Autore Giuseppe Berto
Titolo Il cielo è rosso
EdizioneLonganesi, Milano, 1965 [1946], I libri pocket 13 , pag. 352, cop.fle., dim. 11,5x18x2 cm
LettoreRenato di Stefano, 1966
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 7

CAPITOLO PRIMO



Il fiume era un corso d'acqua pigro e non molto lungo, che nasceva dalla palude, proprio dove cominciava la grande pianura. Di lì si potevano vedere, i monti imbevuti di azzurro, e più vicina l'ultima linea dei colli, che erano di varia forma, alcuni alti e a punta come coni, altri bassi e tondi, come delle gobbe. E sui colli si vedevano prati e case e alberi di castagne e filari di viti, e la distanza dava a tutte queste cose un'apparenza lieve e anche un po' malinconica, quasi che non fossero fatte per gli uomini.

Dove finivano i colli cominciava la grande pianura. Dapprima era stretta, chiusa fra i monti e il mare, ma poi si ampliava verso altri monti molto lontani. Guardando dai colli nei giorni sereni, si vedeva la distesa dei campi, che da un lato era limitata in distanza dalla linea del mare, e dall'altro lato pareva non aver fine. Tuttavia raramente lo sguardo poteva arrivare lontano quanto il mare, perché quasi sempre una nebbia leggera era posata sui campi e fasciava il paesaggio.

Fin dai piedi dei colli la terra della pianura era fertile. Gli uomini l'avevano divisa con fossi e filari di gelsi e di pioppi, e la coltivavano intensamente, con antico amore. Poi le vigne e i campi s'interrompevano ai margini della palude.

La palude era una vasta zona di acquitrini coperta da canne e da alte erbe e l'improvvisa diversità della vegetazione faceva subito venire tristezza. Non vi erano case all'intorno, e una sola strada stretta e poco battuta attraversava la palude su di una serie di terrapieni collegati da vecchi ponti di mattoni. Solitudipe e luce e tristezza erano sulla palude.

Di lì nasceva il fiume. Tra gli acquitrini si apriva una quantità di polle piccole e poco profonde, con un'acqua chiara che continuamente filtrava dal fondo erboso e si riuniva in canali, cercandosi una strada verso il mare. Molti anni aveva certo impiegato il fiume a trovarsi una strada per il mare, perché il terreno da percorrere era piano, e il mare solo di pochi metri più in basso della palude. Così il suo corso era risultato incerto e pigro.

E per qualche chilometro il fiume appena nato aveva un'apparenza di palude, dove si distinguevano due qualità d'acqua, quella stagnante e coperta di muschio degli acquitrini, e quella limpida e fluente delle polle e dei canali. Proseguendo nella pianura, i canali si univano e assumevano l'aspetto di fiume. Tuttavia permanevano alle sponde due larghe strisce paludose con canne ed erbe, e queste cose davano al fiume una nota solitaria e quasi segreta, e sempre malinconica e dolce, mentre durava la visione dei colli, e dei monti più lontano.

Era un fiume che non aveva piena. Anche nel caso di pioggie abbondanti e continue, come accadeva in primavera, il livello si alzava di poco, perché l'acqua si raccoglieva nella zona paludosa, da dove poi fluiva senza fretta. Qualche volta, quando le pioggie erano violente, l'acqua diventava torbida e arrivava al mare ancora gialla, con un più forte odore di melma e di muschio.

Il fiume continuava a scorrere così fasciato di paludi per oltre dieci chilometri, e poi a tratti le rive si presentavano più solide, e allora ai canneti si alternavano i salici, e infine qualche casa si affacciava sulla corrente, povera e quasi sempre scolorita.

Tuttavia il corso era sempre lento, e l'acqua dispersa e poco profonda, così che ad un certo punto gli uomini l'avevano costretta entro due argini per aiutarla a raggiungere il mare. E ora dal mare grosse barche potevano risalire la corrente fin dove cominciavano gli argini.

Un poco più a monte era sorta la città, nei tempi antichi. Il fiume l'attraversava con un ramo principale e due secondari, e altre due derivazioni erano state scavate per cingere le mura con un canale. Così si poteva dire che la città fosse stata originata dal fiume, perché il fiume le dava tre cose indispensabili a quei tempi, acqua e sicurezza e modo di comunicare con la costa, dove si apriva il mondo.

Si notava subito che la città era antica di molti secoli. Vista dall'esterno appariva ristretta nella cerchia delle mura, con una moltitudine di tetti da cui uscivano le torri e le chiese e il vecchio palazzo della Signoria. La stazione ferroviaria, le larghe strade asfaltate e le case razionali si trovavano al di fuori delle mura. Dentro tutto era diverso. Naturalmente c'erano le radio, e i caffè luccicanti di cromo. e perfino una linea di autobus. Ma le piazze e le strade avevano conservato un aspetto quasi medioevale.

Le strade erano in gran parte strette e contorte, e le piazze sghembe, austere, delimitate dai grossi muri di qualche chiesa o dalla linea irregolare di case chiuse e grige, dai portici bassi e diversi l'uno dall'altro.

Due strade più importanti congiungevano le porte monumentali delle mura, e dividevano irregolarmente la città in quattro quartieri, che si chiamavano di San Tommaso, di San Francesco, di San Sebastiano e di Sant'Agnese. Ciascun quartiere aveva la sua chiesa principale e un vario numero di chiese secondarie.

Fin dai primi tempi si era stabilita una specie di gerarchia fra i quartieri, a seconda della gente che li abitava. All'ultimo posto si trovava il quartiere di Sant'Agnese. Era come racchiuso fra due rami del fiume, e aveva più degli altri mantenuto il suo aspetto medioevale. Un'antica chiesa in mattoni si ergeva su di una vasta piazza, ed era quello l'unico luogo nel quartiere dove apparisse il cielo. Tutto il resto era un intrico di viuzze, dove la pavimentazione era ancora fatta con sassi, e leggermente a conca. perché l'acqua potesse scorrervi nel mezzo e scaricarsi nel fiume. La via di Sant'Agnese, che era solo di poco più larga delle altre, veniva chiamata la via grande.

Le case sorgevano serrate le une alle altre, scure e misere nella maggior parte. Ma vi erano pure palazzi che conservavano un certo decoro nell'armonia della costruzione o in qualche finestra o nei resti di intonaco affrescato dove il disegno e il colore erano ormai sbiaditi. Però le vecchie nobili famiglie li avevano abbandonati ormai da anni, e la miseria li aveva invasi. Nei grandi portoni erano state ricavate piccole porte, e nell'interno le vaste sale erano state suddivise con tramezzi, perché potessero contenere un maggior numero di gente. Così le case e i palazzi erano tutti simili al di dentro, locali piccoli e scuri dove stagnava l'odore della sporcizia.

Le cose e le persone del quartiere apparivano accomunate da un eguale squallore, che tuttavia portavano con non poco orgoglio, le cose per la loro antichità, e le persone non si capiva se per fierezza o per dispetto.

Di tanto in tanto appariva una porta pulita, incorniciata da piastrelle colorate, con una targa di metallo lucido. Quello era un postribolo. Tutti i postriboli della città erano raccolti nel quartiere di Sant'Agnese.

Gli abitanti appartenevano agli strati più bassi della popolazione. Le donne facevano quasi tutte le lavandaie, o le prostitute, se non erano brutte. Gli uomini facevano i venditori ambulanti e i raccoglitori di stracci, o anche i ladri. In genere passavano da un mestiere all'altro con grande naturalezza, rispettando negli intervalli lunghi periodi di riposo. I vecchi e i bambini fornivano alla città un numero considerevole di mendicanti. Era gente rassegnata alla propria condizione. Chi voleva lavorare in modo diverso cambiava quartiere.

Vi era stato un lungo discorrere nella città circa il risanamento del quartiere di Sant'Agnese. E finalmente cominciarono anche i lavori. Fu aperta una strada larga e dritta che collegava la piazza del Duomo con una nuova porta delle mura, e tagliava soltanto una zona periferica del quartiere. Alcuni palazzi medioevali rimasero in piedi ai lati, e furono raschiati e puliti e poi ricoperti di finti affreschi antichi, secondo i suggerimenti degli studiosi. Alla fine apparvero molto interessanti. Al loro fianco fu costruita qualche casa a cinque o sei piani, che la popolazione accettò con entusiasmo e chiamò subito grattacieli. Non sapendo dove andare, la gente povera cacciata dalle case demolite si rifugiò nel centro intatto del quartiere.

Avevano iniziato anche un altro lavoro, all'estremità opposta. Un palazzo antico era già stato isolato e restaurato e ridipinto. Poi venne la guerra e tutto fu sospeso. La guerra non cambiò molte cose. Se scarseggiavano gli oggetti da vendere era tuttavia aumentato il denaro, e i commercianti si facevano pagare a prezzi più alti la loro merce. Solo un po' più di miseria si aggiunse per quelli che erano già miserabili.

La gente senza dubbio pensava che la guerra fosse un male. Ma quella era una guerra che andava bene e si combatteva lontano, perciò la gente diceva che era santa e giusta e necessaria. Ma oltre a questo non faceva niente. Aveva solo una vaga speranza che finisse presto.

Naturalmente anche molti ragazzi della città partirono e andarono a combattere, e di qualcuno giunse anche la notizia che era morto. Ma questo accadeva in luoghi lontani, in Grecia e in Africa, e in seguito più lontano ancora, in Russia. La gente non riusciva neanche ad immaginare luoghi così lontani e diversi, e non pensava alle sofferenze dei soldati e dei popoli. Ciascuno si affannava soltanto per sé, cercando di vivere come prima.

Questo accadeva in principio, quando la guerra andava bene ed era lontana.

Poi la guerra cominciò ad andar male, e ad avvicinarsi, e aumentarono i pericoli e i disagi. Allora la gente fu palesamente scontenta. Disse che la guerra era una cosa orrenda e bestiale, e desiderava la pace, qualsiasi pace. Crollò il governo e l'ordine della nazione, e il popolo fu diviso. Quasi tutti vissero aspettando. La guerra sarebbe finita un giorno o l'altro, forse presto.

La gente della città si credeva al sicuro dai pericoli. Era una piccola città che non aveva industrie. E neanche la stazione era molto grande. Aveva una sola linea principale, alla quale si allacciavano alcune altre linee secondarie. Nessuno sarebbe venuto a bombardare una città di così scarsa importanza per la guerra, dove la gente viveva aspettando la pace.

Ogni giorno, alle dieci, la sirena sulla torre della Signoria suonava per prova, e forse per ricordare ai cittadini che vi era una guerra. Spesso la sirena suonava anche in altre ore, adesso che la guerra era vicina. Gli abitanti non si impressionavano molto. Alcuni scendevano nei rifugi e nelle cantine per prudenza, la maggior parte restava alle proprie occupazioni o al proprio riposo. Tuttavia, un timore incerto entrava nel cuore di tutti e durava fino a quando l'allarme non era finito. E quando era finito pensavano che, grazie a Dio, anche questa volta era stato per gli altri.

Alcune città più importanti all'intorno erano state colpite e devastate dai bombardamenti, e molti profughi si erano rifugiati nella piccola città tranquilla. Portavano con sé dolore e miseria, perché avevano perduto tutto ciò che possedevano. La gente non li guardava con simpatia. Essi costituivano un disagio che tutti avrebbero preferito allontanare, o almeno ignorare. Ormai ognuno era chiuso in se stesso, e come smarrito, e gli uomini erano divisi, e senza pietà gli uni per gli altri.

Così la gente continuava a vivere, come poteva, perché qualcuno dava loro abbastanza cibo per non morire. E aspettavano che la guerra finisse. Questo era essenziale, arrivare vivi a quel punto. Poi qualcun altro li avrebbe aiutati a vivere ancora, in un mondo che pensavano migliore.

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