Copertina
Autore Luigi Berliocchi
Titolo Il fiore degli dei
SottotitoloL'orchidea dal mito alla storia
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2006 [1996], Grande Fiabesca , pag. 200, ill., cop.fle., dim. 190x260x20 mm , Isbn 978-88-7226-317-4
PrefazioneIppolito Pizzetti
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe natura , botanica , storia sociale
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Indice

    Presentazione 9
    di Ippolito Pizzetti

    Dalla giungla alla finestra 13


 1  Miti e leggende 17


 2  Dalla preistoria alla storia 31

    La preistoria 31
    L'Oriente 32
    L'Occidente antico 36
    La storia moderna 41

 3  Mecenati e cacciatori 59


 4  Arte e costume 89

    Letteratura 89
    Arte 96
    Magia 99
    Religione 107
    Medicina 109
    Prodotti commestibili delle orchidee 111

 5  La pianta 121

    Struttura e comportamento della pianta 124
    I generi 138
    Le orchidee europee 163

 6  Coltivazione 169

    Substrato di coltura 171
    Contenitori 172
    Luce 176
    Temperatura 177
    Umidità 178

    Indice delle illustrazioni 183

    Bibliografia 189

    Indice dei nomi e dei sinonimi delle orchidee 193

 

 

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Pagina 13

Dalla giungla alla finestra


Sono due secoli ormai che le orchidee esotiche vivono in mezzo a noi. Oggi siamo arrivati a spiegarne il comportamento e gli altri aspetti che rimanevano oscuri, centinaia di libri sono stati scritti per illustrarle, pure questa conoscenza non ha affatto sminuito, anzi ha mantenuto e finanche aumentato il forte interesse che hanno sempre suscitato in chiunque sia entrato in contatto con loro.

Qual è dunque il segreto di queste piante che occupano un posto così eccellente ed esclusivo all'interno del mondo vegetale? Perché nel corso del tempo hanno sempre trasmesso emozioni intense, tanto da essere ammirate, amate, esteticamente venerate, oppure odiate fino alla morte?

Forse fu per via di quel nome del quale la decenza ha sempre impedito di spiegare l'etimologia, o per la loro provenienza da luoghi lontani, oppure per aver scelto di crescere a volte sulla corteccia degli alberi, o per le forme e i colori dei fiori che rimandano ad una infinità di immagini reali e fantastiche, o per quell'aspetto così magnifico e perfetto, come fossero state confezionate da mani invisibili e poste poi per divina ironia sui rami più alti delle foreste tropicali.

La loro storia scritta prese forma nella seconda metà del Settecento, quando presero a comparire sulle pagine di erbari che appassionati ricercatori, sui velieri o nei lontani avamposti delle colonie, avevano iniziato a redigere e disegnare, mossi da fervida curiosità analitica per la scienza. Quindi i primi esemplari di piante vive arrivarono in Occidente suscitando enorme emozione: gli orti botanici accolsero le prime orchidee e in seguito entrò in campo l'aristocrazia che edificò grandi serre capaci di ospitare collezioni favolose. Era l'unica classe che potesse permettersele: il prezzo delle piante era alto, valeva il costo di una vita rischiata per andare a stanarle nei più remoti angoli della giungla tropicale. Nacque allora la letteratura dei cacciatori di orchidee, uomini che si avventuravano per il mondo al fine di scoprire nuove piante da catturare e far conoscere in patria. Oggi è difficile comprendere l'emozione che in loro doveva suscitare una nuova specie individuata nel folto della vegetazione, magari dopo aver vagato per settimane in territori ancora inesplorati. Forse costoro rispondevano come quelli che venivano raggiunti dai colpi d'amore nelle poesie di Saffo, quando l'emozione fa avvampare, le lacrime irradiano il volto, la gola si serra e nel petto il cuore impazzisce. Alcuni furono baciati dalla fama che contribuì in parte ad incentivare quella scelta, altri non ebbero neanche tale consolazione e pagarono la loro passione con stenti e sacrifici e infine con l'unica cosa che rimaneva in quei luoghi, la vita. Chissà cosa provò Warscewicz quando scorse a mille metri – lungo la Cordigliera dell'Ecuador, sul versante del massiccio del Chimborazo – un fiore di Oncidium kramerianum e chissà dov'è l'angolo della foresta amazzonica dove il giovane Reiss naufragò nell'intento di andare a ritrarre alcune piante di Huntleya violacea che crescevano su un isolotto al centro del fiume.

Furono questi gli uomini che instillarono nell'Occidente i bacilli di quella febbre maniacale, intensa e ossessiva che prese il nome di orchideomania. Il suo apogeo si ebbe verso la metà dell'Ottocento e si protrasse fino al volgere del secolo, ma col passare del tempo i sentimenti verso queste piante mutarono. Dapprima esprimevano un'immagine lussureggiante e di mistero scaturita come per miracolo naturale dall'intrico delle foreste tropicali, evocavano l'eco di belve feroci, il desiderio di esotismo; in seguito quelle visioni si tinsero di colori diversi. Mano a mano che ci si avvicinava allo scoccare del secolo esse si trasformarono nel simbolo vivente del lusso e della voluttà, del preziosismo e dell'esclusività, della sensualità prorompente che sfida e turba. Poi tutto si ampliò, arrivarono i grandi vivai bene organizzati, la domanda crebbe, anche i borghesi benestanti richiesero le proprie orchidee; il numero infine si moltiplicò per effetto della coltivazione e della comprensione del processo di riproduzione. Molto tempo era trascorso da quando nel 1833 il duca del Devonshire, in Inghilterra, impazzito di colpo alla vista di una pianta in fiore di Oncidium papilio, diede impulso all'orchideomania spendendo cifre da capogiro pur di ottenere nuove specie del fiore che lo aveva conquistato. Ormai si era più vicini a quel giorno del 1913 quando le suffragette, che non nutrivano grandi simpatie per le orchidee, si misero a lanciare sassi contro i vetri delle serre di Kew distruggendo una cinquantina di specie rare. Eravamo al culmine della reazione antivittoriana: l'artificialità e l'esuberante splendore di quei fiori evocavano aspetti sociali che si volevano bandire.

Poco dopo, la prima guerra mondiale, ecatombe di vite umane, di sogni e di desiderio di bellezza, seppellì anche l'orchideomania. Ma le orchidee sopravvissero alla guerra, anzi si affermarono in modo costante presso tutti gli strati della popolazione. Divennero sempre più interclassiste, tanto che oggi gli orchidofili sono una massa di individui che, riuniti in associazioni o in ordine sparso, si contano a milioni.

Ma l'insieme di queste vicissitudini cosa ha portato alle orchidee? Il loro habitat è ormai seriamente compromesso e cresce il numero delle specie che non si trovano più in natura, ma solo nelle collezioni dei privati. Le località dove prosperavano e dove si realizzavano i delicatissimi equilibri che ne permettono la vita sono state alterate dal disboscamento di ampi tratti delle foreste per insediamenti umani e per l'agricoltura intensiva. Ancor prima, verso la fine del secolo scorso, si aggiravano raccoglitori di piante che distruggevano intere colonie per tenere alto il prezzo dei pochi esemplari presenti sul mercato. L'ingresso nella civiltà è costato anche a loro assai caro.

Ai nostri giorni incontriamo le orchidee nelle serre protette dagli imprevedibili umori del tempo, accudite in ambienti con temperature e umidità ottimali: sono gabbie dorate. A prendersene cura un nugolo di maniaci che trascorrono ore e ore a coltivarle, ibridarle, riprodurle, ammirarle. Eppure, a dispetto del loro trascorrere l'esistenza in cattività, si ha l'impressione che le orchidee non si siano mai veramente addomesticate come le altre piante, ma siano rimaste parte di un mondo selvatico e indipendente, un universo che noi possiamo osservare soltanto dalla soglia.

La loro storia recente è solo la punta di un iceberg: sotto, nascosta alla vista immediata, si trova la porzione più grande, fatta di secoli e millenni trascorsi lontano dall'occhio dell'uomo.

Avviciniamole dunque, per scoprire da dove vengono, come sono arrivate fino a noi, come vivono, di quali molteplici usi sono state oggetto o di quali curiose dicerie si è nutrita la loro leggenda.

Conoscendole meglio ci sarà forse più facile scoprire, magari molto vicino a noi, qualche piccola orchidea spontanea di cui non eravamo consapevoli; e chissà, alla fine, saremo tentati di coltivarle noi stessi in casa, sorpresi nel constatare che non è poi così difficile.

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Struttura e comportamento della pianta

RADICI

Il fascino delle orchidee inizia dalle radici per il loro impressionante comportamento. A volte esse penetrano nel terreno, altre volte si saldano tenacemente ai tronchi degli alberi, spesso penzolano dai rami o dai canestri pensili delle serre come languidi filamenti abbandonati nel vuoto, oppure, grandi e carnose, proiettano i loro tentacoli attorno alla pianta come fossero fantastiche figure rapaci. La loro funzione è articolata e complessa, capace di svolgere a meraviglia i compiti che la natura gli ha assegnato.


L'apparato radicale rappresenta la base che permette alla pianta di svilupparsi e, in un certo senso, anche di "muoversi". Per adempiere a questa esigenza la maggior parte delle orchidee hanno ideato un sistema chiamato simpodiale, che significa a più piedi, lo stesso che incontriamo nella canna da fiore, nell'anemone e nell'iris.

Esso consiste in un rizoma, ossia un fusto serpeggiante in continua crescita che, quasi fosse un millepiedi vegetale, cammina all'infinito proiettando verso l'esterno le proprie radici che ancorano la pianta saldamente al suolo o alla corteccia degli alberi. Seguendo l'alternarsi delle stagioni, a scadenze periodiche – per esempio annuali – il rizoma si allunga dall'apice o lateralmente, sviluppando fusti carnosi che successivamente si ingrossano per assumere l'aspetto piatto o cilindrico, piccolo, grande o enorme a seconda della specie.

Questo nuovo corpo serve alla pianta esattamente come la gobba ai cammelli, ossia funziona come preziosa riserva di sostanze nutritive e di acqua, utile per far fronte ai lunghi periodi di siccità.

Esso prende propriamente il nome di "pseudobulbo", in quanto pur assomigliando di molto ai bulbi, ha funzione diversa da questi ultimi.

Per maggior sicurezza, alla base degli pseudobulbi la pianta sviluppa anche degli "occhi" che rimangono in fase dormiente a tempo indeterminato, ma se per qualche ragione uno pseudobulbo dovesse venire a mancare, subito quell'occhio si sveglierebbe dal lungo letargo per dar vita ad un nuovo getto in grado di sostituire quello scomparso. Infine all'apice dello pseudobulbo spuntano una o più foglie, seguite quindi dal bottone e dallo stelo floreale.

Le Cattleya, gli Oncidium, gli Odontoglossum, tanto per citare alcune delle più note, sono le specie epifite che hanno assunto questo comportamento, mentre fra le terricole il genere dei Cypripedium ha seguito, fra i tanti, lo stesso esempio.


Tutt'altra scelta di comportamento per crescere e svilupparsi, totalmente diversa dalla precedente, è stata fatta da un gruppo esclusivo di orchidee epifite che non progrediscono in lunghezza, bensì in altezza, dando vita ad un fusto che di fatto è capace di allungarsi all'infinito. Sono orchidee conosciute come monopodiali, in quanto poggiano su un solo piede, non presentano alcun rizoma ma radici sulle quali è saldato direttamente il fusto della pianta. Quest'ultimo può essere breve, con i nuovi germogli che nascono lateralmente come nelle Phalaenopsis, oppure allungarsi di molto e arrivare in certi casi, ad esempio in alcune Vanda e Angraecum, ad altezze considerevoli.

Mano a mano che il fusto procede, dai nodi spuntano le radici avventizie che fissano la pianta alla corteccia dell'albero ospitante, mentre il più delle volte dall'ascella delle foglie che si susseguono lungo il fusto nascono le infiorescenze. Con questo sistema le piante, che a volte all'aspetto sembrano non avere né un inizio né una fine, possono aprirsi una propria via nel fitto delle foreste per raggiungere la luce.

Nelle piante la funzione delle radici è quella di ancorare la pianta al proprio ambiente, assorbire l'acqua e i sali minerali e accumulare sostanze di riserva.

Nelle orchidee terricole le radici non si discostano sostanzialmente da quelle delle altre piante e possono essere filiformi e lunghe oppure ingrossate, talvolta provviste di numerosi peli radicali che svolgono l'azione d'assorbimento.

Viceversa, per le epifite, la situazione è assai diversa e in modo particolare nelle orchidee monopodiali, ossia sprovviste di rizoma. In quest'ultimo caso le radici sono solitamente grosse, carnose, rivestite di una crosta dura e spugnosa – il cosiddetto velamen – elemento protettivo capace di captare e di trattenere l'umidità atmosferica, ma anche di saldare permanentemente la radice alla corteccia dell'albero o ad un altro supporto.

Un elemento interessante delle radici di orchidea è il fatto che possono svolgere l'azione clorofilliana sia all'apice, che infatti si presenta di colore verde, che su tutta la superficie.

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FECONDAZIONE

L'unica ragione che ha indotto la natura a creare il fiore, il motivo del suo stesso esistere, la conformazione dei sepali e petali, il profumo che emanano, gli oscuri disegni tracciati sul labello, tutto è stato ideato in funzione della fecondazione. Per quanto riguarda la famiglia delle orchidee tale compito è svolto nella maggior parte dei casi dagli insetti che muovendosi lungo certi percorsi, effettuando particolari spostamenti, si assumono il ruolo della fecondazione della specie. Ciascun fiore di orchidea è una struttura mirabilmente ideata per attirare e accogliere un determinato insetto che una volta penetrato all'interno è costretto ad asportare i granuli pollinici e metterli a contatto con lo stimma del fiore successivo, fecondando così la specie.

Si tratta di un meccanismo nato dall'evoluzione tra una determinata pianta e il proprio impollinatore: è un rapporto perfetto eppure vulnerabilissimo, poiché la riuscita dipende soltanto dall'insetto specifico, la cui assenza risulterebbe disastrosa per la riproduzione, quindi per la sopravvivenza stessa della specie. Questa è la ragione per cui i fiori rimangono per così lungo tempo sulla pianta.

Il complesso rituale della fecondazione è uno degli argomenti più affascinanti e celebrati dell'orchideologia per l'ingegno e l'infinita varietà di soluzioni trovate.

Le Cattleya, dai grandi fiori soffusi di soffici colori e dal labello frangiato, per essere fecondate si avvalgono di alcune vespe ed api del centro e sud America, loro terra d'origine. In questo caso l'insetto, attirato dal fiore, si posa sul labello, il quale sotto il nuovo peso si abbassa in modo da permettergli di penetrare verso il centro attratto dal dolce profumo e dal desiderio di nettare.

Una volta che l'insetto è arrivato nella gola del fiore, il labello – ormai libero dal peso – si rialza riprendendo la posizione primitiva e intrappolando così l'ospite al proprio interno. Questi prima o poi deve avvertire il desiderio di uscire ma per poterlo fare, dato lo spazio ridotto in cui si trova, è costretto a divincolarsi ed urtare le masse polliniche che immediatamente si attaccheranno sul suo dorso.

Successivamente nel corso del volo incontrerà molto probabilmente un nuovo fiore, dove dovrà ripetere lo stesso processo e in questo modo metterà involontariamente a contatto le masse polliniche precedentemente raccolte con lo stimma, ossia la parte femminile del secondo fiore, al quale presto si attaccheranno, dando vita così alla fecondazione incrociata di quella specie.

Diverso invece il meccanismo escogitato dai Paphiopedilum, dal caratteristico labello proteso in avanti e a forma di sacca. Nel caso specifico l'insetto viene ricevuto all'interno di questo contenitore vegetale, ma una volta entrato trova difficile uscire a causa della sostanza cerosa che ricopre le pareti interne, a meno che non sgusci fuori attraverso un paio di angusti pertugi dove sono ad attenderlo le masse polliniche. Che lo voglia o meno, sarà costretto ad asportarle, portandole attaccate al proprio corpo finché non incontrerà un nuovo fiore e potrà depositarle sul suo stimma.

Fra le tante orchidee che hanno rappresentato un difficile soggetto per i naturalisti del passato a causa della complessa conformazione del fiore, un posto di primo piano è occupato dall' Angraecum sesquipedale.

Questa splendida orchidea nativa del Madagascar, dal fiore grande che rassomiglia ad una candida stella, ha il nettario alla fine di un tubo lungo non meno di 25 centimetri. Darwin sentenziò che solamente un insetto avente un organo succhiatore così lungo avrebbe potuto fecondare quel fiore. Molti erano gli scettici che in questo nuovo fenomeno vedevano vacillare la teoria della riproduzione sessuale delle piante, ma una quarantina d'anni dopo si scoprì in quella zona una falena che presentava appunto una proboscide lunga una trentina di centimetri e che in onore di tale previsione venne chiamata Xanthopan morganii praedicta.

Una tecnica del tutto particolare, che potremmo definire "del lancio", è invece attuata dalle orchidee appartenenti al genere Catasetum dal labello che ricorda una tazza o elmetto rovesciati e la colonna assai simile ad una molla a spirale. In questo caso, come sempre, vi sono degli insetti irresistibilmente attratti dal fiore, anzi dal labello, tanto che appena vi atterrano iniziano subito a rosicchiarlo, ma in questo modo essi azionano delle sensibilissime antenne collegate alla colonna, che subito scatta proiettando sull'ospite le masse polliniche che si attaccheranno al suo corpo peloso per essere trasportate sullo stimma di un nuovo fiore.

Fra i tanti e molteplici espedienti escogitati dalle orchidee per compiere la fecondazione ve ne è uno di straordinario interesse, seppure non ancora del tutto chiarito, che ha per protagonista una tribù di api dell'America centromeridionale chiamate Euglossine.

Esse sono raggruppate in cinque generi diversi, alcuni dei quali annoverano decine di specie, altri una soltanto, alcune specie sono presenti in un vasto areale, altre soltanto in una limitatissima zona, certune presentano grandi dimensioni, altre appaiono piuttosto piccole, ma quasi tutte sono provviste di colori vivaci e vibranti, dal lucido aspetto metallico come il blu, il verde, il marrone e sono velocissime nel volo.

Soltanto i maschi di queste api sono attratti dai fiori di alcune orchidee che non offrono nettare, ma emanano un forte profumo, indispensabile nel folto della foresta tropicale dove la vegetazione intricata annulla la percezione visiva e l'aroma diventa l'unico elemento di richiamo.

La fragranza del fiore che si trova soprattutto nel labello sotto forma di microscopiche particelle liquide, è prodotta e controllata dagli ormoni della pianta che l'aumenta in rapporto alla temperatura e all'ora del giorno, mentre la riduce nel caso di tempo perturbato e di notte – momenti in cui gli insetti impollinatori sono assenti – e l'annulla una volta avvenuta la fecondazione. Le osservazioni effettuate sul campo hanno mostrato che tutte le api Euglossine seguono lo stesso comportamento: avvertono il profumo dell'orchidea attraverso le loro antenne, si posano sul labello del fiore, si dirigono dove più intenso è il profumo, raschiano la superficie con i pettini dei quali sono provvisti gli arti anteriori, eseguono dei movimenti nell'aria, trasferiscono le particelle aromatiche nelle sacche che sono parte delle zampe posteriori e ripetono l'operazione.

Le ragioni del comportamento delle api sono ancora oggi tutt'altro che chiare ed è difficile comprendere il motivo che spinge gli insetti verso i fiori per raccoglierne le particelle fragranti. Esistono solo alcune ipotesi: forse gli insetti hanno bisogno di quelle essenze per trasformarle in elementi necessari al loro organismo, oppure più verosimilmente i maschi delle api trovano in quelle sostanze degli elementi che, elaborati, vengono utilizzati a loro volta quale richiamo per le loro femmine.

Un grande interrogativo è invece ancora di fronte a quel paio di orchidee che percorrono l'intero ciclo della loro esistenza sottoterra. In questo caso non sappiamo se esse vengano fecondate con l'ausilio di organismi presenti nel suolo o provvedano da sole con l'autofecondazione.

Quest'ultimo comportamento, pur se raro, è talvolta utilizzato dalle orchidee come soluzione in extremis, tanto che non sembra interessi più del tre per cento dei casi e pare si verifichi più che mai quando alcuni fiori, vista vana l'attesa dell'insetto, sono costretti a ricorrere a questo espediente.

Per far ciò le masse polliniche si allungano fino ad entrare in contatto con la superficie stimmatica. Si tratta però di casi fuori dal comune, ché il fiore d'orchidea per la sua conformazione non favorisce questo comportamento e la natura stessa preferisce sempre la fecondazione incrociata della specie.

Gli insetti compiono il lavoro che la natura ha loro affidato in modo egregio. Le masse polliniche sono solitamente portate sul dorso, ma a volte anche sul capo o sulla proboscide. I grani di polline poi, in alcuni casi, una volta sul corpo dell'insetto eseguono dei movimenti, ruotando su se stessi e allungandosi per mostrare la parte che più facilmente può aderire allo stimma del fiore successivo.

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