Autore Milena Bertolini
Titolo Giocare con le tette
EdizioneAliberti, Reggio Emilia, 2015 , pag. 110, cop.fle., dim. 108x178x9 mm , Isbn 978-88-93230-23-0
CuratoreMilena Bertolini
PrefazioneAntonio Padellaro, Carlo Ancelotti
LettoreGiorgia Pezzali, 2016
Classe sport , storia sociale , femminismo , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


 11 Prologo
    La Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia

 17 Prefazione

 21 Il calcio e la camicia nera

 35 Clamoroso al Cibali!

 45 Giocare con le tette

 55 Parola d'ordine: "non cooperare"

 61 Un centravanti diventa Miss Italia

 69 Il "fascino" delle donne

 79 Democrazia, sostantivo di genere femminile...

 85 SPQR

 91 Calcio epico

105 Postfazione
    Intervista a Carlo Ancellotti


 

 

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Pagina 17

Prefazione



Anni fa, un noto criminologo a cui chiedevo lumi per cercare di spiegare ai lettori le cause profonde del cosiddetto "femminicidio", ma anche dei sempre più frequenti casi di violenze sulle donne mi rispose semplicemente: «Soccombono perché sono il sesso debole». E mi spiegò che l'unica parità uomo-donna non realizzabile, se non in casi particolari, riguarda la struttura fisica. A partire dalla robustezza e dalla lunghezza delle ossa per cui la statura dei maschi sovrasta in media di 9-13 centimetri quella delle femmine, così come il peso e la massa corporea maschile è superiore in media di 11-13 chilogrammi rispetto a quella femminile. E concluse: «Le sembrerà una considerazione banale ma in certi uomini, incapaci di confrontarsi con le donne e con le loro qualità morali, intellettuali, professionali, economiche o di qualsiasi altro tipo prevale l'istinto primordiale di sopraffazione dell'essere più forte rispetto al più debole; essi pensano di ristabilire la loro supremazia picchiando e uccidendo».

Capita che quello stesso istinto possa manifestarsi in forme fortunatamente non violente e non brutali, mascherandosi dietro espressioni volgari che manifestano comunque disprezzo e sottovalutazione. Ecco allora che l'ingiuria sulle "quattro lesbiche" che pretendono di giocare al calcio affonda le radici nella cultura primitiva da bar dello sport.

Là dove le battute sui negri che mangiano le banane, sui gay che facciano pure le loro cose ma lontano da me, sugli ebreacci avidi di denaro e sulle femmine che tornino in cucina e a fare la calza, si sprecano. Esattamente il modello valoriale del presidente della FIGC, Tavecchio e di alcuni suoi degni accoliti.

Apprendere dal bel libro della Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia che per le prime esibizioni del calcio femminile si ricorreva alle ballerine la dice lunga su una certa idea maschile dello sport al femminile: in fondo sempre di giochi di gambe si trattava.

Per carità, da quei primitivi conati, di acqua ne è passata e oggi non esiste disciplina olimpica nella quale le donne non abbiano conquistato la ribalta, spesso superando per popolarità e attenzione mediatica – dal nuoto, all'atletica, alla pallavolo – i loro colleghi maschi. Se il calcio femminile, invece, fa fatica è perché qui, più che altrove, il muro maschile e maschilista è più alto da superare per le caratteristiche di un gioco che storicamente gli uomini hanno sempre considerato cosa loro.

In un libro di qualche anno fa, Personal Velocity, la scrittrice Rebecca Miller, attraverso varie storie femminili, spiegava perché le donne devono faticare il doppio degli uomini per raggiungere gli stessi traguardi. Superando anche il dislivello fisico.

Sono più deboli, ma possono diventare più forti. Sarà così anche per il calcio femminile.

È solo questione di tempo.

Antonio Padellaro

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Pagina 21

Il calcio e la camicia nera



Il calcio femminile nacque in Inghilterra nella seconda metà dell'Ottocento, pochi anni dopo quello maschile.

In Italia ci volle di più.

L' Italietta della Belle Époque alle donne non riconosceva il diritto di voto, figuriamoci quello di giocare al calcio!

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Pagina 30

Il calcio no, il calcio era maschio, come maschia era la camicia nera. Quando infatti alcune segretarie chiesero di poter indossare la camicia nera, la risposta di Mussolini fu chiarissima: «La camicia nera è il simbolo virile dello spirito combattivo della nostra rivoluzione e nulla ha a che fare con il compito di bene e di assistenza sociale che il Fascismo ha affidato alle donne».

Insomma, com'era nella divisa delle giovani italiane, gonna nera, ma camicia bianca e niente calcio. Casomai, e solo se "scientemente ridotte", attività di atletica leggera, fioretto, pattinaggio artistico, ginnastica collettiva, alcune prove di nuoto, tennis, nonché cerchio e palla ai "ludi ginnici" del sabato fascista.

In poche parole cittadine sì, col diritto di voto sì (pur se al Consiglio nazionale delle Corporazioni), al servizio della Patria sì, ma ricordando – per dirla sempre con uno dei motti dell'epoca – che "la patria si serve anche spazzando la propria casa".

Per calcare i campi di calcio ci sarebbe voluta la democrazia.

E, infatti, ottantadue anni dopo quel memorabile articolo de «Il Littoriale» e per usare la terminologia di allora, la "Federazione delle Federazioni" (oggi incarnata dalla Lega Nazionale Dilettanti), avrebbe vergato a verbale della seduta del Consiglio del Dipartimento Calcio Femminile del 5 marzo 2015 parole di altrettanta "lapidea schiettezza", attribuite questa volta al suo Presidente Felice Belloli: «Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche».

L'interessato nega: "Va dimostrato che quelle parole sono mie. Un verbale può essere stato scritto da chiunque. Bisogna dimostrare che io abbia detto quelle cose e io, ripeto, lo nego", salvo dimettersi di lì a qualche giorno. Che cosa non ha funzionato?

Forse proprio la democrazia.

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Pagina 40

Quindi se delle donne vogliono giocare al calcio, devono essere necessariamente donne "diverse"...

Le parole non escono mai a caso, hanno sempre un significato ed esprimono sempre un sentire: non si pensi che chi ha parlato di "quattro lesbiche", abbia un po' "sbroccato". Al contrario nel mondo sportivo questo è un pensiero molto diffuso.

In ogni caso, qualora lesbiche lo fossero, che c'entrano i gusti sessuali col calcio? Nulla, ovviamente! Si può parlare di calcio femminile, limitandosi al calcio e quindi restando sul terreno di gioco o bisogna per forza entrare in camera da letto delle signorine?

Se quello che pare elementare non lo è nella realtà, ciò è conseguenza di un altro retro-pensiero inconfessabile, che sembrerebbe affiorare dietro le parole di Belloli (o di chi per lui, che nega), vale a dire che una donna non c'entra nulla col calcio, che, se ci vuole entrare a tutti i costi, allora è lesbica e che una lesbica altri non sarebbe che un maschio mancato, ovvero una foemina irrisolta, magari afflitta da invidia penis.

Il "caso Belloli" (o di chi per lui) è emblematico, perché dimostra come il calcio scateni in una certa tipologia di maschio, specie italico, una latenza sessista profondamente radicata, quanto sapientemente dissimulata in anni di finte recite democratiche, buoniste, conformiste, politicamente corrette. Il pensiero nascosto è che la democrazia sarà anche femmina, ma il potere e il calcio sono maschi.

Insomma dopo un secolo siamo ancora al punto di partenza. «Il calcio non è uno sport per signorine» sentenziava "Guido l'elegante", al secolo Guido Ara, leggendario centromediano della Pro Vercelli, quando la squadra piemontese dominava il campionato.

Ma era il 1909! È passato oltre un secolo!

Tre anni dopo, al suono di Tripoli bel suoi d'amore, l'Italia avrebbe conquistato la Libia, poi si sarebbe dissanguata sul Piave e sul Carso, avrebbe visto l'ascesa e il tragico declino del Fascismo sui "colli fatali di Roma", avrebbe conosciuto l'orrore della Seconda Guerra Mondiale e della Prima Guerra Civile, avrebbe salutato il ritorno della libertà e l'avvento della democrazia, attraversato il boom economico, i "formidabili" e terribili anni di piombo, la Milano da bere, Tangentopoli e la seconda Repubblica (che in realtà non sarebbe mai nata), ma - calcisticamente parlando - l'unica differenza in questo "secolo breve" è che le "signorine" di "Guido l'elegante" sono state derubricate a "quattro lesbiche": fa niente che nel frattempo siano in realtà divenute circa 12 mila atlete (di cui 3.000 militano nei campionati nazionali, e più di 8 mila nel settore giovanile!).

Per loro, "lesbiche o signorine" non fa differenza, il destino è quello della non-esistenza, della "morte civile" come categoria: «Nessuna tutela assicurativa e previdenziale ENPALS, nessun contratto collettivo, né TFR come invece hanno i professionisti». Katia Serra, ex centrocampista della Nazionale, responsabile donne dell'Associazione Italiana Calciatori e oggi commentatrice televisiva, racconta storie amare: «Atlete anche di serie A sfrattate, perché la società aveva smesso di pagare loro l'affitto, rimborsi spese che spesso non arrivano o lo fanno con mesi di ritardo, diritto alla maternità inesistente: se giochi e rimani incinta stai a casa». È il dilettantismo forzato, che impedisce di godere dei vantaggi della Legge 91/81, una legge che nel bene e nel male regola i rapporti tra atleti e società.

Che cosa non ha funzionato?

Forse proprio la democrazia.

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Pagina 45

Giocare con le tette



Le uova del drago hanno un antro caldo e fumoso nel quale si sviluppano: il bar dello sport.

È lì che l' homo sapiens sapiens di genere maschile contrae una malattia autoimmune, diretta contro componenti dell'organismo ed in grado di determinare un'alterazione funzionale o anatomica del distretto colpito.

Il distretto in questo caso è il cervello.

L'ingresso al bar dello sport provoca, talvolta per predisposizione innata, più spesso per osmosi quasi immediata derivante dall'ambiente, un particolare sviluppo dei processi neuronali, che si articolano poi solo lungo una direzione binaria: il calcio, appunto, e la "gnocca".

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Pagina 49

Per capirci le braccia o servono per abbracciare o per stirare. Le gambe, in alternativa alla funzione erotica, servono per andare a fare la spesa, i glutei per sedersi, la bocca per tacere, ecc.

Restano le tette.

A che mai possono servire?

Per "il soggetto" in questo caso la struttura binaria del suo cervello si interrompe, giacché per lui le tette servono ad una cosa sola (... no, non quella nutritiva!), al di fuori della quale non hanno utilità, anzi sono di impedimento.

Proviamo ad entrare nella mente del soggetto. Attenzione al vuoto, potreste cadervi dentro.

Visti nella loro nudità e visti da dietro, maschi e femmine si assomigliano: testa, collo, spalle, tronco, bacino, glutei, gambe, piedi. Morfologia più lineare nei maschi, più curvilinea nelle femmine.

Passando al lato anteriore, le differenze non sono anzitutto quelle che pensate voi e che l'anatomia dettagliatamente illustra.

Per "il soggetto", esaurita la funzione erotica e attivata l'unica altra competenza cerebrale disponibile, resta lo stupore: «Ma come si fa a giocare con le tette?».

Questa è la vera domanda esistenziale che sta alla base della sua antropologia!

Ora, a parte che i maschi in genere con le tette ci giocano benissimo e in quel caso la domanda non se la pongono, ove si intenda la preposizione "con" nell'accezione di "avendo" (sicché la domanda suona «Ma come si fa a giocare, avendo le tette?»), la risposta sta in un'altra domanda, che la femmina astrattamente gli potrebbe porre: «Secondo te a correre sono più compatta io o tu?»

Tranne per Pamela Anderson e le altre bagnine, che solitamente "il soggetto" prende in verità come archetipo del foeminino, dimostrando di avere raramente superato la fase orale della suzione, la risposta nella fisiologia viene da sé.

Ma ove di ciò non si sia convinti e se ne esiga una dimostrazione empirica, è possibile immaginare uno scenario in riva al mare, ove un maschio e una femmina, entrambi nudi, corrano l'una incontro all'altro.

Si immagini di riprendere la corsa dei due con una telecamera. Nella tecnica di ripresa è auspicabile l'utilizzo della ripresa cinematografica realizzata con le high speed camera a tecnologia digitale, che consentono riprese di svariate migliaia di fotogrammi al secondo, capaci di restituire immagini di straordinaria e plastica bellezza, come dimostrano le gare di moto GP, coi piloti distesi in curva a pochi millimetri dall'asfalto e le ruote che girano con lentezza inenarrabile.

Bene, tornando alla nostra spiaggia, rimandando il filmato ripreso con tale tecnica, potreste notare che, nell'inquadratura riferita all'individuo maschile in movimento, le oscillazioni asimmetriche delle sporgenze anatomiche sono assai più variamente distribuite lungo direzioni ortogonali le più improbabili (che potremmo definire a "batacchio impazzito"), al contrario di una certa prevedibilità perfino matematica del soggetto femminile, che oscilla invece solo lungo l'asse alto-basso.

Questo, per dire che anche nel primo tra i due soggetti, cioè quello maschile e anzi in maniera preponderante, il problema è semplicemente contenitivo e facilmente risolvibile nel suo caso con le mutande e in quello femminile con un corsetto.

Vale al riguardo precisare a beneficio del "soggetto", stupefatto di fronte a tale elementare risposta, due cose.

La prima, che non obbligatoriamente il corsetto deve essere identificato nella pratica calcistica femminile con lingerie di pizzo nero trasparente (che insieme con le bagnine ne esaurisce le capacità erotico-cognitive).

La seconda che lo strumento contenitivo delle proprie propaggini riproduttive si chiama non occasionalmente "mutanda", forma gerundiva del verbo mutare, perché appunto esse vanno cambiate (e ciò prima che - per usare una terminologia heideggeriana - i residui deiettivi, unitamente al trascorrere temporale, vi imprimano inquietanti viraggi cromatici).

Ci sarebbe da domandarsi come mai la medesima domanda "il soggetto" non se la ponga per discipline che presuppongono ben altre asimmetrie plastiche: si pensi all'atletica o ancor più alla pallavolo.

In realtà in questi casi egli non si pone il problema per un semplice motivo: "il soggetto" è rigorosamente ed intransigentemente monoteista, lo sport per lui è uno solo, è il calcio.

E il calcio è di genere maschile.

Quindi negli altri sport facciano come credono.

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Pagina 79

Democrazia, sostantivo di genere femminile...



Il dizionario Treccani specifica come il termine democrazia (...) derivi dal greco, parola composta di dèmos (...), cioè "popolo" e cratìa (...), a sua volta derivante dal verbo cratèo (...), che significa avere forza, diventare signore, impadronirsi, prevalere, superare, sottomettere, vincere.

Però fin dall'antichità, persino nella mitica democrazia ateniese, icona dell' intellighenzija progressista, le donne (come gli schiavi) non contavano.

Ad Atene solo i maschi adulti, sopra i vent'anni, di condizione libera, nati da cittadini attici erano davvero cittadini: le donne non avevano diritti politici e i loro diritti, in genere, erano molto limitati, specie se nubili.

Se l'icona liberal della democrazia è dunque Atene, il mito più o meno nascosto dei sistemi totalitari di sinistra e destra, da Robespierre a Hitler, era invece Sparta e ciò per la sostanziale presunta uguaglianza che vi regnava.

In realtà gli spartani erano divisi in rigide caste, fondate sulla purezza del sangue che, insieme con il culto del corpo, la vita frugale, la laconicità del linguaggio e la sindrome dell'assedio perenne, ne hanno costruito la leggenda.

Il fatto è che a Sparta non se la passavano benissimo né gli uomini, né le donne, perché la vita scorreva idealmente secondo un percorso stabilito in tutto e per tutto dallo Stato. I maschi trascorrevano le giornate in caserma ad addestrarsi per la guerra e raggiungevano le mogli solo per il tempo necessario per congiungersi e ingravidarle. Le donne non conducevano una vita molto diversa, stavano con i figli il tempo necessario perché questi imparassero a reggersi in piedi, poi in palestra anche loro.

Ernst Baltrusch nel suo libro su Sparta ci informa che le ragazze dovevano esercitarsi con i ragazzi nella lotta, nelle gare di corsa, nel lancio del disco e del giavellotto. In generale si può dire che a Sparta le donne fossero più libere (anche se forse più tristi) che ad Atene e potevano pigliare parte (si intende in via puramente consultiva) persino alle pubbliche faccende, ma di qui a parlare di democrazia ce ne passava.

Nella Roma arcaica le cose non andavano molto diversamente.

Soltanto l'uomo godeva dei diritti politici (voto, elettorato passivo ed attivo, carriera politica, cursus honorum). La donna ne era del tutto esclusa.

Anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore ed era – come si diceva – "in mano" del padre o del marito. Come gli impotenti o gli eunuchi, la donna romana, nel periodo arcaico, non poteva adottare, non poteva stare in giudizio per difendere interessi altrui, né aveva capacità contrattuale, non poteva testimoniare o fare testamento, non poteva prestare fideiussione per debiti di terzi e neppure essere tutrice dei suoi figli minori.

Una legge, che figura nelle XII Tavole, non lasciava dubbi al riguardo: «Foeminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus». E cioè: «Le femmine, quantunque siano di età adulta, devono essere sotto tutela, con eccezione delle vergini Vestali» (che però erano "in mano" del Pontifex Maximus).

Il motivo è semplice, la donna era in sé affetta da ignorantia iuris (ignoranza della legge), imbecillitas mentis (inferiorità naturale), infirmitas sexus (debolezza sessuale), levitatem animi (leggerezza d'animo) ecc.

Tecnicamente parlando, poi, si può dire che la donna non facesse nemmeno parte del popolo. Per capire ciò dobbiamo tornare al popolo-orda e ai flussi migratori.

Parliamo di un tempo lontanissimo, ma in realtà parliamo di oggi, perché viviamo ancora nella steppa e non lo sappiamo.

Eppure è a partire da quell'antico concetto di popolo che anche la democrazia, nel suo sorgere e nel suo svilupparsi fino ai giorni nostri, si è dimenticata delle donne, sicché le donne, poi, quei diritti se li sono dovuti riconquistare uno ad uno a partire dal diritto di voto. All'inizio del secolo XX° queste pioniere vennero chiamate un po' spregiativamente suffragette e, per capirci, erano un po' le "quattro lesbiche" di allora.

Sissignori, la democrazia è nata al maschile, è cresciuta al maschile e non intende schiodarsi di lì.

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Pagina 98

Non serve un calcio etico, serve un calcio epico.

Fu l'epica a cambiare le parole e con le parole a cambiare i pensieri e con i pensieri la realtà.

Fu l'epica a trasformare i barbari, che vestivano pelli di lupo e si adornavano di zanne di cinghiale e che in sella ai loro quadrupedi saccheggiavano senza rispetto di nulla popoli e città, in cavalieri.

Fu l'Epica!

Da allora "cavaliere" non fu più essenzialmente chi montava un destriero, ma chi nei propri modi si palesava come uomo coraggioso, leale e, di fronte alla propria donna, era disponibile ad avanzare, ma anche a sapersi ritrarre. Cavaliere fu detto chi era capace di unire il valore con l'onore, la forza con la dolcezza, il vigore con l'eleganza.

Fu l'epica, la canzone, la poesia a creare questa estetica, a definire bruto (cioè brutto) chi si comportava diversamente, brutale una simile condotta e spregevoli, cioè senza valore, tali costumi.

Ciò che accade ed è accaduto in quel Consiglio del Dipartimento Calcio Femminile del 5 marzo 2015 è stato innanzitutto brutto, essenzialmente brutto, volgare.

Fu l'epica a far nascere un'estetica nuova, ad aggraziare l'architettura e l'arte, ad abbellire i costumi, a ingentilire i paesaggi. In fondo la nostra civiltà, le sue bellezze, la sua arte, la sua letteratura, nascono da lì e da lì nasce addirittura un nuovo modo di amare.

Ebbene di questa rivoluzione furono le donne ad essere protagoniste, le donne di corte, quelle che vivevano vicino ai luoghi di potere, alle istituzioni di comando del senatus populusque.

Furono loro ad imporre ai loro uomini uno stile diverso, cioè un'estetica della vita diversa. Relegate spesso in un ruolo passivo, sono queste donne, che avevano forse più tempo per ascoltare le storie cantate dai menestrelli, sono loro che spesso li ispiravano e che diventavano talvolta per questi muse impossibili. E sono loro che, ascoltandoli, sognavano e vivevano in sé quei mondi così straordinariamente più belli e desiderabili. Nelle nostre fiabe non a caso c'è quasi sempre una principessa sognante....

Anche questo cambia le corti dei signori e gli stili di vita: un po' alla volta le donne esigono "a corte" uno stile diverso ed un amore diverso, rispetto a quello praticato nelle "ville", cioè nelle campagne.

"Cortesia" (appunto) si oppone a villania (il comportamento zotico delle ville), e l'amore diventa appunto cortese. D'ora innanzi per avvicinarsi alle donne occorrerà per l'appunto corteggiarle.

Le passioni non si raffreddano, anzi, si esaltano, ma al contempo si sublimano, prendono tutto l'essere, diventano brucianti. In questa tensione erotica, il "servizio d'amore" del cavaliere verso l'amata diventa assai simile al "servizio d'arme" verso il proprio signore (dominus) e di quello del monaco verso il Signore: è allora che anch'essa diviene domina (cioè padrona, signora), termine da cui deriva appunto donna.

Fu così, indirettamente, con le parole e la distanza, che le donne cambiarono la chimica del potere, delle adunanze: obbligarono, quegli sporchi, selvaggi e barbari guerrieri alle buone maniere, ai modi cortesi, al rispetto dei deboli, alla lealtà, in una parola alla civiltà, negandosi altrimenti a loro.

È il dolce stil novo: è uno stile, appunto, un'estetica, non essenzialmente un'etica (che ne è solo la conseguenza) a cambiare il mondo.

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