Copertina
Autore Claudia Berton
Titolo Sulle vie del Levante
SottotitoloAlla ricerca di lady Hester Stanhope
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2003, Fiabesca 74 , pag. 320, cop.fle., dim. 120x166x21 mm , Isbn 978-88-7226-777-6
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe biografie , viaggi , storia: Europa , paesi: Egitto
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Indice

  5 Prologo

 37 Europa - Giovinezza: gli anni del potere
 83 Mediterraneo - Maturità: gli anni del viaggio
    e dell'amore
183 Oriente - Vecchiaia: gli anni della solitudine

283 Postfazione
299 Note
313 Bibliografia

 

 

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Pagina 5

Prologo



Incontrai per la prima volta lady Hester Stanhope nella primavera del 1991 nella nota a piè di pagina di un libro di Victor Von Hagen che raccontava le avventure di Catherwood e Stephens, gli scopritori della civiltà dei Maya. Prima di dar vita al fecondo sodalizio che li avrebbe portati nelle foreste vergini della misteriosa America centrale, essi avevano entrambi percorso - più o meno negli stessi anni all'inizio del diciannovesimo secolo - le tradizionali rotte dei viaggiatori nel Mediterraneo.

[...]

Ancora una volta dunque ritroviamo l'Oriente dei Romantici come sfondo alla storia di lady Hester: spazio mitico, orizzonte poetico, nuovo inizio, il luogo stesso della rivelazione del Divino in tutte le sue forme. "Quando eravamo a Parigi, sfortunati, senza impiego, ebbene, allora Napoleone mi parlava dell'Oriente, dell'Egitto, del Monte Libano, dei drusi" scrisse il generale Junot alla vigilia della spedizione in Egitto di cui fu uno dei protagonisti, spedizione che il primo console Napoleone aveva preparato con il perfezionismo che gli era proprio, leggendo e annotando il Maometto di Voltaire e il Corano, divorando racconti di viaggi e studiando con cura l'opera di Volney, caratterizzata da pretese oggettive ed enciclopediche settecentesche. Figlio del proprio secolo, anche Napoleone guardò infatti all'Oriente con interesse fin dall'adolescenza, ma andò oltre la concezione idealizzata che ne avevano gli illuministi e concepì invece piani di conquista. Fu proprio durante l'epopea Napoleonica, che teneva l'Europa in uno stato di continua belligeranza, che la Grecia e il Levante divennero per i viaggiatori inglesi mete alternative alla Francia e all'Italia e il numero sempre crescente di viaggiatori contribuì, con esperienze e racconti di prima mano, a rafforzare quella moda dell'esotismo che imperversava già in Europa fin dai primi anni del Settecento, quando la divulgazione delle Mille e una notte aveva fatto intuire i piaceri proibiti, i profumi e le magie del misterioso Oriente per culminare poi nel diciottesimo secolo - che non a caso fu anche il periodo di maggior espansione delle potenze coloniali imperialistiche - in una quantità di opere letterarie di soggetto orientale, anche non necessariamente basate su esperienze personali com'era invece il caso di Lamartine, Kinglake e Warburton.

Per tutto il periodo vittoriano il nome e le imprese di lady Hester, carichi degli echi del passato, della distanza e dell'indistinto e misterioso bagliore che l'Oriente evocava in una società pragmatica come quella dell'Inghilterra del diciannovesimo secolo, furono associati allo spirito di avventura.

[...]

Influenzata dallo spirito del tempo, anche lady Hester vide attorno a sé i segni che preannunciavano l'avvento di un Messia: non era forse il mondo in uno stato di rivoluzione? Non erano stati i re scacciati dai loro troni? Essa credeva, come gli ebrei e il mondo musulmano sciita - inclusi i drusi con cui era in stretto contatto - che il Messia dovesse ancora manifestarsi e si riferiva spesso a questo salvatore con il nome di Mahdi - il ben guidato - nome che gli sciiti avevano dato a quel discendente di Ali, il genero del Profeta, che - secondo loro - fu l'ultimo imam, il vero e giusto capo dei musulmani: morto secondo alcuni nell'VIII secolo, per altri si era invece rifugiato sulle montagne nelle vicinanze della Mecca e di lì, quando Dio l'avesse voluto, sarebbe ritornato per sconfiggere i propri nemici.

La fede di lady Hester, comunque, non si configurava nell'osservanza dei principi di una religione definita. "Quel che intendo per religione," disse al dottor Meryon "è l'adorazione dell'Onnipotente. La religione com'è professata dai popoli non è che una veste: chi ne indossa una, chi un'altra, ma il sentimento che io provo è del tutto diverso - e ringrazio Dio che mi abbia aperto gli occhi - poiché una religione per me non è altro che una maschera di culto, non importa se verde, blu o nera. Per me non fa differenza se un uomo si prostra davanti a un pezzo di legno o a una conchiglia, come fanno i metuali, a patto che il suo cuore si rivolga all'Onnipotente". Coerente con questi principi, era aliena da zelo missionario in campo religioso e affermava: "Non cambierei la religione di un turco più di quanto non tenterei di trasformare un francese in un inglese. Ognuno rimanga nella situazione in cui Dio l'ha posto nel mondo".

La religione composita di lady Hester sembrava fondere demonologia, negromanzia, magia e astrologia in un crogiuolo da cui a tratti emergeva una frase, un concetto, un'immagine che era possibile afferrare e comprendere, anche se il tutto, nella sua globalità, rimaneva nascosto da un impenetrabile mistero agli occhi dei suoi visitatori.

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Pagina 90

Alla fine del 1700 il Levante stava ormai diventando un'estensione del 'Grand Tour', anche se soltanto per i viaggiatori più ardimentosi, perché implicava spesso marce e spostamenti lenti, sempre imprevedibili e non di rado pericolosi. I manuali raccomandavano di procurarsi, prima di partire, una cassa ben fornita di medicinali e sottolineavano l'importanza di avere al seguito - nell'ordine - zanzariere, armi e cavalli, perché a est di Malta non vi era più nessuna sicurezza: naufragi, sporcizia, briganti e malattie erano la regola più che l'eccezione e spesso era necessario guardarsi persino da coloro che si assoldavano proprio perché facilitassero le cose, primi fra tutti i dragomanni - traduttori e tuttofare - che godevano di pessima fama.

La nave che trasportò a Patrasso lady Hester aveva al seguito una feluca noleggiata espressamente per il momento dello sbarco, essendo prevista la possibilità che il governatore turco rifiutasse l'ingresso nel golfo di Lepanto a un vascello che batteva bandiera britannica. Sulle mura del porto, bene in vista, sventolava la bandiera con la mezzaluna: lady Hester era arrivata nei territori del sultano, dai quali non avrebbe più fatto ritorno. In città venne accolta e ospitata dal kirios Stranè, il viceconsole britannico di nazionalità greca, "buon uomo gentile e molto brutto", come aveva scritto Hobhouse che ne era rimasto favorevolmente colpito quando era approdato a Patrasso con Byron pochi mesi prima. Meryon invece, viaggiatore curioso, si recò subito in un hammam in compagnia di Michael Bruce, per sperimentare il famoso bagno turco, ma a parte questo la città non gli piacque affatto: "Davvero malinconico il cambiamento dalle belle strade di Valletta alle abitazioni di fango di Patrasso!" si lamentò, affrettandosi però ad aggiungere che era una grande emozione per lui trovarsi in Grecia, la cui lingua e i cui abitanti avevano un magico fascino per lui, che aveva trascorso ben quindici anni della propria vita a studiarne il glorioso passato.

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Pagina 118

La tragica vicenda del naufragio sulla rotta per l'Egitto, benché in concreto superata con relativa facilità, assume tuttavia nella storia di lady Hester i contorni di discriminante simbolica tra l'Europa e il Levante: se indossare le vesti orientali - che non fu per lei una scelta ma una necessità dopo il naufragio - era in realtà quasi d'obbligo per i viaggiatori in quelle regioni essendo un comodo mezzo per passare inosservati, tuttavia "cambiare veste è quasi cambiare pelle e nel secolo del colletto duro ciò implicava benessere fisico oltre che trasgressione simbolica: rinunciare a sé per farsi altro", come scrive Pierre Loti.

Benché femmina, lady Hester scelse inoltre, con gesto audace, di indossare vesti da uomo che le avrebbero permesso illimitata libertà; del resto, le lunghe vesti, il turbante, le pantofole gialle e il mantello che costituivano la veste maschile turca, non avevano nulla di incompatibile con la modestia che si richiedeva all'abbigliamento muliebre anche in Europa. Già a Costantinopoli lady Hester aveva sperimentato l'utilità di quell'abbigliamento nella visita alla nave ammiraglia della flotta del sultano, ed essere scambiata per un uomo le era stato d'intralcio solo all'ingresso dei bagni termali di Bursa: poteva quindi scegliere a suo piacimento se nascondere o rivelare il proprio sesso. "Se fossi nata uomo", scrisse in seguito da Damasco, "non avrei potuto entrare in tutti gli harem come ho sempre fatto (...) e vedere quel che c'è di più interessante in queste regioni, perché la ricchezza di un turco sta nel suo harem: stanze, vesti, tutto è di un lusso indescrivibile".

Osservando che lo stato di sottomissione in cui la donna musulmana veniva tenuta era più apparente che sostanziale, lady Hester non faceva altro che ribadire quanto il dottor Meryon aveva già osservato per parte sua: l'harem era prima di tutto uno spazio interiore assolutamente inviolabile. Anche lady Mary Wortley Montague, in Turchia al seguito del marito diplomatico, aveva scritto in una lettera del 1717 che "le donne turche sono, a conti fatti, gli esseri più liberi dell'Impero", ricalcata a fine Settecento dal viaggiatore turco Abu Talib Khan che, dopo un soggiorno in Inghilterra, aveva concluso: "la condizione delle donne inglesi è, tutto sommato, meno felice di quella delle loro sorelle musulmane, (...) che hanno una precisa condizione giuridica e precisi diritti patrimoniali riconosciuti e difesi dalla legge anche quando vengono esercitati contro l'interesse del marito; ma non è tutto: dietro al velo, (...) possono celare ogni genere di inganno e di perfidia; possono anche allontanarsi da casa quando vogliono trattenendosi altrove per giorni e notti".

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Pagina 139

Sul far della sera la carovana si accampava alla foce di corsi d'acqua o in prossimità di pozzi dove era frequente incontrare donne metuali che, completamente nude, facevano il bucato o giocavano nell'acqua finché i loro panni stesi sull'erba non erano asciutti. Un giorno i viaggiatori notarono alcune persone accampate nelle vicinanze del luogo che avevano scelto per la loro sosta notturna: spinti dalla curiosità, si avvicinarono e videro un turco di mezza età intento ad accendere un fuoco per la cena e, sedute accanto a lui su un tappeto, una giovanissima abissina e un'altrettanto giovane negra che, diversamente dalle femmine musulmane, non fecero il minimo tentativo per coprirsi il viso; il turco, molto cordiale, dopo aver chiesto se davvero una principessa inglese stesse viaggiando nel paese come gli era stato raccontato, si presentò come mercante di schiavi e offrì a lady Hester la sua merce umana. "L'ignoranza delle abitudini del paese" notò Meryon "e la repulsione per questo traffico ci indussero sul momento a guardare quelle povere creature con grandissima pietà, ma una più approfondita conoscenza delle istituzioni turche con l'andar del tempo mi ha insegnato a considerare la schiavitù in quel paese come l'unico mezzo per un avanzamento sociale che altrimenti a circasse e negre sarebbe precluso".

Nei primi anni passati in Levante, mentre lady Hester viaggiava con Michael Bruce in una sorta di limbo, distaccata dalle contingenze quotidiane per riemergere a ogni sosta fiera e autorevole negli incontri con i personaggi di potere che incontrava, il dottor Meryon era invece in costante contatto con la mutevole realtà che circondava, momento per momento, la carovana e si trasformò ben presto in un efficiente tuttofare che vegliava a tempo pieno sulla sua Signora, trattando con servi e dragomanni, precedendo di qualche giorno la spedizione per prepararne l'arrivo, organizzando alloggi e rifornimenti, perlustrando i bazar alla ricerca delle merci più convenienti e interessanti. Oltre a tutte queste imprescindibili incombenze, trovava anche il tempo per coltivare i propri molteplici interessi: per verificare direttamente le cognizioni di storia e di arte che aveva appreso sui libri, annotava le consuetudini locali e visitava le rovine archeologiche e per procedere alle osservazioni scientifiche che gli stavano particolarmente a cuore, raccoglieva radici, serpi, scorpioni e tutto quello che poteva avere a che fare con la farmacopea naturale.

Fu dunque per questo intenso e ravvicinato contatto con la realtà e la gente dei luoghi in cui si trovava a soggiornare, o semplicemente a transitare, e grazie al suo spiccato spirito di osservazione e alla sua curiosità insaziabile che l'iniziazione di Meryon all'Oriente avvenne prima e più pienamente di quella di lady Hester, su una scala di tono, per così dire, minore ma forse più ricca di sfumature. Già al momento di lasciare Costantinopoli e la ricca clientela turca che vi si era fatto e tra la quale godeva di grande stima, il dottore confessò: "La vita nei paesi orientali mi si confaceva sempre più: qualsiasi cosa mi avesse scioccato al primo impatto, diventava gradualmente familiare per sembrarmi infine quasi necessaria al mio benessere".

In Egitto aveva osservato con ammirato stupore "l'indigeno che non chiede altro che ombra e acqua che scorre per distendere il proprio tappeto e, accesa la pipa, sdraiarvisi sopra in tutta tranquillità (...). Egli definisce l'irrequietezza e l'agitazione dei franchi "una febbre della mente dalla quale ringrazia Dio di essere libero". In Palestina poi, ormai da più di due anni lontano dall'Inghilterra, confessò di trovarsi perfettamente a proprio agio e di aver anche imparato ad ammirare i toni sonori della lingua turca e a gustare quelli nasali e gutturali dell'arabo. "Avevo pure superato un'altra difficoltà che può ostacolare i progressi di un giovane viaggiatore e che, così si dice, è una caratteristica dei viaggiatori inglesi, vale a dire l'idea che gli abitanti di altri paesi siano inferiori per educazione, modo di vivere e capacità intellettuali: io infatti ero già in grado di rendermi conto che un turco, per quanto infido potesse essere, era sempre beneducato e cortese e che un arabo, benché potesse essere un bugiardo, aveva un'ardente immaginazione e una naturale eloquenza. (...) Avevo anche scoperto che, per vedere le cose nella giusta dimensione, un viaggiatore non deve peccare di egocentrismo, né di pregiudizi nazionalistici. Mi ci volle però molto più tempo per riuscire a dominare il sentimento di rabbia che provavo quando un turco mi mancava di rispetto solo perché ero cristiano" .

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Pagina 155

Una quarantina di anni dopo il viaggiatore francese Fromentin annotò: "Sfido chiunque a mostrarmi qualcuno meglio drappeggiato, più proporzionato o impeccabilmente bello di un beduino scelto a caso", e il fascino dei beduini e del loro mondo agli occhi degli occidentali non avrebbe fatto che crescere con il passare degli anni, in proporzione con la distruzione del loro mondo da parte dell'avanzante 'modernità': "fiori fragili" come li avrebbe definiti Lèvi-Strauss - destinati a soccombere in un mondo sempre più omologato - il fascino unico dei beduini andava infatti in senso esattamente contrario a quello della civiltà occidentale per la loro capacità di vivere e costruire la propria filosofia sul vuoto, animato da impalpabili spiriti chiamati jinn, materializzati in mulinelli di sabbia e quasi sempre ostili agli uomini. Racconta T.E. Lawrence di essere stato invitato un giorno da una delle sue guide a sentire da una finestra ad oriente il profumo più delicato di tutti, quello del vento del deserto, "vuoto, inerte, limpido, alito stanco nato in qualche luogo oltre l'Eufrate lontano ed ora, dopo molti giorni e notti di viaggio tra l'erba morta, giunto al primo ostacolo: le mura del nostro palazzo in rovina, opera dell'uomo. (...) 'Questo' - dicevano gli arabi - 'è il profumo migliore. Non sa di nulla'. Voltavano le spalle ai profumi, al lusso, per scegliere le cose in cui l'uomo non aveva avuto parte alcuna".

Anche lady Hester fu affascinata dall'aria del deserto, dalla sfida rappresentata dalle sconfinate distese di vuoti spazi che alla prima pioggia di primavera diventavano un coloratissimo tappeto di fiori brulicante di cammelli e di greggi. La capacità di darsi all'ozio contemplativo e di saper gustare l'arte della parola espressa in poesie e in lunghi racconti, insieme alla forza interiore che deriva dal sentirsi liberi e soli in un ambiente ostile, fieri del proprio sangue, della propria spada e del proprio cavallo, privi di paura perché - come dice un proverbio beduino - 'colui che dorme per terra non ha paura di cadere dal letto', erano le caratteristiche principali degli abitanti del deserto, il cui contatto ebbe senza dubbio un ruolo molto importante nel cammino iniziatico di lady Hester, suscitando in lei una sorta di identificazione con quella gente che cominciò da allora a chiamare "la mia tribù". "Rispetto la loro povertà e la loro indipendenza," scrisse "e sono io stessa un esempio che esse hanno un valore, in alcune parti del mondo. (...) È consolante pensare che quando il mondo sarà ancora più corrotto, quando i popoli cosiddetti civili diventeranno ancora più brutali, ci sarà sulla terra un luogo abitato da gente che noi chiamiamo barbara, ma che ha almeno il senso dell'onore e del sentimento: un luogo dove si può star certi di non essere annoiati dalla stupidità o da un vuoto blaterare. (...) L'idea di raccontare frottole ai beduini trattandoli da sciocchi è completamente errata".

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Pagina 222

Quanto alla grande Storia, ne provava un profondo disprezzo ritenendola una miserabile farsa in un cumulo di menzogne. La vera conoscenza, continuava a ribadire, non aveva nulla a che vedere con i libri ma si basava sull'esperienza personale, arricchita da insaziabile curiosità e profondo spirito di osservazione: a questo proposito attribuiva un grande valore al viaggiare - trattenendosi però a lungo nei luoghi - come fonte insostituibile di contatti con gente e situazioni diverse, perché "guardare una città, un monumento e ripartire è a mio avviso un'assurdità: sarebbe meglio restarsene in patria piuttosto che viaggiare così, perché l'unico risultato che si può ottenere è di diventare sgradevolmente boriosi, il che è senz'altro peggior cosa che essere ignoranti ma umili".

Purtroppo la conoscenza falsa e superficiale e l'esibizionismo che detestava e il cui unico scopo era il tornaconto personale stavano invece diventando di moda, diffuse a suo dire da libri e giornali che riteneva "stupidaggini scritte per far soldi. Io qui, io là: ma chi mai parlava così un tempo? La parola 'io' non veniva mai pronunciata da una persona educata!

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Pagina 224

Scagliandosi contro il mondo borghese che stava nascendo e mitizzando il passato lady Hester non faceva che condividere, seppure inconsapevolmente, il sentimento di Weltschmerz che era nell'aria e l'ardente reazione ad una civiltà divenuta artificiale che esprimevano creazioni letterarie come Ossian e Werther, filosofi come Rousseau, nonché gli estetismi dei dandies. La società mista di aristocrazia spregiudicata e di borghesia emergente che era stata il ceto dominante dell'età napoleonica, stava ormai lasciando il posto a quel perbenismo che lady Hester, intuendolo al primo manifestarsi, aborriva. Fu in questa atmosfera che divenne "un animale raro, un esemplare umano in contraddizione con l'egemonia del giusto mezzo e la richiesta di caratteri equilibrati, regolari, esemplari, con sentimenti e passioni normali": queste sono parole che si riferiscono a un personaggio che richiama lady Hester in molti tratti del suo carattere, la principessa italiana Cristina di Belgioioso; anch'essa considerata impossibile da inquadrare in stereotipi femminili, anch'essa di un'arroganza aristocratica che, naturale in quell'epoca, era tuttavia annullata da una grande compassione umana, anch'essa agitata, inquieta, con la vocazione della grandezza e dotata di un impulso caritatevole imperioso e talvolta irritante per chi si trovava a essere oggetto delle sue cure spirituali, e definita 'pazza' perché questa definizione era più facile del tentativo di comprenderla.

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Pagina 235

La sua reazione alla morte di James fu un gesto estremo: da quel momento non varcò più le mura del suo giardino, che divenne per lei un vero 'hortus conclusus', un guscio protettivo precluso a tutti tranne che a persone davvero speciali, "uno dei più bei giardini del Levante:" come scrisse Lamartine, uno dei pochi a esservi ammessi "pergole dalle cui verdi volte, come milioni di lampade fatate, pendevano grappoli dell'uva scintillante della terra promessa; chioschi e arabeschi scolpiti, intrecciati di gelsomini e altri rampicanti originali dell'Asia, vasche di marmo dove l'acqua, convogliata artificialmente, viene da una lega di distanza a mormorare e giocare in fontane; viali piantati con tutti gli alberi da frutto inglesi, europei e levantini; verdi prati punteggiati da arbusti fioriti, bordure di marmo per contenere masse di fiori che non avevo mai visto prima!". Questo giardino fu l'ultima tappa del viaggio di lady Hester.

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