Autore Federico Bertoni
Titolo Morire il 25 aprile
EdizioneFrassinelli, Milano, 2017, , pag. 326, cop.rig.sov., dim. 15x22,5x2,8 cm , Isbn 978-88-9342-021-1
LettoreElisabetta Cavalli, 2017
Classe narrativa italiana , paesi: Italia: 1940 , paesi: Italia: 2000 , guerra-pace









 

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Indice


Pace - 25 aprile 2001                        1

    Aprile                                   3
    La casa                                  6
    L'ospedale                              13
    I nomi                                  23
    Il sogno                                45
    Lucia, 1                                48

Alla macchia - 20 luglio 2001               59

    Aldo e Nina, 1                          64

Guerra - 11 settembre 2001                  79

    Ettore, 1                               84
    Lara                                   113
    Ettore, 2                              133
    Lucia, 2                               149
    Tito                                   170
    Anna, 1                                186
    Le voci                                201

L'imboscata - 19 marzo 2002                213

    Aldo e Nina, 2                         215

Guerra alla guerra - 26 ottobre 2002       225

    Anna, 2                                231
    Laura                                  248
    La miniera                             256
    Anna, 3                                268
    Ovunque                                283
    Lucia, 3                               290

Vittoria - 20 marzo 2003                   301

    La battaglia                           305
    Maggio                                 319

Nota                                       325


 

 

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Pagina 3

Aprile



Alla fine lui è morto, e io sono rimasto indietro. Mi sono attardato lungo il tragitto e adesso mi tocca forzare il passo, sgusciare tra le schiene ricurve dei dolenti per inseguire il capobanda che guida la marcia, laggiù, nella nebbia, con la sua mazza dorata che dà il ritmo ai piedi e alla grancassa.

Bum! Bum! Bum, bum, bum!

Ma perché sono così indietro? Accelera, voglio andare avanti, stargli vicino, sentire bene. Non sono mai stato a un funerale con la banda.

Bum! Bum! Bum, bum, bum!

Poi riattacca. A passo di marcia, sulle note della banda. Una bella storia di risvegli, fughe, corpi sepolti, fiori sul monte e genti che passeranno. Chissà perché questa canzone mi rende sempre così allegro, anche nei momenti tristi. Ora la sento bene. La sento che mi si arrotola in gola, qualcosa che si rompe, le labbra che si aprono a comando: Una mattinaaa, mi son svegliatooo... E allora sì, la canto. La canto ad alta voce, e pure piango, non me ne importa nulla, ho il cuore gonfio come un pallone e canto e piango, qualcosa mi trabocca in gola e lo sputo fuori così, a passo di marcia, sulle note della banda. Su la testa. Alza la voce. Guarda lontano. E canta: Una mattinaaa, mi son svegliatooo... Che mi sentano pure, questi signori incappottati, professionisti e possidenti e nullafacenti, tutti diritti e pretese e privilegi e certo, ci giurerei, il voto in tasca a forzitalia. Che se ne vadano a casa senza stare qui a fare gli ipocriti dolenti, solo perché c'è tutto il paese e non si poteva non venire, non stava bene, perdiana. Io canto, anche se ai funerali non si canta: E ho trovato l'invasooor! Canto anche se sono triste, perché questa canzone mi rende sempre così allegro. Canto e piango: O partigianooo, portami viaaa... Canto e mi faccio largo tra tutto questo nero, questa massa di stronzi, via, fuori dalle palle, le schiene, i cappotti, i visi contriti, le mani intrecciate, il formicolio della nebbia sul viso, lacrime che traboccano sul mondo. Canto e piango e cammino: O partigianooo, portami viaaa... Canto e adesso l'ho quasi raggiunta, la mazza dorata, scettro nella nebbia, il prete e la bara e il capobanda, la fine del viale alberato che si apre nello spiazzo davanti alla chiesa. E alla fine sono qui, amico mio, non resterò più indietro: Che mi sento di moriiir!

Silenzio.

Tutti fermi, tranne lo scalpiccio degli ultimi che avanzano, si addensano, si spandono nello spiazzo a ventaglio sbilenco. Intorno, a far corona, il cerchio di cipressi e i mausolei kitsch dei notabili locali, con marmo e granito, vetrate artistiche, bassorilievi, fregi, mosaici, pax aeterna e requiescant in pace.

Il presidente dell'ANPI fa un discorso breve, sobrio, emozionato, con foglietti tremanti che accartoccia tra le mani. Bravo: niente retorica. E poi era un tuo amico, sarebbe sciocco andarsi a intrombonare proprio adesso, anche se tutto – morte, banda, folla, bandiere, mausolei – inviterebbe a farlo. Bravo, ripeto; e ora andiamo dentro e non pensiamoci più.

«Pensa il destino, morire il 25 aprile.»

«Pazzesco. Ma com'è stato?»

«Niente, è crollato a terra come un sasso. E poi era morto.»

Dentro la terra, sotto la terra, zolle di terra che franano sul legno, cascate di terra sul corpo che si raccoglie laggiù, piantato finalmente a marcire sotto la terra, dentro la terra, nei secoli dei secoli in mezzo alla terra. In saecula saeculorum, cioè. Amen.

«C'è stato un gran tonfo. Nient'altro. Un colpo tremendo.»

«Magari non ha sentito nulla.»

«Probabile. E in fondo il 25 aprile è un giorno come un altro per morire.»

E la terra scende, zolle e frane collose spinte dalla pala; nasconde finalmente quel corpo piantato lì come uno spropositato seme marcescente, che forse quest'anno germoglierà. Ormai è fatta. La banda non suona più, ha esaurito il repertorio: Fischia il vento, Il Piave, Il silenzio. E allora via, tutti a casa, rompete le righe, poiché il nemico irruppe a Caporetto. E anche perché ormai scende la terra, e tutto è sotto la terra, dentro la terra, nei secoli dei secoli in mezzo alla terra.

È davvero il mese più crudele.

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Pagina 13

L'ospedale



L'infermiera spalanca la porta e la folla dilaga in reparto. Fiori, casino, spintoni, bambini, tutti quei nonni con il sorriso demente. Anch'io porto i fiori, un mezzo sorriso, la giusta allegria, ma sono spaesato e non conosco il numero del letto. Avanzo con passo incerto nel corridoio, lo sguardo che si infila tra le porte nell'ansia di sorprendere l'intimità sordida del letto d'ospedale – bende, padelle, sacchetti gonfi di piscio. Poi per fortuna la vedo. Incrocio i suoi occhi e tutto prende subito senso: i fiori, il disagio, il mio essere lì; l'idea che non sono un losco maniaco da reparto maternità ma un ragazzo gentile che va a trovare la sua amica, Lucia, dovreste vederla, bella da scioglierti il cuore, anche se ha appena partorito.

Un saluto, un bacio; poi le chiedo se riesce a votare. È più forte di me: «Riesci a votare?»

In realtà me ne frega il giusto, tanto il nostro destino è segnato, siamo tutti allegramente fottuti; ma è come se cercassi la domanda più idiota e sgarbata con cui spodestare le questioni prioritarie, il mistero della nascita, la salute sua e del bambino. Ed è pur sempre il 13 maggio 2001, il gran giorno delle elezioni, questo esaltante rito collettivo che ti fa sentire cultura avanzata, civiltà superiore, cittadino di prima classe; ti sembra quasi di essere diventato un po' più alto mentre cammini con passo elastico sul marciapiede.

«Sì», mi dice. «Hanno allestito un seggio in reparto. Tu sei già andato?»

«Ci vado dopo, i seggi chiudono alle dieci.»

«Comunque io sto bene, grazie. E i fiori sono per me?»

«Scusa. Non ti ho nemmeno chiesto del bambino.»

«Sta bene anche lui, si è già attaccato e mangia come un lupo. Ma non stare lì impalato, prendi quella sedia.»

«Alla fine come l'hai chiamato?»

«Marco.»

«Tu comunque sei in gran forma.»

Dico sul serio: è splendida: una statua in marmo, un'antica Giunone scolpita nel suo fulgore. Allungo la mano e le faccio una carezza in testa, un gesto affettuoso, da amico, e lei, sapete, ha capelli spessi e forti, neri come la notte, un'onda che ti travolge. Sta seduta nel letto e sorride, l'aria beata, il viso largo, lo sguardo aperto, i fianchi pieni, il seno che scoppia nel velo della camicia da notte. Quella potenza, i capezzoli gonfi di latte. Oddio, mi sto trasformando davvero in un maniaco da reparto maternità.

«E tu come stai? Ti sei ripreso?»

«Insomma. Il funerale è stato commovente, c'era la banda, hanno suonato Bella ciao.»

«Avrei voluto esserci.»

«Ma il giorno dopo sono andato a casa sua, e ho trovato una cosa.»

«Le armi?»

«Sssh, sei impazzita? No, macché armi. Una lettera.»

«Eccoci.»

«Perché eccoci?»

«Dalla tua faccia prevedo melodrammi.»

«Be'...»

«Oscuri segreti di famiglia che la morte avrebbe seppellito.»

«Senti, ti garantisco che ci sono di mezzo troppi morti per fare dell'ironia.»

«Scusa.»

«Comunque sì, è una lettera di mia madre del dicembre 1991. Molto cattiva, ma anche spaventata. Evidentemente c'erano troppe cose che non sapevo. Aveva paura per me, temeva che mi facesse male passare tanto tempo con lui, non solo perché restavo indietro con gli esami ma perché non era giusto, non si poteva costruire un'amicizia su una cosa così. In pratica gli chiede di lasciarmi in pace.»

«Ma perché?»

«Per quello, perché c'erano cose che non sapevo.»

«E non ti ha mai detto niente?»

«Mia madre? No, niente di preciso. Qualche allusione, mezze parole. Magari tentava di attaccare il discorso ma io la mandavo al diavolo; in quegli anni eravamo abbastanza ai ferri corti. E poi io ero allo sbando.»

«Sì, mi ricordo.»

Lo so che li ricordi, amore mio, quegli anni in cui rotolavo, andavo alla deriva. Quegli anni in cui rotolavamo tutti, pieni di lustrini e ipoteche sul domani. I favolosi anni Ottanta, quelli del thatcherismo e dell'edonismo reaganiano, della Fininvest e della Milano da bere, degli orribili manga spaziali che un giorno rievocheremo con patetica nostalgia da quarantenni, tutte quelle nostre madeleine di paccottiglia, made in China & Japan. Rotolavamo veloci tra yuppies e paninari, e se tracciavi bene la rotta per non pestare quella merda ti ritrovavi con una rabbia astratta e impotente, un mancare sempre la battuta, perdere attrito, scivolare all'indietro, stringersi ai pochi amici sfigati per seppellire bottiglie nei boschi e leggere Kerouac, girare in vespa, fumare canne e ascoltare i Doors, tutto a tempo scaduto. Così mi stordivo con perfide sbronze di batida o di vodka al cocco, mi imbucavo alle feste fighette, giocavo a biliardo in un fetente pub pseudo-londinese e sentivo Guccini che cantava la grazia e il tedio a morte del vivere in provincia, e mi chiedevo dove l'avesse trovata, la grazia, quel poetastro barbuto. Rotolavo, seguivo la corrente. Mi ero iscritto a Legge per rotolare al posto che mi era stato assegnato in partenza, il posto numerato in platea di una grande famiglia di avvocati, ingegneri, medici e notai. Anche i miei cugini rotolavano, palle da biliardo smazzate con un colpo secco che filavano dritte in buca, una dopo l'altra: avvocato, architetto, psichiatra. Finché un giorno, chiuso in casa a studiare, vidi la stanza che si anneriva e iniziai a vomitare selvaggiamente sul codice di procedura civile, un vomito denso, grasso, incontrollabile, e capii che era giunto il momento di fare l'unico gesto rivoluzionario della mia gioventù: lasciare Giurisprudenza e passare a Storia, impiegando sei mesi per trovare il coraggio di confessarlo ai miei. E quando arrivò la Pantera a occupare le aule della facoltà, quando finalmente succedeva qualcosa dopo tanti anni, quando tornò l'occasione per scendere in piazza e urlare al mondo quanto eri incazzato, be', io ero rotolato troppo, mi ero rotto i coglioni, me ne rimasi in un angolo a snobbare quegli invasati che citavano Marx e parlavano in slogan a rima baciata, e che forse oggi stanno sul libro paga di Berlusconi. Lasciavo le aule occupate per salire in collina, quel crinale ventoso sopra i calanchi e i fumi della pianura, la vecchia casa coperta di edera con un forziere chiuso in solaio; disertavo piazze e assemblee per andare da lui che mi trascinava nei suoi lavori da Cincinnato furioso, in genere lavori di merda, raccogliere sassi nei campi o pulire vecchi mattoni, e intanto mi raccontava dei suoi ragazzi morti su quelle montagne, dei fascisti che aveva ammazzato e delle carogne che tenevano stretto il potere e ci volevano solo le bombe per levarli di mezzo, i mitra e le bombe e quel giorno rosso di fuoco, la rivoluzione che loro non avevano avuto il coraggio di fare, e allora adesso toccava a noi. Proprio noi, questa manica di rimbambiti, cresciuti con il culo nel burro e gli occhi incollati alla tv. E mentre gli studenti riconquistavano le strade, mentre sfidavano i manganelli di sempre per urlare al ministro craxiano che no, l'università era pubblica e gli squali non ci dovevano entrare, io stavo con quel vecchio pazzo in un campo fangoso dell'Appennino a raccogliere sassi e a caricarli su un carro, bestemmiando a vuoto sull'Italia e sul potere.

«Ma cos'è esattamente che non sapevi?»

«Quello che era successo durante la guerra: non sapevo niente.»

«Lui però ti aveva raccontato tante cose.»

«Solo quelle che voleva: un'antologia di storie esemplari. In realtà niente. Niente di essenziale.»

«Senti, la pianti di tenermi sulle spine? Tra un po' devo allattare.»

«Hai ragione, è che non so come spiegare», e intanto lascio vagare lo sguardo nella stanza. «Forse lui non era quello che pensavo, o almeno ha fatto delle cose che non mi poteva dire per non guastare quello strano rapporto che si era creato tra noi. Il vecchio eroe partigiano e il giovane alla ricerca di un perché.»

Mi alzo e inizio a ciondolare per la stanza, come a cercare le parole su quegli arredi freddi e neutri, volutamente ostili, su cui il mio sguardo non fa attrito. Fuori è quasi buio e il mondo è una cosa nera dietro il grande vetro della finestra. Sento lo sguardo di Lucia che mi marca stretto. Mi riaccosto al letto e la fisso: «E dunque non poteva dirmi di avere quasi ucciso mio nonno. Perché è di questo che lo accusa mia madre nella lettera, anche se ammette di non avere le prove».

Mi rimetto a sedere accanto a lei, al riparo dei suoi fianchi e delle sue tette poderose, radice e culla di ogni bene. La fredda luce al neon non riesce a smorzare l'alone radiante della sua pelle, dei suoi capelli splendenti. Faccio anche per prenderle mentalmente una mano ma mi sento troppo patetico.

«Era ancora una bambina», riprendo, «ma scrive di non avere mai dimenticato quella notte in cui lui era entrato nella loro villa come un bandito, aveva seminato il terrore e poi aveva rapito suo padre che non c'entrava nulla. L'aveva legato e incappucciato e portato via, e l'avrebbe certamente ucciso se un imprevisto non glielo avesse impedito.»

«Che genere di imprevisto?»

«Non lo so, e forse non lo sapeva bene neanche lei. Nella lettera comunque non lo spiega. Però gli dice chiaramente di non averlo mai perdonato, di avere ancora stampata in testa la scena di suo padre che tornava a casa con la faccia piena di sangue, vivo per miracolo ma distrutto per sempre, umiliato fino in fondo all'anima. Evidentemente ci sono cose che non si possono perdonare, nemmeno dopo cinquant'anni.»

Lucia si fa pensosa, veleggia un po' con lo sguardo nel silenzio che segue le mie ultime parole. «Ma tuo nonno era fascista?»

Be' sì, come tanti altri, un po' come tutti. Ha fatto la marcia su Roma ed è stato in politica per qualche anno; ma non era un fanatico, e non ha mai aderito alla Repubblica Sociale. Io non l'ho conosciuto ma mi hanno sempre detto che era una brava persona, un uomo onesto e stimato da tutti. È assurdo che se la sia presa proprio con lui, che addirittura abbia tentato di ucciderlo, con tutti i criminali che c'erano in giro.»

Lucia mi guarda a fondo, visibilmente indecisa se dire ciò che sta per dire: «Non voglio dare giudizi su cose che non conosco, però lo sai anche tu, ne abbiamo parlato tante volte, è il classico alibi con cui ci siamo sempre assolti: in fondo il fascismo non era così cattivo. Quelli che menavano e torturavano e denunciavano gli ebrei erano sempre gli altri, una minoranza di esaltati con il teschio sul fez. Noi eravamo brava gente.»

«Che vuoi dire?»

«Che forse bisognerebbe capire com'è andata.»

Hai ragione, amore mio: bisognerebbe capire meglio, rimettere insieme i pezzi, raccontare di nuovo tutta la storia. Ma adesso loro sono tutti morti e io sto qui a darmi del cretino per non avere fatto le domande giuste finché ero in tempo, prima che fosse troppo tardi. O forse è meglio così: perché con i morti si lavora meglio, non possono mentire né smentire. Ma so che mi aspettano giorni duri, buchi senza fondo, grappoli di dubbi e un indagare laborioso, qualcosa di simile al lavoro del detective o del paleontologo, e già mi vedo mentre mi aggrappo a una foto o alla voce di un vecchio rincoglionito che biascica i suoi ricordi in cui scavare tracce di un passato che non puoi toccare, che ti si sfarina tra le mani come un reperto esposto all'aria. Hai ragione, la nostra memoria è un alibi, o forse un grande imbroglio. Loro sono tutti morti ma la guerra non è finita. E temo che questa non sarà affatto una questione privata. Non sarà solo una mia ossessione, un vecchio segreto di famiglia, le storie sepolte di una guerra assurda e feroce ma ormai ingessata nelle pose enfatiche delle statue nelle piazze. Ho paura che ci riguardi tutti, perché la guerra non è mai finita, anche se i libri di storia dicono il contrario, anche se è arrivato il 25 aprile e adesso tanti stronzi invocano la riconciliazione nazionale, con mezzo secolo di pace repubblicana alle spalle e gli ultimi vecchi che stanno tirando le cuoia. Noi però siamo sempre gli stessi, gente onesta che non c'entra mai nulla, brave persone che non hanno torturato nessuno, finché una notte ti entra in casa l'eroe vendicatore e cerca di ucciderti come un cane rognoso, e dovrai pure chiederti il perché. Sì, ho una gran paura che questa storia ci riguardi tutti, noi italiani brava gente.

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Pagina 56

Si avvicina e mi bacia sulle guance. Io la stringo, un abbraccio affettuoso da grandi amici. Siamo in piedi sul pianerottolo, la porta socchiusa, la luce a orologeria delle scale, quel teso imbarazzo che ci prende sempre quando ci salutiamo, un'altra parola da dire, molte altre da non dire, il silenzio puntellato di diversivi e il fiero proposito di scambiarci solo banalità.

«Aspetta», mi dice. «Stavo dimenticando una cosa.»

«Dimmi.»

«Tra una settimana c'è il G8 di Genova. Io ovviamente non posso muovermi, ma Silvia e Luca ci vanno di sicuro. Forse c'è anche Alberto. Mi hanno chiesto se vuoi andare con loro.»

Quando si dice che arriva la rivoluzione e non hai niente da metterti. In realtà è da giorni che ci penso, anche perché la tv non parla d'altro. Genova blindata. Genova assediata. Genova in guerra dal cielo e dal mare. E a un certo punto mi ero quasi convinto ad andare, anche se mi secca un po' fare il contestatore della domenica, il no global dell'ultima ora, quando tutta la mia esperienza in fatto di manifestazioni si esaurisce in qualche sfilata del 25 aprile. Certo il conforto logistico è innegabile: Genova, duecento chilometri, neanche due ore di strada e sei in pieno libro di storia, sotto le telecamere e gli occhi di tutti, a sfilare e a gridare con tutta la voce per chiedere finalmente un mondo più giusto.

Era ora.

Sì, cazzo, era proprio ora.

Il momento che aspettavamo da anni, da sempre, dopo decenni di yuppismo, thatcherismo e edonismo reaganiano, dopo Ere dell'Acquario, generazioni X e Y, città da bere e sindromi da fine del mondo. Cristo, gli anni migliori della nostra vita.

Ma poi ci ho ripensato; sentivo qualcosa di storto, l'idea di pattinare nel fango, la testa stregata da altre scene, il nonno che rincasava con il viso insanguinato e quell'altro pazzo che galoppava per i monti con i capelli nel vento, sparando scenografiche mitragliate agli dèi del cielo. Poi in qualche sogno c'ero anch'io che cavalcavo in groppa a Ronzinante, mi schiantavo contro enormi griglie di ferro o mulinavo la spada sventrando limoni appesi con lo spago. Allora mi sveglio e mi chiedo: ma davvero si può andare in battaglia? Qualcuno può gentilmente indicarmi dove sono i nemici? E se ti fai domande come queste non vai al G8 ma ti conviene trovare un altro impegno.

Eppure Lucia è lì sul pianerottolo che mi guarda e nei suoi occhi, come sempre, c'è la cosa giusta da fare.

«Quando partono?»

«Giovedì, il 19. Vogliono sentire alcuni dibattiti del forum prima di andare alle manifestazioni. Un'amica di Luca si è offerta di ospitarli a casa sua.»

«Senti, ci devo pensare. Entro domani ti faccio sapere.»

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Pagina 65

«Lo sai che devo farti una domanda?»

«Non aspetto altro. E poi tu sei un'artista delle domande.»

«Ma che sciocchezza.»

E ovviamente è la domanda più semplice, disarmante, quella dei bambini che si affacciano al mondo. La prima domanda che qualunque amico al bar, se avessi degli amici al bar, potrebbe rivolgermi. Ma perché ci sei andato, coglione, che si sapeva benissimo che volavano le manganellate? Ma Nina è un'artista delle domande, e il tono in cui me lo chiede, la curva della frase, l'ombra delle ciglia nell'istante in cui muove le labbra disperdono qualunque residuo di scherno o incomprensione, creano l'attesa di una storia, mi fanno quasi sentire come l'eroe sconfitto di una tragedia. Preso a manganellate dal destino. Dal nero policarbonato del fato.

Nina ha sessant'anni, potrebbe essere mia madre e sa benissimo perché sono andato a Genova. Perché nel Sessantotto non ero ancora nato. Perché nel Settantasette facevo la prima comunione con le mani giunte davanti all'altare. Perché nel Settantotto è entrata in classe la mia maestra (una biondina che assomigliava follemente a Lady Diana) e ci ha fatto recitare una preghiera per Aldo Moro chiuso nel bagagliaio, tutti in piedi e contriti, gli occhi bassi, la luce perpetua e riposi in pace. Perché nell'Ottanta avevo scoperto un sistema infallibile per disegnare le stelle senza alzare la penna dal foglio, cinque punte fuori e un pentagono rovesciato al centro, e non capivo perché mia madre me le facesse cancellare tutte, severa, senza spiegarmi, non si fa e basta, con quegli occhi allarmati che erano il segno lampante della sua incapacità di gestire di fronte ai piccoli le vergogne dei grandi, sesso o terrorismo che fosse, l'accigliato monito del guai a chi scandalizzerà questi bambini. Perché nell'Ottantuno, alla scuola dei preti, mi avevano detto che l'aborto permetteva di uccidere i bambini e mi era venuta una paura fottuta che mi facessero fuori da un momento all'altro, con la benedizione della legge. Perché nell'Ottantasei, in piena tempesta ormonale, mi ero convinto che fosse colpa di Cernobyl se mi cadevano i capelli. Perché nell'Ottantanove ho visto la caduta del Muro in televisione, tutta quella gente con i martelli e le spranghe, le urla e gli abbracci, i riflessi delle bottiglie sotto le luci euforiche dei riflettori. Perché nel Novantuno ho visto la guerra del Golfo in televisione, quella di my name is Cocciolone, dei cormorani impestati e dei traccianti verdi, con quel demente di pilota americano che paragonava la città bombardata a un albero di Natale. Perché nel Novantadue ho visto ponti crollati, stupri etnici, fosse comuni, la barbarie dietro l'Adriatico, e tutto in televisione. Perché ho visto Rabin e Arafat darsi la mano in televisione, la bandiera rumena bucata in televisione, Craxi bombardato di monetine in televisione. Sentivo la televisione che scandiva il suo repertorio di sigle, formule, accozzi consonantici, suoni esotici o latineggianti, strani codici per iniziati: BR, P2, CISL, PDUP, Italicus, Marcinkus, SISMI, Gladio, Scala mobile, Rosa dei Venti. Sentivo la televisione che evocava tralicci dell'alta tensione e ponti dei frati neri, esplosioni e impiccagioni, gran maestri e tangentisti, suicidi e brigatisti, mafiosi e camorristi, ed era un po' come quando ripeti una parola e senti che si svuota, il significato vola via, è una cosa fatua e sottile che si stacca dal suono e lo lascia li a rimbalzarti in bocca come nelle filastrocche o nei giochi dei bambini quando si annoiano.

Nina sa già tutto ma non per questo smette di domandare, ascolta la storia, gli occhi azzurri e attenti, spettatrice empatica della tragedia. Guarda e sorride mentre rispondo, mentre mi scaldo e mi abbatto e ogni tanto mi viene da piangere, perché lei è un'artista delle domande e ha il dono silenzioso di chi sa dialogare.

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Pagina 70

Il fumo si sfalda lentamente, dissolto dall'aria estiva che entra dagli abbaini. Riprendo fiato dopo le scale, mi guardo intorno, e mi chiedo se uno può essere tanto pazzo da portarsi in casa un attentato. Il laboratorio è immenso, una soffitta intera, un regno in cui vagare per ore di assenza e follia. C'è un casino d'inferno, mucchi di roba, grovigli di fili, attrezzi sparsi a terra o appesi alle pareti. Al centro, un lunghissimo tavolo su cavalletti in legno sostiene i rottami di un plastico ferroviario da cui sale una colonnina di fumo ancora molto denso. E Aldo se ne sta lì, in piedi, incredulo e allampanato, le gambe un po' larghe, il camice bruciacchiato, la faccia nera e le sopracciglia arrostite, come gli scienziati pazzi dei film americani.

Aldo è un dietrologo e un bricoleur, un adepto del complotto con dita meticolose e pazienza infinita. Aldo ha la fissa del modellismo e un conto in sospeso con la storia del suo paese. Aldo è matto, proprio matto, e basta guardarlo adesso mentre ciondola come Gulliver sui resti fumanti della stazione di Bologna. Da quando ho memoria di lui lo vedo chino su un banco da lavoro a costruire treni, galeoni, alianti o mongolfiere – tutti quei congegni, quelle macchine complesse, i miei occhi invidiosi e ammaliati di bambino. Ma a un certo punto diventi grande e vedi che Aldo fa sul serio, che quello è uno strano modo di giocare. Lo vedi mentre imbastisce trame, nodi, rimandi, un mondo in scala ridotta in cui nulla accade per caso. Cause, effetti, moventi, dinamiche dei fatti. Piani leggibili e dettagliati. Oscure zone d'ombra fialmente illuminate. Un dito schiaccia il pulsante e la bomba esplode, l'aereo cade, il treno deraglia, la gente muore.

Aldo costruisce enormi plastici che riproducono gli scenari delle stragi, piccoli mondi arredati con fondali di cartapesta, omini di cera, mattoncini cotti in forno, servo-comandi, complicatissimi circuiti elettrici, polvere da sparo ricavata segando il cartoncino giallo dei raudi. Mi spiega tutto più tardi, in giardino, analizzando le fasi della sciagura, un torrente di dettagli tecnici che capisco solo in parte. È il suo maniacale, privatissimo modo per ridare un senso alle trame, per riprendere il controllo, per replicare alle sentenze e ai depistaggi e al dolore dei famigliari delle vittime con l'inerzia della ripetizione, con lo spietato cinismo del replay, ancora e ancora, ora come allora, tutto perfettamente riprodotto in scala 1:87.

L'anno solare di Aldo è scandito da un calendario metodico, una serie irregolare di scadenze che detta i suoi ritmi di lavoro: 16 marzo, via Fani; 17 maggio, Questura di Milano; 23 maggio, Capaci; 27 maggio, via dei Georgofili; 28 maggio, piazza della Loggia; 27 giugno, Ustica (l'unico evento open air, il minuscolo DC-9 che si inabissa nel vicino Lago Scuro); 19 luglio, via D'Amelio; 22 luglio, Gioia Tauro; 27 luglio, via Palestro; 2 agosto, Stazione di Bologna; 4 agosto, Italicus; 12 dicembre, piazza Fontana; 23 dicembre, Rapido 904; 27 dicembre, Fiumicino. Ha iniziato questa carriera di «modellista del risentimento» (definizione sua) esattamente tre anni, cinque mesi e ventinove giorni fa, e da allora non ha mai bucato una ricorrenza, il dito sul pulsante, l'esplosione, muri o treni squarciati, le creaturine di cera che si squagliano nel fuoco. E anche questa volta era tutto pronto, perfetto, le ragnatele dei binari, le cabine di controllo, tutti i mattoncini gialli della stazione, e poi le banchine, le pensiline in ferro, l'orologio sinistro pronto a bloccarsi per sempre sulle 10.25.

Ma qualcosa deve essere andato storto, continua a ripetere, sotto l'ombra di un pesco, mentre si palpa le sopracciglia arrostite: un contatto, un circuito difettoso, un cedimento dei materiali. Non riesce a spiegarselo, povero Aldo, non si dà pace; e in fondo non è abbastanza pazzo per nascondersi che è impossibile controllare tutto, e forse le cose succedono e basta, e le trame sono solo il frutto patetico del nostro bisogno di connessioni e significati, vittime e responsabili, esecutori materiali e mandanti politici. Forse ci sono troppe storie senza trama ed è per questo, mi dice, che non riuscirà mai a costruire il modello in scala di quella tragedia, il monte innevato, la cabina della funivia che scende, il Prowler in missione Easy 01 che sfreccia come in un film di Hollywood, il cavo tranciato che sibila nell'aria invernale, le minuscole bocche di cera che urlano in picchiata. Una probabilità su un milione. Maledetto idiota. Top Gun del cazzo. L'unica strage che gli manca, l'unica casella vuota nel calendario del suo nevrotico bricolage. Il buco nero del 3 febbraio.

Poi Aldo si mette a piangere, e si incazza, e io finisco travolto in un abbraccio. Lo stringo. Non posso dargli torto: è già dura crepare per colpa della CIA o della P2, ma crepare per colpa di Top Gun è ancora peggio, è proprio la storia che ti prende per il culo. Povero Aldo. Mio padre era il suo migliore amico.

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Poi aveva ricevuto la visita del cappellano, che lo aveva confessato e assolto dai suoi peccati. Un fratone di poche parole, tutto barba e tonaca, con due mani larghe come vanghe e un viso scolpito nel legno. Era stato lui a procurargli l'occorrente per scrivere, e aveva giurato sul Vangelo che avrebbe fatto di tutto per recapitare la lettera a Tito.

Ettore gli diceva di stare tranquillo e sereno, rassegnato alla sorte, perché non aveva nulla da rimproverarsi. E gli tornavano in mente quei versi di Ariosto che il suo insegnante di lettere, il professor Riccardi, gli aveva fatto imparare a memoria; e li scrisse, e raccomandò a Tito di tenerseli a mente, così riadattati, con la loro saggezza ironica e rotonda, perché lo consolassero da ogni rimorso:

        che sarebbe pensier non troppo accorto,
        perder un vivo per salvar un morto.

C'era solo una cosa che doveva chiedere a Tito, e a Julien, e a tutti gli altri. Un conto in sospeso da regolare. Dovevano uccidere Vittorio Maestri. Fargliela pagare. Non dargli scampo. Ettore lo aveva ritrovato lì dentro, il volto incarnato di quella guerra che faceva sbranare i fratelli e i compagni di scuola. Vittorio aveva occhi di ghiaccio e denti di lupo. Aveva addirittura finto di non riconoscerlo. Lo aveva chiamato bastardo, bandito e traditore. L'aveva legato a pancia in giù su un tavolaccio e gli aveva dato trenta bastonate sulla pianta dei piedi. Ma Ettore non aveva parlato. Poi Vittorio gli aveva proposto di entrare nella Repubblica in cambio del tradimento, che avrebbe avuto comodità e privilegi, sigarette e donne a volontà. Ma Ettore gli aveva sputato in faccia. Allora Vittorio l'aveva massacrato di calci, e minacciava di farlo sbranare dai cani dei tedeschi. Nei giorni successivi gli aveva strappato ciglia e sopracciglia, schiacciato le unghie a martellate, stretto un cappio al collo, fulminato i testicoli; gli aveva messo delle candele accese tra le dita dei piedi; poi l'aveva buttato in una vasca d'acqua gelida, appeso a testa in giù, sollevato per le braccia legate dietro la schiena. Alla fine aveva lasciato perdere, e poco dopo c'era stato il processo.

Ettore sapeva che non era un pensiero cristiano, ma chiedeva a Tito e agli altri di fargli quella promessa. Il Signore capirà, scrisse. Capirà me e voi. Perché in questo – continuò – Julien aveva ragione: c'erano cose che non si potevano perdonare, nemmeno a un passo dalla morte; e il loro sacrificio non sarebbe servito a niente se non avessero ripulito il paese da quelle sporche carogne, se non le avessero spazzate via tutte quante, dalla prima all'ultima. Senza pietà. E senza perdono.

Ora basta. Perdonami se mi sono lasciato andare, ma ormai mi restano pochi istanti da vivere. Non è facile trovare le parole giuste, sapendo che saranno le ultime e che quando le leggerai io non ci sarò più.

Vedeva il momento in cui l'avrebbero portato contro il muro, le loro sagome schierate nel plotone: il freddo, il silenzio, quell'istante sospeso nella cenere dell'alba: e poi il fuoco... e il bruciore del piombo che straccia i vestiti e la carne... e lui a terra, lì... morto.

Ma prima – scrisse Ettore – prima avrebbe trovato la forza di gridargli in faccia, a quei porci fascisti, sopra il crepitio dei moschetti che gli avrebbero dato la morte: Viva i partigiani! E viva l'Italia!

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«E come vanno le tue ricerche su quel comandante partigiano? Lucia me ne ha parlato molto. Mi ha detto che sei un po' troppo coinvolto. In queste cose bisogna stare molto attenti.»

«Sì, lo so. Pochi fatti e troppe emozioni. Temo che mi manchi completamente il distacco obiettivo dello studioso: mi faccio trascinare dal lato romanzesco della storia.»

«Ma la piazza era piena?» sento dire a Giorgio, che torreggia dietro le mie spalle.

«Mah», esita Maria Grazia, «dalle immagini sembrava di sì, però non ti saprei dire con certezza.»

«Bah», dice Giorgio. «C'è solo da sperare che i talebani facciano fuori qualche nostro soldato, così vedremo quanta gente andrà ancora a sventolare le bandiere americane. Lucia, cara, mi passi l'insalata russa?»

«Suvvia», lo riprende Maria Grazia. «Non fare il cinico. Mhm, che meraviglia! Io vado letteralmente pazza per l'insalata russa.»

«E allora coraggio, mia cara: allunga il piatto. Oh, ma non voglio mica una strage: basterebbero due o tre bare avvolte nel tricolore.»

«Ma avete sentito quel guitto che scimmiottava Kennedy? 'Oggi siamo tutti newyorkesi!' Dio, Lucia, il tuo tortino è assolutamente superlativo!»

«Coglione», borbotta Giorgio. «Che stratosferico coglione! Tutti newyorkesi!»

«La cosa incredibile», dice Mario, «è questa retorica della libertà, il ricatto morale della storia. Insomma, loro ci hanno liberato da Hitler e ci hanno sfamato con il piano Marshall, e adesso saremmo così ingrati da negargli i nostri soldati? Ragazzi, come diceva Superman, questo è un lavoro per noi: insegnare un po' di senso storico alle nuove generazioni.»

«In realtà», dice Lucia, «temo che sia la prova del nostro fallimento.»

«Newyorkesi!» continua a borbottare Giorgio, impigliato in un suo pensiero.

«Lo sai che sono un ottimista», dice Mario.

«Forza», dice Giorgio. «Scagli la prima pietra chi non ha avuto almeno un briciolo di soddisfazione vedendo le due torri che crollavano, quello spettacolo grandioso e quella minuscola, vergognosa scheggia di allegria piantata in fondo allo stomaco, sotto l'angoscia e il terrore. Chi è quel pittore che ha definito l'11 settembre la più grande opera d'arte della storia?»

«È un musicista», dice Lucia. «Karlheinz Stockhausen.»

Laura è in piedi al capo opposto del tavolo, agnostica e silenziosa, indifferente a conquistarsi una battuta o ad arginare il cinismo del suo venerabile amante. Ho sempre invidiato quelli che riescono a resistere nel fluido delle relazioni sociali, che sanno restare saldi e immobili, sordi al dialogo, immuni all'imbarazzo, perfettamente al centro di se stessi. Le rocce nella corrente. Gli alberi nel vento. Me la vedo che cammina lungo una striscia di terra di nessuno, un erboso confine dismesso della guerra fredda, prati e colline in un angolo sonnolento dell'Europa orientale: guarda lontano, i biondi capelli nel vento, le garitte delle guardie, l'erba al ginocchio, le due siepi di filo spinato che si perdono all'orizzonte. Poi riesce ad aprirsi un varco tra bocche aperte e mani gesticolanti per riprendermi con i suoi occhi fissi e azzurri, occhi levigati e senza fondo, come piccole uova di turchese. Alza il bicchiere in un muto augurio di felicità e trionfi. Io rispondo al gesto, e ho la vaga impressione di sorridere.

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Così, nell'aprile del '44, le bande partigiane che operavano a ovest del Taro furono riunite in un'unica brigata, con sede a Bardi. Vennero raccolti e archiviati tutti i dati delle formazioni, gli organismi di comando, gli elenchi dei componenti, le basi, le zone operative, perfino le foto dei comandanti. Tutti i distaccamenti dovevano stilare relazioni periodiche e inviarle al comando di brigata. Colline e montagne formicolavano di staffette, una ragnatela di tragitti clandestini. Nei paesi cominciò a formarsi una rete di collaboratori incaricati di sorvegliare il territorio, reperire cibo e vestiti, fornire informazioni sui movimenti delle truppe nemiche. Per i rifornimenti alimentari si sviluppò un servizio di intendenza, con magazzini, carri e anche qualche camion requisito ai tedeschi. Le difficoltà maggiori erano sul fronte dei finanziamenti: ogni tanto arrivavano poche migliaia di lire dal CLN provinciale, e per il resto bisognava cavarsela con i buoni di prestito o con le estorsioni ai danni di industriali e impresari edili, tutti traditori al soldo della TODT. Venne istituito anche un tribunale di brigata, con il comandante e il commissario come giudici e una giuria composta da partigiani appositamente nominati, uno per ogni distaccamento.

Tito fu parte attiva di quel formidabile lavoro, l'inverosimile risposta di un popolo anarchico e intontito da vent'anni di dittatura, deciso a colmare il vuoto di potere lasciato dal crollo del regime e dall'occupazione straniera. Riuscì a farsi nominare vicecommissario di brigata e si trasferì presso la sede del comando. Partecipò anche a varie riunioni in cui si discusse di Julien, dei problemi che creava, dei rischi assurdi a cui esponeva l'intera brigata. Ma fu proprio Tito a difenderlo, per calcolo politico o per un oscuro debito sentimentale che non avrebbe mai potuto confessare. Si oppose all'idea di privarlo del comando e di disarmare i suoi uomini, se non altro – spiegò – perché sarebbe diventato ancora più incontrollabile, un brigante dei boschi o un eroe da ballata medievale. Così gli lasciarono il suo spazio, con qualche disposizione a fargli il vuoto intorno e una sorta di tacita tolleranza, la condiscendenza nei confronti di un distaccamento a statuto speciale. Julien e Tito furono peraltro concordi nell'assegnargli il nome, distaccamento d'assalto «Ettore»: un atto dovuto, o forse un tributo pubblico al loro senso di colpa.

Era un distaccamento molto strano, dice Sandro, una nave fantasma che veleggiava sulle colline partigiane. Una ventina di uomini cenciosi, barbuti, divorati dai pidocchi, selezionati dalla rabbia della lotta e della vita. Julien li guidava con le sue teatrali pose da guerrigliero, i capelli lunghi, il mantello stracciato e il mitra sempre a tracolla. Un organismo politicamente assurdo, fatto di individualismo, anarchismo e socialismo umanitario, in cui il culto del capo conviveva con un ideale di uguaglianza assoluta. Nessuno sapeva mai esattamente dove fossero, imprendibili per i nemici e incontrollabili per gli stessi comandi partigiani. Cambiavano continuamente base e sfera d'azione, tra Borla, Rigollo, Pietranera, Castellaro, Iggio, Specchio, il Barigazzo. Violavano i confini delle zone assegnate ad altre formazioni, con inevitabili occasioni di scontro e tentativi di disarmo. A volte invadevano i borghi o facevano festa nelle aie con i contadini. Correvano per i monti e guadavano i torrenti. Apparivano, colpivano, svanivano tra gli alberi o negli anfratti del terreno. Creature dei boschi. Banditi. Fantasmi. Ogni tanto calavano sulla fascia pedemontana e si spingevano in pianura, con imboscate notturne alle colonne nemiche che transitavano sulla via romana. Furono avvistati anche a Borgo nelle ore del coprifuoco, e qualcuno diceva che Julien scendesse in paese per vedersi di nascosto con sua cugina Anna, bella come la notte, il suo amore segreto, il tallone d'Achille dell'eroe. Impossibile inquadrarli. Impossibile disegnare su una mappa tragitti che sembravano seguire i capricci di una farfalla, scarti, tuffi, saltelli, come quelle piccole farfalle blu che la gente spergiurava di vedere dopo il passaggio di Julien.

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«Signor Lerici, c'è un'altra cosa che volevo chiederle di Julien. Un episodio oscuro di cui ho sentito parlare.»

«Quell'uomo era specializzato in episodi oscuri.»

«Questo è un caso particolare, un tentato omicidio ai danni di un civile. Da quel che mi risulta, ha rapito un uomo che non c'entrava nulla e ha cercato di ucciderlo senza motivo, anche se qualcosa deve averglielo impedito.»

Sandro mi fissa sospettoso, come se avesse indovinato tutto: «E sa come si chiamava quell'uomo?»

«Purtroppo no», mento. «Però doveva essere un personaggio noto, molto conosciuto in paese. Forse un avvocato, o un ingegnere.»

«Un fascista?»

Dal modo in cui mi guarda e sibila la domanda sento che il gioco si fa terribilmente serio, ma ormai è troppo tardi per fermarsi. «Mah», esito, «può darsi, però non credo che fosse un repubblichino. Mi sono fatto l'idea che avesse aderito al fascismo in passato, un po' come tutti, magari perché doveva mantenere la famiglia e non aveva la stoffa dell'eroe. Ma non c'entrava niente con la guerra.»

È la prima volta che nello sguardo di Sandro affiora un'ombra di sconforto e disprezzo, questi giovani che non hanno visto niente, che non capiranno mai niente, con il culo nel burro e la testa piena di cliché: «Questa è proprio una sciocchezza», dice duramente. «Quando c'è una guerra civile c'entrano tutti, nessuno può starne fuori. E non è vero che eravamo tutti fascisti: c'era Pablo, c'erano tanti ragazzi che sono morti a vent'anni. C'era Ettore», e la voce si incrina ancora dello stesso dolore, «che è stato torturato da quelle carogne, gente come Vittorio Maestri, che una volta erano nostri amici. In questo paese dobbiamo smetterla di dire che siamo tutti un po' mascalzoni, che in fondo anche i migliori sono sporchi di fango. È un alibi schifoso, un pretesto per non uscire mai dal porcile.»

«Ma cosa dovremmo fare?»

«Dovevamo ucciderli tutti.»

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Pagina 204

Anche il dottor Pietraviva gioca con la storia. Anche lui ne ha fatto un'ossessione privata, un ingombrante oggetto da collezione. Non saprei dire perché, ma avverto un certo disagio, un senso di sprofondamento e di affanno quando mi guida giù per le scale nel suo laboratorio sotterraneo, un ambiente ovattato e imbottito, soffitto basso, luci soffuse e una folta moquette marrone. Un enorme tavolo addossato a una parete sorregge apparecchi che so nominare solo in parte – registratori, giradischi, amplificatori, computer, casse, cuffie, anche un vecchio magnetofono con le bobine a nastro. Led colorati e lancette oscillanti. Una ragnatela di cavi elettrici. Le pareti sono interamente rivestite di scaffali sovraccarichi di dischi, cassette, bobine – il grande cimitero delle voci, migliaia di testimonianze su vari avvenimenti storici raccolte nel corso degli anni e archiviate in sezioni tematiche, contrassegnate da etichette bianche: RESISTENZA, GUERRA FREDDA, SESSANTOTTO, STRAGI, TERRORISMO, CASO MORO, P2, FEMMINISMO, TANGENTOPOLI...

«Un lavoro incredibile», gli dico. «Ma riceve qualche contributo? Qui si potrebbe fare un grande centro di documentazione.»

Vedo un'ombra che gli passa sul viso. «Bah, decideranno i miei eredi quando sarò morto. La vita si spegne...» Poi, con violenza: «Ma adesso è roba mia! La mia opera, il mio monumento ai caduti! O solo al mio fallimento...»

«Ma perché dice così?»

E qui il disagio si fa più netto. Me ne rendo conto con un vago senso di pericolo, mentre vedo passare una scena alla Quentin Tarantino. Forse quest'uomo è pazzo. Mi ha portato quaggiù nella sua cantina insonorizzata, si è richiuso la porta alle spalle, ed è completamente pazzo. Adesso mi lega a una sedia, prende una motosega e mi taglia a pezzi. Per fortuna si limita a uno sguardo esasperato e a un gesto di stizza di fronte alla mia incredibile stupidità, alla mia domanda idiota. Perché dico così? Perché dico così? Ma si può essere tanto idioti?

«Dico così perché ho fallito! Io avevo un progetto, un'idea grandiosa. Nessuno ci aveva pensato, eppure la tecnologia era a portata di mano. Catturare le voci, mettere la storia su nastro, tutto quello che non ci hanno raccontato. Le voci di quelli che non parlano mai. Ho passato la vita a correre su e giù per l'Italia con un microfono e un registratore. Adesso è facile, con questi apparecchi sempre più piccoli, ma lo sa quanto pesa un magnetofono degli anni Cinquanta? Mi sono spezzato la schiena, ed è stato tutto inutile: ci sono troppi vuoti, tante cose che non sapremo mai. Avrei voluto incidere tutto e non ce l'ho fatta, la vita si spegne. Non sono riuscito a salvarmi.»

Vorrei fare anch'io il filosofo e spiegargli che la vita è fatta di omissioni, dimenticanze, lacune; che solo i vuoti ci permettono di dare un senso ai pieni e che l'unico effetto possibile della totalità è il delirio, o forse l'asfissia. Ma mi limito a fissarlo con lo sguardo più empatico che riesco a escogitare. In questi casi il silenzio è l'unica risposta giusta.

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Pagina 298

Poi lei infila il cd, abbassa le luci, mi fa segno. Ma dici a me? Davvero? Facciamo sul serio? Così mi avvicino, le cingo la vita, sento le sue braccia che mi stringono, la pressione del seno, i capelli sulle guance e sul collo. Non mi vergogno a dirlo: è da una vita che sognavo di ballare Love me tender in un momento così, stupidamente felice e parecchio sbronzo. Forse ho trovato una di quelle cianfrusaglie da fiabe orientali, la chiave di tutti i desideri. All my dreams fulfilled. Pazienza per Gerusalemme e le isole Marchesi. Cibo, vino, la testa vuota, Elvis che canta Love me tender. E Lucia, qui, tra le mie braccia.

Poi c'è il momento che tutti aspettavamo, il clou, la scena madre, sviolinate in crescendo e titoli di coda. La musica in realtà è un fondale lontano, grappoli di note che rotolano su pareti e soffitto, a una distanza indefinita. Pensieri che si aggirano nella penombra. E l'impressione di muovere grandi bracciate nel vuoto, sempre sul punto di cadere. Sarà la sbronza?

Ho ricordi confusi, sensazioni malferme, ma indubbiamente c'è stato un momento in cui Lucia si è slacciata da me. Ora è tutta affondata nella poltrona, l'aria sfinita e gli occhi lucenti, mentre io mi ostino a ciondolare sul palcoscenico in cerca di un ritmo, quella musica remota, la penombra, le bracciate nel vuoto. Lei sta ridendo, e io l'amo selvaggiamente quando ride.

Mi hai sentito? Ti amo selvaggiamente. Continua a ridere.

La guardo, e intanto le parole mi si formano dentro, si srotolano fino alla lingua, sono serpenti in una fossa, arabeschi di una moschea, una danzatrice indiana in un boschetto. Ti guardo, Lucia, e continuerò a guardarti finché campo, e tu continua a ridere e intanto ascoltami bene, perché noi abbiamo ragione, mi senti? perché noi abbiamo ragione! e perché ne vale sempre la pena, e me ne frego se da tremila anni si canta sempre la stessa canzone, la canto anch'io e ti dico che sei la bellezza completa, il senso ultimo, la ragione di tutto, ma poi in realtà sono tutte stronzate perché sei solo tu, Lucia, quel tuo grande corpo di carne e tutto quello che hai fatto, quello che senti, quello che sei, qui, davanti a me, e per questo starò qui a guardarti fino alla fine del mondo, magari adesso la pianto con il numero dell'orso ballerino e ti guardo e basta, ti parlo, ti dico tutto in un fiume di parole amorose, l'occhio stralucido e il respiro caldo di vino, ma tu ascoltami, apri le orecchie, perché mi gira follemente la testa e non è solo colpa del vino che ho tracannato.

Lucia...

Ma lei mi fa segno. D'un tratto smette di ridere e mi fa segno. Mi dice Taci. Silenzio. Niente parole. O forse non dice niente. Fa solo un cenno con la mano.

Poi si alza, così alta e forte e sicura nel suo silenzio. Viene verso di me, o forse anch'io vado verso di lei. Ci muoviamo come gatti eppure è tutto così veloce, qualcosa mi sfugge, qualche passaggio intermedio o indumento che vola. Lei che si sfila il maglione e sotto c'è solo la pelle, una cosa che mi fa impazzire; io che faccio saltare il reggiseno con un clic alla Fonzarelli; lei che non ha più i pantaloni e nemmeno io, un gioco di prestigio, via anche le mutande (e le calze? la mia camicia? mah!), e alla fine ci sono i nostri corpi nudi abbracciati, c'è lei contro di me, la sua pancia, le cosce, le mie mani sulle onde della schiena e dei fianchi, tutto quel calore dilagante del seno che mi avvolge, una consistenza che si può solo sentire, mordere, baciare, e le parole non servono a nulla per farlo capire a chi non lo sa.

E allora taci, Cristo santo.


Dissolvenza. Silenzio. È l'ora in cui tutto si spegne e restiamo solo noi due, immersi nel tempo, in contatto con la terra.

Sì, ti amo.

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