avrebbe messo a dura prova la sua abilità di ammiraglio.

Quelle vie d'acqua sono piuttosto ampie - mai meno di seicento piedi da una riva all'altra, per un'ampiezza di parecchie miglia - ma anche traditrici. Lo stretto è composto da una rete di fiordi, testimonianza geologica degli antichi confini di quei ghiacciai che ancora stringono nella loro morsa le zone tutt'attorno. Queste spaccature raggiungono una profondità di 1500 piedi sotto il livello del mare, e su entrambe le sponde sono dominate da falesie granitiche incappucciate di neve che svettano a centinaia di piedi sul livello del mare e nascondono alla vista trenta miglia di ghiacciai. Ad altitudini meno estreme il ghiaccio si scioglie formando sottili, luccicanti cascatelle d'acqua che precipitano dalla superficie granitica delle montagne fino a tuffarsi nelle gelide acque del mare. Se uno degli uomini di Magellano fosse caduto fuoribordo, la temperatura delle onde gli avrebbe lasciato al massimo dieci minuti di vita.

Qua e là, su spiaggette di ciottoli grigi, si vedono oziare placide famiglie di elefanti marini, riconoscibili dal corpo lungo dieci piedi circa, dalle due pinne attaccate vicino alla testa allungata e dalla grossa coda stabilizzatrice con cui schiaffeggiano pigramente la sabbia. Sulla terraferma gli elefanti marini si muovono poco e a fatica: per questo si sdraiano a riposare vicinissimi all'acqua, dove occupano il tempo a stiracchiarsi e sbadigliare. La fauna indigena dello stretto comprende poi volpi artiche e pinguini, che affollano le spiagge in gruppi compatti che se ne stanno in disparte, per conto loro. Giganteschi condor bianchi e neri, con un'apertura alare che può raggiungere i dieci piedi, volteggiano nel cielo lungo le creste dei monti muovendosi in cerchio, portati da correnti ascensionali d'aria calda dette «termiche». Nella stagione degli accoppiamenti i condor fanno il nido in una nicchia della roccia alta sull'acqua, e sorvegliano attentamente la loro nidiata: a riposo sembrano molto più simili agli avvoltoi di quanto non siano in realtà.

Nonostante la neve che per otto mesi all'anno ricopre l'intera regione, l'abbondanza d'acqua alimenta una vegetazione lussureggiante. La linea costiera è ricoperta da una densa foresta con dozzine di varietà di felci, alberi stenti e piegati dal vento, muschi setosi e uno strato di tundra spugnosa. Coloratissimi cespugli carichi di bacche piccole e dure, amare fuori e dolci all'interno, hanno i frutti delicati avvolti uno per uno da cuscinetti d'aria che li proteggono dal contatto con la neve (l'equipaggio dell'Armata doveva però fare attenzione a non mangiarne troppe: pur non essendo tossiche, quelle bacche hanno un potente effetto lassativo). Ci sono addirittura piccole orchidee che fioriscono nel fango. Poca luce riesce a filtrare attraverso il fitto intreccio del fogliame fino alla fertile ombra silenziosa del sottobosco: «La vegetazione era così fitta che dovevamo continuamente ricorrere al compasso», scriverà nel 1834 il giovane Charles Darwin a bordo della Beagle. «Nei profondi burroni, una livida scena di desolazione che va al di là della nostra capacità di descrizione: anche quando fuori infuria l'uragano, in quegli abissi nemmeno un soffio di vento agita le foglie degli alberi più alti. Ogni punto di quei luoghi è così cupo, freddo e umido che nemmeno i funghi, i muschi o le felci riescono a crescervi.» Quando finalmente riesce ad aprirsi un varco attraverso quella foresta incantata e a raggiungere la cima di un monte, Darwin descrive la scena che anche i marinai di Magellano avevano sotto gli occhi: «Irregolari catene di colli chiazzati qua e là di neve, profonde vallate di un verde giallastro, bracci di mare che intersecano la terra in tutte le direzioni. Il forte vento era freddo da trapassare le ossa, e l'atmosfera piuttosto nebbiosa, cosicché non rimanemmo a lungo sulla cima di quella montagna».

La fitta vegetazione dello stretto dona all'aria una fragranza e una vivacità da far girare la testa. Le folate di vento sono cariche di un aroma umido e muschioso, alleggerito dal profumo dei fiori selvatici, rinfrescato dalla presenza dei ghiacciai e insaporito dal gusto salato del mare. Come ogni cosa in quella remota regione, l'aria stessa sembra carica di mistero e di promesse. Lo stretto fa pensare a un gigantesco monastero naturale in cui anche i marinai dell'Armata avrebbero potuto trovare la quiete, a un luogo dove contemplare in silenzio i paradossi della natura: e il tutto in una scala tale da suscitare la più profonda umiltà. Un luogo di magnificenza, solitudine e austerità.

Dopo Porto San Julián Magellano non aveva più scorto segni di presenza indigena: ma gli uomini non abbassavano la guardia, sia come misura di protezione e salvaguardia della loro sicurezza personale, sia nella speranza di poter ottenere col baratto ancora un po' di cibo. Il Capitano generale mandò una scialuppa con dieci uomini a setacciare la zona per controllare se era davvero disabitata, ma la squadra trovò soltanto una struttura primitiva con duecento antiche sepolture: probabilmente una tribù della Terra del Fuoco aveva utilizzato quel posto durante la bella stagione per seppellirvi i morti, e poi si era dileguata nell'entroterra profumato. Gli studiosi ritengono che quegli indigeni siano migrati dall'Asia in America migliaia di anni prima di Magellano: successivamente devono essere stati sconfitti in ogni nuovo scontro per il territorio, e costretti a traslocare sempre più a sud fino all'estremo limite del continente, in territori che nessun altro voleva abitare.

Benché delusi, col tenersi alla larga dagli indigeni gli uomini di Magellano non si perdevano proprio niente. Trecento anni dopo, Charles Darwin si imbatterà in una canoa piena di membri di una tribù locale che nel corso dei secoli non si era evoluta affatto. Anzi, osservandoli Darwin avrà l'impressione di gettare uno sguardo attraverso millenni di storia umana, fino agli albori della civiltà. Il grande naturalista inglese li giudica «le creature più miserevoli e abiette che abbia mai incontrato [...]. Gli abitanti della Terra del Fuoco che vidi in quella canoa erano seminudi, e perlomeno una donna adulta lo era del tutto. Pioveva a dirotto, e la fredda pioggia scivolava sul suo corpo insieme agli spruzzi del mare. In un porto poco distante una donna che stava allattando un neonato si avvicinò un giorno alla nave, e rimase a guardarci mentre il nevischio le cadeva addosso e si scioglieva sul suo seno nudo e sulla pelle del bambino, nudo anch'egli. Quei poveri disgraziati si sviluppano poco e male, hanno orride facce imbrattate di pittura bianca, la pelle sudicia e unta, i capelli aggrovigliati, le voci dissonanti, i gesti violenti e privi di dignità. Osservando quegli esseri umani si stenta a credere che siano creature simili a noi, e abitanti dello stesso pianeta». A riprova del disgusto che provava per gli indigeni della Terra del Fuoco, Darwin osserva che «essi non sono esenti da fame e carestie, e di conseguenza dal cannibalismo e dal parricidio». Quei poveretti, in conclusione, andavano giudicati «i miserabili signori di una terra miserabile».

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Pagina 227

8.
In corsa contro la morte



La brezza favorevole soffiava, la bianca schiuma volava,
La scia seguiva libera la nave;
Eravamo i primi che avessero mai solcato
Il mare silenzioso.


Le dimensioni dell'Oceano Pacifico andavano ben oltre la capacità di Magellano di raffigurarsi l'ignoto: esso abbraccia da solo un terzo della superficie terrestre; la sua estensione è due volte quella dell'Oceano Atlantico, e contiene più di due volte il suo volume d'acqua; si estende su una superficie più ampia di quella di tutte le terre emerse messe insieme, oltre 63 milioni di miglia quadrate. Disperse in questa immensità ci sono venticinquemila isole, e sotto la superficie dell'acqua si cela il punto più basso della terra, la Fossa delle Marianne, un'oscurità color inchiostro che giace a trentaseimila piedi di profondità. Il fondale marino - la crosta oceanica del Pacifico - è relativamente giovane, meno di 200 milioni di anni, e si è formato grazie allo scivolamento delle placche tettoniche. Aspetto e caratteristiche del Pacifico erano rimasti immutati per decine di milioni di anni prima che Magellano e i suoi uomini ne solcassero la superficie, ma essi non sapevano ancora nulla di queste meraviglie geologiche: per loro, quella distesa di mare era altrettanto sconosciuta del lato buio della luna.

Ancor oggi il Pacifico è un'entità misteriosa e affascinante per scienziati e oceanografi, che fino a poco tempo fa ne sapevano di più della superficie di Marte o di Venere che non dei suoi abissi. La moderna comunità scientifica non ha raggiunto l'accordo nemmeno sull'origine degli oceani: un'ipotesi sostiene che nel primo miliardo di anni dopo la formazione della Terra moltissime comete - blocchi di ghiaccio spaziale - siano precipitate sulla sua superficie per poi sciogliersi dando origine agli oceani. Secondo un'altra teoria i mattoni primordiali di cui è composto il nostro pianeta - materiale asteroidale proveniente dalla nebulosa solare e polvere spaziale - a un certo punto cominciarono ad aggregarsi e a scaldarsi, e mentre quelli più pesanti sprofondavano verso il centro, quelli più leggeri rimanevano vicini alla superficie: quando infine si formò la crosta terrestre, fra i materiali di superficie potrebbe esserci stata anche l'acqua che andò a formare gli oceani. Più si addentravano nelle acque del Pacifico, più Magellano e i suoi uomini si rendevano conto di una cosa che oggi sanno tutti, ma che a loro dava il panico: gli oceani coprono il 70 per cento della superficie terrestre. Il nome del nostro pianeta è frutto di un errore di calcolo: dovrebbe chiamarsi Oceano, non Terra.

Magellano aveva previsto una breve traversata fino alle Isole delle Spezie seguita da una tappa conclusiva più lunga, ma sostanzialmente scevra di pericoli, attraverso acque conosciute. Inoltre contava sul fatto che gli uomini avevano imparato moltissime cose dalle difficoltà già affrontate e superate, e che gli ammutinamenti avevano alleggerito la flotta dei codardi e di quelli che non sapevano collaborare. L'equipaggio, che alla partenza contava 260 uomini e ragazzi suddivisi in cinque navi, si era ridotto a meno di 200 marinai e a tre navi: la Trinidad, che rimaneva l'ammiraglia della flotta, la Concepción, capitanata da Juan Serrano, e la Victoria, al comando di Duarte Barbosa. Eppure a quel punto del viaggio l'ammiraglio ancora non aveva capito appieno la sfida che aveva davanti: a partire da quel momento il suo principale problema non sarebbero più stati gli scogli affioranti o le condizioni meteorologiche, ma le distanze.

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